giovedì 25 aprile 2024

25 aprile, la Sinistra ha bisogno del Fascismo per esistere







Di Stefano Fontana, 25 APR 2024

Perché la sinistra italiana non può fare a meno del fascismo? Perché senza di esso si sente nuda? Molti si porranno questa domanda dato che ogni 25 aprile, ma non solo, lo spettro del fascismo viene nuovamente evocato. Succede anche in questi giorni con la fantasmagorica polemica sul monologo di Antonio Scurati e la richiesta a Giorgia Meloni di dichiararsi antifascista. Il tutto fa pensare che senza il fascismo da combattere il ruolo storico della sinistra cessi e la sua presenza politica venga delegittimata. Questo suo impegno è tanto forte che non si accorge di finire per proporsi come una forza politica che non ha un senso in sé, ma solo come sentinella di qualcos’altro, come antidoto di un veleno e non come medicina, come esorcismo di un fantasma.

Un primo motivo di questa fascio-dipendenza ci rimanda alle origini della nostra Repubblica e spiega perché, come diceva Augusto Del Noce, la sinistra ha avuto bisogno di intendere e imporre il fascismo come «male assoluto». La sua era una visione «demonologica del fascismo», inteso come la negatività pura. Il fascismo non era solo la «reazione» ma la negazione dell’esito finale dell’evoluzione della storia, che il marxismo supponeva di conoscere bene.
Con questo «male puro» non ci può essere storia, esso va solo eliminato. Con acutezza Del Noce osservava che il fascismo per la sinistra è il «surrogato del diavolo» e aggiungeva: «Quando si pensa di essersi liberati del mito del diavolo, si satanizza una determinata realtà storica».

Tra il ‘43 e il ‘45 la sinistra italiana, e in particolare il partito comunista, aveva bisogno di legittimare la sua «scelta democratica» per la nuova Repubblica, data l’importanza di questo passaggio secondo la strategia di Gramsci e Togliatti. Il partito comunista non era democratico, la sua ideologia non lo permetteva. Però, come la Russia di Stalin aveva combattuto contro il nazismo, così i partigiani comunisti e l’intero CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) aveva combattuto contro il fascismo: questo poteva dare alla sinistra italiana una patente democratica, anche se il motivo della sua lotta contro Mussolini non era stata la democrazia e nemmeno la libertà come noi oggi la intendiamo e come non la intendeva Giancarlo Pajetta.

L’opposizione al fascismo come “male puro” era quindi necessaria, sia per depotenziare e nascondere il male rappresentato dal comunismo, che a quel punto diventava un male non puro, sia per trovare accoglienza nella democrazia repubblicana, dentro la quale continuare la rivoluzione con altre armi. Nel 50mo anniversario della fondazione del PCI, agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, i comunisti lanciarono ”l’unità antifascista”. Capitava così che il no all’unità antifascista venisse automaticamente inteso come un sì al fascismo. La stessa cosa capita oggi, con la richiesta a Giorgia Meloni di aderire alla nuova unità antifascista voluta dalla sinistra dopo il caso Scurati.

Questa visione richiedeva che il fascismo non morisse mai, perché in questo caso sarebbe venuta a mancare quella legittimazione, e che fosse inteso come assoluto, per essere appunto immortale e capace di trasformarsi in mille fogge. Inutile far notare che oggi il fascismo non c’è più, che è finito nel ’45, che non si capisce contro chi esattamente si vuol muovere organizzando le varie “unità antifasciste”, perché la sinistra pensa che il fascismo sia misteriosamente sopravvissuto al 25 aprile 1945 e continuamente riaffiori, non essendo mai morto. Per questo, pur non essendoci più il fascismo, comunque Giorgia Meloni e tanti altri nemici della sinistra, possono essere fascisti.

La sinistra ha creato il mito della resistenza ad un fascismo così inteso come matrice della nuova Repubblica. In questo modo ha fatto partecipe del concetto di fascismo come “male puro” l’intero quadro costituzionale e l’idea fu ufficializzata dalla retorica delle istituzioni repubblicane. Questo ha comportato un ingessamento delle celebrazioni del 25 aprile, tutte inserite nel medesimo quadro interpretativo, con l’esclusione – anzi con la demonizzazione – di chi fosse interessato ad una celebrazione più aderente alla storia. La prova principale di questo fenomeno è che ad ogni celebrazione del 25 aprile si fa a gara per individuare nell’attualità le nuove forme del fascismo eterno, e così l’accusa rimbalza da un personaggio all’altro a seconda delle convenienze del momento, addirittura senza che sia necessario che gli accusati ne siano consapevoli.

La storiografia ha chiarito molte cose a proposito del fascismo storico, ma il mito le ha oscurate. Per esempio, la vulgata di sinistra presenta il fascismo come un fenomeno “conservatore” che vorrebbe far tornare indietro la storia, mentre invece esso è stato un ampio processo di modernizzazione. Una visione delle cose in termini di guerra civile europea (Ernst Nolte) e Italiana (Claudio Pavone) poteva essere utile a impostare convenientemente anche la celebrazione del 25 aprile in modo più inclusivo. Nemmeno i libri di Renzo De Felice o di Giampaolo Pansa sono serviti più di tanto a correggere quella costruzione culturale.

Un ultimo aspetto rimane da spiegare. Dopo che il partito comunista ha abbandonato l’idea della rivoluzione come mai la sinistra non ha abbandonato anche questa idea del fascismo come “male puro” che alla rivoluzione era funzionale? Il motivo è che l’idea della rivoluzione non è stata abbandonata, ma è stata suicidata e trasfigurata. È diventata la dissoluzione di quanto è naturale, per cui anche la giornalista Cora Boccia, che afferma essere l’aborto un delitto, può benissimo essere considerata fascista.

Stefano Fontana

(Foto: Flickr, CAU Napoli)




Bergoglio, “l’amore omosessuale è un dono”?




giovedì 25 aprile 2024






Nella traduzione di Chiesa e post-concilio da The Catholic Thing.



Eduardo J. Echeverria*

Nel suo recente libro, LIFE: My Story Through History (Life: la mia storia attraverso la storia), Papa Francesco auspica il sostegno legale alle unioni civili tra persone dello stesso sesso “che sperimentano il dono dell’amore”. In che senso, se esiste, l’amore omosessuale è un dono?

Il pensiero della Chiesa è che certamente non può essere un dono di Dio, né naturale (creaturale) né soprannaturale (sacramentale). Secondo il Catechismo della Chiesa Cattolica, la fonte ultima dell’amore è Dio stesso. Citando l’Esortazione apostolica di Giovanni Paolo II del 1981, Familiaris Consortio, il Catechismo della Chiesa cattolica afferma:

Dio è amore e in se stesso vive un mistero di comunione e d’amore [eternamente unito nell’essere, nella relazione e nell’amore]. Creando il genere umano a sua immagine e somiglianza… Dio ha iscritto nell’umanità dell’uomo e della donna [Genesi 1, 27] la vocazione, e quindi la capacità e la responsabilità, dell’amore e della comunione.

L’osservazione di Francesco, a prima vista, non sembra considerare l'”amore” omosessuale come una forma d’amore intrinsecamente disordinata. Pensa forse che chi ha attrazione per lo stesso sesso sia in grado di vivere la vocazione alla castità, e quindi all’amore, in una relazione omosessuale? Come potrebbe l’omosessuale farlo? La vocazione alla castità implica la differenziazione sessuale tra un uomo e una donna, che secondo l’antropologia cristiana significa “la riuscita integrazione della sessualità nella persona e quindi l’unità interiore dell’uomo nel suo essere corporeo e spirituale”.

Il Catechismo spiega: “La sessualità, nella quale si manifesta l'appartenenza dell'uomo al mondo materiale e biologico, diventa personale e veramente umana allorché è integrata nella relazione da persona a persona, nel dono reciproco, totale e illimitato nel tempo, dell'uomo e della donna.”.

La castità, quindi, presuppone la differenziazione sessuale di maschio e femmina, in modo tale che solo l’unione sessuale di persone di sesso maschile e femminile rende i corpi realmente “una sola carne” (Gen 2,24), con quest’ultima unione corporea materiale come condizione necessaria per l’esistenza di un autentico amore coniugale.

L’amore omosessuale non è un dono, anzi è un falso amore, perché è incapace di realizzare la vocazione alla castità, di perfezionare l’essere della persona e di sviluppare la sua esistenza; e quindi di essere ordinato alla legge naturale, all’ordine della Creazione, e in definitiva a Dio. In quanto forma disordinata di amore, essa non solo manca di integrazione, ma è una contro-integrazione in quanto offesa alla vocazione alla castità, rendendola incapace di realizzare l’integrità della persona e lla completezza del dono di sé.

L’antropologia cristiana deve considerare la realtà della persona umana, dell’uomo e della donna, nell’ordine dell’amore. Perché? Perché, come afferma giustamente Karol Wojtyla nella sua opera magna filosofica, Amore e responsabilità, “la persona trova nell’amore la massima pienezza del suo essere, della sua esistenza oggettiva. L’amore è quell’azione, quell’atto, che sviluppa con maggior pienezza l’esistenza della persona. Naturalmente, questo deve essere vero amore. Che cosa significa amore vero?”. 

L’amore è un concetto analogico, il che significa che ci sono diversi tipi di amore: l’amore paterno, l’amore tra fratelli e sorelle, l’amicizia e, infine, l’amore tra un uomo e una donna (“L’amore tra un uomo e una donna è una relazione reciproca tra persone e possiede un carattere personale”).

In breve, l’amore comporta l’attrazione per i valori sensoriali-sessuali e per quelli spirituali o morali dell’altra persona, per esempio, dice Wojtyla, “per la sua intelligenza o per le sue virtù di carattere”. Esistono anche l'”amore di bisogno”, o amore come desiderio, e la “benevolenza”. L'”amore di bisogno” desidera “la persona come un bene per se stessi”. L’amore come benevolenza consiste nel desiderare il bene dell’altro. “La benevolenza è semplicemente il disinteresse nell’amore: ‘Non desidero te come bene’, ma ‘desidero il tuo bene’, ‘desidero ciò che è bene per te'”.

Wojtyla passa poi al problema della reciprocità, che porta alla sintesi “dell’amore di desiderio e dell’amore benevolo”. La reciprocità implica la relazione tra “io” e “noi”. E qui si forma una comunione interpersonale:

L’amore trova la sua pienezza non solo in un soggetto individuale, ma in una relazione intersoggettiva, interpersonale... Il passaggio dall’io al noi è per l’amore non meno essenziale del trascendere il proprio io espresso attraverso l’attrazione, l’amore di desiderio e l’amore di benevolenza.Essendo intrinsecamente disordinato, l’amore omosessuale non è in grado di formare una comunione interpersonale dove l’unità si manifesta nel “noi” maturo. Infine, Wojtyla vede la pienezza dell’amore come l’amore di dono, o quello che chiama amore sponsale, che è il donarsi all’altro, che implica la reciproca donazione delle persone. E aggiunge: “Il concetto di amore sponsale [dono] ha un significato chiave per stabilire la norma di tutta la morale sessuale”.

Poiché l’uomo – maschio e femmina – è creato nell’amore e per l’amore, di conseguenza l’etica sessuale non è comprensibile senza l’amore. Questo punto cruciale di trovare nell’amore la massima pienezza del proprio essere deve essere applicato all’amore tra un uomo e una donna.

“L’amore è un’unione di persone”, dice Wojtyla, un’unione oggettiva in cui l’uomo e la donna costituiscono “un solo soggetto d’azione”, in un certo senso “una sola carne”. (Questa unione non può essere separata dal suo fondamento biologico nelle differenze organiche tra i sessi). Questa unione oggettiva nasce da “un bene comune”, un “bene oggettivo”, cioè il bene delle persone umane, e da un “fine comune”, che le lega.

Questo fine è la procreazione, la progenie, la famiglia, e allo stesso tempo l’intera maturazione in costante crescita della relazione tra le due persone in tutti gli ambiti che la stessa relazione coniugale implica.Di conseguenza, quando il Catechismo afferma che gli atti sessuali omosessuali sono chiusi al dono della vita, è perché tali atti non hanno un’unione oggettiva nella differenziazione sessuale di un uomo e una donna. “In nessun caso possono essere approvati”. Tali atti sono “peccato gravemente contrario alla castità”. Quindi, l’amore omosessuale non è un dono.




*Eduardo J. Echeverria è professore di filosofia e teologia sistematica presso il Seminario Maggiore del Sacro Cuore di Detroit. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo Papa Francesco: The Legacy of Vatican II Revised and Expanded Second Edition (Lectio Publishing, Hobe Sound, FL, 2019) e Revelation, History, and Truth: A Hermeneutics of Dogma. (2018). Il suo nuovo libro è Are We Together? Un cattolico romano analizza i protestanti evangelici.


[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]




Crisi della Chiesa, crisi di Santi, crisi di santi preti. Ettore Gotti Tedeschi.




22 Aprile 2024

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, offriamo alla vostra attenzione queste riflessioni del prof. Ettore Gotti Tedeschi, che ringraziamo di cuore. Buona lettura e condivisione.





Caro Tosatti, mi vuole concedere una riflessione di carattere morale, che come conseguenza ha tutti quei grandi problemi che lei,molto opportunamente, descrive ininterrottamente nel suo blog?
La crisi che stiamo vivendo è una crisi di santi, di santi preti anzitutto. Pertanto le chiedo di ospitare una riflessione (non mia, ma da me adattata) che spero sia utile a chi vorrà leggerla.

Domenico Giuliotti (1877-1956), uno dei maggiori intellettuali cattolici del ‘900, è poco conosciuto, come lo sono spesso le menti eccelse che pretendono però di contribuire con i loro scritti alla evangelizzazione, proponendo di riflettere sulle Verità assolute. Nel 1937 pubblicò un libretto “Pensieri di un malpensante” (Vallecchi ed. Firenze). Il capitolo titolato “Splendori e miserie della chiesa militante” dovrebbe oggi essere letto, nei momenti di pausa, nei Seminari (e perché no, anche in famiglia davanti al “focolare” domestico).

Riprendo (arbitrariamente adattandole per renderle più dirette e, secondo me, più facili da intendere) alcune considerazioni che sono preziose.

Ohimè, considerate “sorpassate”, come direbbe don Camillo di Guareschi: “chissà mai perché..?”.

Scrive Giuliotti che la Chiesa (quella con la “C “ maiuscola), nonostante tutto, è la grande sconosciuta. Ohimè, oggi sconosciuta ancor di più direi, confondendola con una organizzazione sociale. La gran parte dei suoi figli infatti non sa che la Chiesa è stata voluta per amarli, assisterli, nutrirli, perché (anche questo i suoi figli l’hanno dimenticato) i suoi figli nascono in Lei e fuori da Lei muoiono.

Non ci sono, dice Giuliotti, molte chiese, ma solo due: quella di Cristo e quella dell’Anticristo.

Così come non ci sono varie guerre, ma una vera: tra Cristo e l’Anticristo. Il grande conflitto non è infatti sociale o culturale, bensì spirituale.

Pertanto, rivolgendosi ai santi sacerdoti, raccomanda due cose: transustanziare e confessare. E, aggirandoli con una domanda spirituale, chiede loro: giovane prete, a chi misticamente assomigli tu? A Cristo, rispondi. Si certo, ma prima che a Cristo devi somigliare a Maria, perché come Lei, porti in te Cristo, devi sentirlo crescere e devi partorirlo, custodirlo, donarlo alle anime. Tu, essendo prete, stai in alto, ma sei congiunto alle anime sottostanti che devi sollevare alla gloria. Se non lo fai, sei, essendo prete, deicida, omicida e suicida.

Pensaci !Dal giorno della tua ordinazione alla morte, resti immerso nel soprannaturale. Ma te ne accorgi? Potevi essere padre secondo la carne, lo sei invece senza generare figli, lo sei in modo più puro, più nobile, più fecondo. Sei padre, maestro, fratello e servo di una comunità di famiglie, hai le chiavi della porta della salvezza. Solo che tu pronunzi parole misteriose, in una lingua morta (così scrive Giuliotti nel libro), schiere di angeli si inginocchiano invisibilmente intorno a te e Dio stesso si da prigioniero nelle tue mani. Questo uomo, caro prete, è il prete cattolico. Sei la fiaccola sul candelabro che vince il buio, tuttavia la tua miseria umana è quasi uguale alla tua sovrumana grandezza. Cancelli i peccati, ma pecchi tu stesso.

Diffondi la vita ma non vivi secondo i doveri del tuo ministero. Ma proprio per questo dobbiamo amarti ed aiutarti perché il peso che porti è grandissimo e la tua forza è spesso inadeguata. E’ difficile per noi cattolici comuni separare il sacerdote dall’uomo, venerando quello e compatendo questo. Eppure il prete è per la investitura ricevuta la più grande luce di questo mondo. Se si spegne, si spegne la stessa Civiltà cristiana.




Nel nome dell'arte in chiesa entrano anche le mutande



Biancheria intima (di marmo) tra le navate di San Fantin a Venezia. Simbolo della spoliazione e dell'umiliazione dei prigionieri, spiegano i curatori. Ma davvero tutto è concesso in un luogo di culto?


DA SPAZIO SACRO A CONTENITORE

EDITORIALI 




207 mutande sparse sul pavimento della chiesa veneziana di San Fantin in occasione della 60° Biennale di Venezia: non le ha dimenticate lì qualche visitatore distratto, ma è l’ultima frontiera del dialogo tra gerarchie ecclesiastiche e una certa arte contemporanea che, se mira a provocare, di sicuro coglie nel segno. E non di rado lascia perplessi.

Le mutande candidissime, non di bucato fresco bensì di marmo, sono il “pezzo forte” della mostra NUMBER 207 dell’artista iraniano Reza Aramesh, dedicata al tema della prigionia e della tortura, che fa da filo conduttore a tre diverse serie di sculture e si riflette anche nello spazio espositivo, la chiesa di San Fantin, dove aveva sede una confraternita dedita all’accompagnamento spirituale dei condannati. «Questo dettaglio storico sulla Compagnia di San Fantin – spiega il curatore Serubiri Moses – si collega direttamente all'interesse dell'artista Reza Aramesh per le immagini di tortura e punizione dei prigionieri attuali», che nel catalogo si alternano a quelle della mostra.

La prima serie si compone di varie teste umane, dalla perfezione michelangiolesca e il volto in tutto o in parte bendato; la seconda rappresenta delle figure maschili in differenti fasi di spoliazione, le cui pose ricordano per certi versi i Prigioni o Schiavi di Michelangelo; quindi i 207 pezzi di biancheria intima maschile, simbolo per eccellenza della spoliazione (fisica e non solo) del prigioniero che viene privato di tutto. Quest’ultima serie era già stata esposta lo scorso anno a Vienna, presso la Galerie Kandlhofer, ma di sicuro con minore impatto rispetto a un luogo di culto.

Collocazione tutt'altro che casuale, e non solo per il dettaglio storico sopra citato. «Un’esperienza che va oltre la pre-comprensione che ciascuno può avere di ciò che è lo spazio della chiesa e di quali emozioni vi si possono sperimentare», scrive in apertura del catalogo, don Gianmatteo Caputo, architetto e delegato del Patriarcato di Venezia per i beni culturali, sottolineando l’«inattesa possibilità di costringere a riflettere sul sistema di punizione, giudizio e violenza» ed esaltando la caratteristica di «site-specific project» della mostra, cioè pensata appositamente per quel luogo. Per esempio le colonne dell’edificio sacro «nascondono e rivelano le opere in un confronto reale con il tema dell’oppressione e della violenza, ma sublimato dal classicismo e dall’estetica del marmo». Ma l’altro aspetto che rende il progetto «site-specific» è la Crocifissione dipinta intorno al 1590 da Leonardo Corona (o Leonardo da Murano) che “dialoga” con le mutande di Aramesh: «L’orrore dell’umiliazione è sublimato, ma rimane ancora la perdita dell’umanità, simboleggiata – scrive ancora don Caputo – dai resti di biancheria usata che si ricollegano al perizoma di Cristo sulla croce. È un riferimento diretto al dipinto di Corona che colpì l’artista nella sua prima visita alla chiesa».

Come tutte le chiese, anche San Fantin è «destinata al culto divino» (can. 1205), stando almeno al diritto canonico. Non risulta che sia stata sconsacrata, tant’è che un anno fa il Patriarcato ne annunciava la riapertura ai fedeli «come luogo di preghiera», accanto a «proposte di musica sacra» perfettamente compatibili con la specificità del luogo («la cantata di Bach “Am Abend aber desselbigen Sabbats” per soli coro e orchestra e il Magnificat di Antonio Vivaldi»). Accanto alla preghiera e ai sacramenti, nelle chiese è «consentito solo quanto serve all'esercizio e alla promozione del culto, della pietà, della religione, e vietata qualunque cosa sia aliena dalla santità del luogo. L'Ordinario, però, per modo d'atto può permettere altri usi, purché non contrari alla santità del luogo» (can. 1210).

Lasciamo che sia il lettore a chiedersi se le mutande marmoree rientrino in questi «altri usi ... non contrari alla santità del luogo», ma ci sentiamo in buona compagnia leggendo un commento in margine a un articolo di Artslife: «Bisognava mettere come simbolo delle mutande? – chiede una lettrice – Di indumenti l’uomo ne indossa anche altri. Perché non una canottiera, sarebbe stato più dignitoso in una chiesa». Pur esplorando il "perché" e il "percome" dell'iniziativa, le dotte e profonde spiegazioni non mettono a tacere la domanda sull'opportunità di esporre biancheria intima in un luogo sacro, tra i tanti modi possibili di riflettere su questo o quel dramma.

Poiché amiamo la ripetitività più che la provocazione, ci chiediamo ancora una volta: perché ci si prende tanta libertà sempre con le chiese cattoliche e mai con i luoghi di culto di altre religioni? Domanda apparentemente banale, che si potrebbe rovesciare così: perché le altre religioni sembrano tenerci più di noi alla sacralità dei propri luoghi di culto? E aggiungiamo pure: perché non impariamo da loro? Non solo le religioni, ma persino le istituzioni mantengono una propria “intangibilità”: difficile immaginare le 207 mutande marmoree di Reza Aramesh in bella mostra tra i banchi del Senato (nessuno le attribuisca ai senatori, che in tutto sono “solo” 205, e dal conto andrebbero peraltro tolte le senatrici trattandosi di biancheria maschile).

E invece ogni esperimento sembra concesso «tra il vestibolo e l’altare» (Gl 2,17). Per non parlare della facciata. Quella, per esempio, della basilica di San Pietro, dove l’8 dicembre 2015 in pieno fervore eco-cattolico si proiettavano tigri, leoni, pesci, e ogni specie che sia stata a bordo dell’arca di Noè. Un enorme schermo per diapositive, immagine paradigmatica di quanto avviene quando lo spazio «sacro», deputato all’incontro dell’uomo con Dio, viene trasformato in spazio neutro, mero contenitore di qualsiasi istanza, che può far sentire forse “impegnati” nell’“emergenza” del momento, ma rischiando di dimenticare che la risposta è in quella Presenza che è l'unico vero motivo per cui da duemila anni si costruiscono chiese.





mercoledì 24 aprile 2024

Una lezione per l’oggi. Apertura alla vita e buona morte: la via degli Asburgo




23 APR 2024


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by Aldo Maria Valli



di Eduard Pentin

Furono la fede cattolica e le tradizioni ad aiutare le monarchie asburgiche a godere di matrimoni per lo più stabili e di famiglie numerose e felici, fondamentali per governare i loro regni per più di otto secoli.

Ora, alcuni dei principi in base ai quali vissero e morirono quelle dinastie sono riportati in un libro di Eduard Habsburg-Lothringen, arciduca d’Austria e attuale ambasciatore d’Ungheria presso la Santa Sede, discendente diretto dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria (1830-1916).

In questa intervista rilasciata nel giorno in cui è stata presentata l’edizione italiana del suo libro The Habsburg Way.Seven Rules for Turbulent Times (Vivere da Asburgo. Sette regole per tempi difficili), Eduard Habsburg parla di questi e altri principi che ritiene possano essere di insegnamento a tutti in questa nostra epoca travagliata in cui il matrimonio e la famiglia sono particolarmente sotto attacco.

Nel farlo, l’autore ricorda fra l’altro una storia toccante sull’esecuzione della regina asburgica di Francia Maria Antonietta durante la Rivoluzione francese; il contributo dell’imperatore asburgico Carlo V durante la Riforma e l’esempio dell’ultimo principe ereditario dell’Austria-Ungheria, Otto von Habsburg, che resistette ai nazisti. Chiude con le parole di Henry Kissinger sulla dinastia asburgica, pronunciate appena sei settimane prima della sua morte.

Ambasciatore Habsburg, che cosa l’ha spinta a scrivere questo libro?


Quando la casa editrice Sophia Institute Press mi ha chiesto di scrivere un libro sugli Asburgo, ho pensato: “Preferisco non scrivere un altro libro di storia su questo tema, perché ce ne sono già centinaia, e quindi farò qualcosa di diverso”. Circa un anno prima, in occasione di una mia conferenza sui principi asburgici in un club di Boston, l’organizzatore mi chiese di non limitarmi a parlare della fede cattolica, perché molti degli ascoltatori non sarebbero stati cattolici. Così dovetti dire quali altri aspetti caratterizzano gli Asburgo, e le prime che mi vennero in mente furono, oltre alla fede cattolica, la famiglia e la presenza di molti bambini. Poi, in vista del discorso, feci una lista di dieci caratteristiche, che nel libro ho condensato in sette.


Immaginava che ci sarebbero stati punti in comune con gli Stati Uniti?


In effetti, ciò che mi ha sorpreso molto durante la stesura del libro è stato scoprire che c’erano molti punti in comune tra gli Stati Uniti e alcune idee asburgiche. Ho scoperto, per esempio, che il sistema americano è costruito dal basso verso l’alto, una caratteristica che lo avvicina all’idea di sussidiarietà nell’Impero asburgico e nel Sacro Romano Impero, tema al centro di un capitolo del mio libro.

Ho anche notato che questi sette principi sono scomparsi non solo in gran parte dell’Europa, ma anche in molte parti degli Stati Uniti, quindi ciò che scrivo potrebbe essere utile per fare memoria. Ci sono anche forti legami tra singoli Stati degli Usa e gli Asburgo. Per esempio, il primo governatore del Texas fu messo lì dagli Asburgo spagnoli, quindi mi piace sempre scherzare con i miei amici americani sul fatto che la California, la Florida e il Texas sono antichi territori asburgici.


Potrebbe fare qualche esempio, tratto dal libro, sulla stabilità del matrimonio e una felice vita familiare negli Asburgo?


Rispetto ad altre dinastie che regnarono del XVI secolo, gli Asburgo ebbero molti più figli: in media dai dodici ai sedici, ma in modo assai consapevole, perché non erano il frutto di relazioni adulterine. Non andavano a letto con altre donne, per essere chiari. Sapevano bene che il matrimonio è un sacramento. Erano consapevoli di dover produrre eredi per il trono e, come si diceva una volta, anche delle riserve. L’ultimo imperatore, il beato Carlo, che amò molto la moglie, ebbe otto figli in undici anni di un matrimonio molto cattolico. E ancora oggi noi Asburgo abbiamo famiglie numerose. Non più sedici figli, però alcuni arrivano a cinque, sei, sette figli, e alcuni miei cugini a otto.


Pensa che in definitiva ciò che differenzia gli Asburgo dalle altre monarchie sia la profondità della loro fede?


Sì, gli Asburgo sono stati cattolici dal primo all’ultimo, alcuni un po’ meno, altri un po’ di più, ma costantemente. Nel corso di ben 850 anni le loro famiglie sono state pienamente cattoliche. Se sei cattolico, credi che la relazione coniugale tra un uomo e una donna debba essere aperta alla vita. Credi che avere relazioni extraconiugali o non volere figli vada contro il piano di Dio e sia un peccato. Infine credi che se nel tuo matrimonio qualcosa va storto bisogna andare dritti alla confessione. Tutti questi elementi concorrono a creare matrimoni lunghi e stabili in un’atmosfera di forte apertura alla vita.


A quali altre “vie asburgiche” potremmo attingere oggi per aiutare la società a superare questi tempi confusi?

Suggerisco di sposarsi e di avere molti figli. Penso che questa sia una ricetta valida non solo per la felicità personale di entrambi i coniugi, ma anche per la felicità dei figli: il contributo migliore che si possa dare allo Stato e alla società in cui si vive. Io poi, ovviamente, sostengo la fede cattolica. Credo che essa renda felici, perché è la vera fede. Sì, lo credo.


Pensa anche che avere la vera fede metta tutto nella giusta prospettiva, soprattutto l’essere genitore, perché ti porta a capire che il tuo scopo principale nella vita è aiutare a condurre i tuoi figli in paradiso?

Sì. Certo, non puoi garantire che i tuoi figli vivano la fede come te, ma credo che vivere pienamente la fede cattolica darà ai tuoi figli una buona possibilità. Mio padre diceva sempre che i bambini non fanno quello che tu gli dici, ma quello che tu fai. Se ti vedono pregare e alzarti presto per andare a Messa, anche durante la settimana, lo faranno anche loro. Quindi, vivete una vita cattolica e i vostri figli vivranno così. Volete portarli in paradiso? Sono assolutamente d’accordo. Gli Asburgo sono stati e sono molto, molto seri su questo punto.


Un capitolo del libro, l’ultimo, riguarda il morire bene.


Sì, cerco di far sì che tutti ne siano sempre consapevoli: il momento e il modo in cui moriamo decidono il nostro destino eterno, e dobbiamo prepararci. Tutta la vita è una preparazione alla morte. Gli Asburgo vissero così. Erano perfettamente consapevoli che il modo in cui sarebbero morti sarebbe stato decisivo per la loro eternità, quindi vi si prepararono per tutta la vita. Volevano che quel momento fosse così come dovrebbe essere per un cattolico: con la confessione e i sacramenti, idealmente circondati dalla propria famiglia.


Può raccontare qualche storia di Asburgo che sono morti secondo questi principi?

La storia che vorrei citare, perché la maggior parte delle persone non la conosce, è quella della morte di Maria Antonietta. Molti la conoscono come la regina che diceva alla povera gente di mangiare brioches, cosa che in realtà non fece mai. Il modo in cui morì fu raccontato da una fonte insospettabile: non un fan degli Asburgo, ma il boia di Parigi, Charles-Henri Sanson. Egli riferì che la regina era terribilmente nervosa e ansiosa, e che durante il percorso verso il luogo dell’esecuzione si guardava intorno e osservava le case a destra e a sinistra. Poi passarono davanti a una casa e lei fu totalmente in pace, e si avviò serena verso Place de la Concorde. Ebbene, anni dopo la rivoluzione, questa storia fu spiegata a Sanson da cattolici clandestini. Gli dissero che Maria Antonietta soffriva terribilmente perché il comitato rivoluzionario non voleva permetterle di confessarsi. Le proposero di confessarsi da un prete della rivoluzione, ma se lo avesse fatto sarebbe stata scomunicata, perché quei preti erano a loro volta scomunicati. Lei soffrì terribilmente per questo. Bisogna sapere che in quel tempo se eri un sacerdote, un vero sacerdote fedele a Roma o addirittura un vescovo, e venivi catturato in Francia, subito venivi ucciso. I fedeli cattolici fecero dunque entrare di nascosto il vescovo a Parigi, lo portarono a una finestra che si affacciava lungo la strada del percorso della regina verso l’esecuzione e le fecero sapere di guardare da quella parte: “Il vescovo starà alla finestra e ti darà l’assoluzione in extremis”. Ecco perché lei guardava ansiosa le facciate delle case, e solo quando scorse il vescovo si calmò. Questo vi dà un’idea di quanto fossero importanti per gli Asburgo la fede, i sacramenti, la salvezza eterna e il morire bene.


Passando all’imperatore asburgico Carlo V e alla sua resistenza contro la Riforma, cosa possiamo imparare da lui in termini di lotta al secolarismo oggi, anche all’interno della Chiesa?


Devo dire che sono molto orgoglioso di Carlo V. Era stato appena eletto quando l’intera faccenda di Martin Lutero si abbatté sul Sacro Romano Impero. Era in atto una vera e propria rivoluzione, e uno dei compiti dell’imperatore era quello di mantenere la pace e l’unità all’interno dell’impero. Quindi, come affrontare la questione? Alla Dieta di Worms, la risposta che Carlo V diede direttamente a Lutero fu, fondamentalmente, un appello alla tradizione. Gli disse: “Ascolta, amico, quello che dici è molto bello, ma i miei antenati si sono sempre schierati con la santa Chiesa cattolica romana, con tutti i santi, con gli insegnamenti dei papi e dei concili. Se da un lato ho ciò che la Chiesa ha insegnato per 1500 anni, e so che tutti i miei antenati si sono schierati a favore di questo, e dall’altro ho ciò che dice un monaco tedesco, io so da che parte stare”.

Carlo fu in grado di essere un imperatore cattolico molto chiaro in un periodo estremamente difficile.


Allora, è necessaria una monarchia per combattere le tendenze secolariste?


Credo che dovremmo essere grati per l’esistenza delle monarchie e che, sì, sia la migliore forma di governo. Il motivo è spiegato al meglio dal famoso episodio che vide protagonisti Francesco Giuseppe e Roosevelt e di cui parlo nel libro. Nel 1910, Theodore Roosevelt si recò a Vienna e incontrò il vecchio imperatore Francesco Giuseppe, allora ottantenne. Roosevelt, volendo provocare un po’ l’imperatore, disse: “Mi dica, Vostra Maestà, dato che ci sono le elezioni, la democrazia, i ministri, i primi ministri e i partiti, in che cosa cinsiste il vostro lavoro?”. E Francesco Giuseppe pare abbia risposto: “Il mio compito è proteggere il mio popolo dai suoi politici”. Un monarca costituisce un potere al di sopra e al di fuori della politica di partito, al di sopra e al di fuori del sistema. Non ha l’assillo di dover essere rieletto in quattro anni, e quindi è in grado di vedere oltre, di non prendere decisioni a breve termine.


Pensa che una monarchia, e in particolare una monarchia cattolica, abbia anche un certo ruolo di stabilizzazione spirituale e temporale, che non si ottiene con un presidente?

Sono assolutamente d’accordo. Ed è stato molto bello vedere, nel funerale della regina Elisabetta e nell’incoronazione di re Carlo, gli elementi spirituali essere presenti ovunque e quelli cattolici risplendere.


L’ultimo principe ereditario dell’Austria-Ungheria, Otto von Habsburg (1912-2011), divenne famoso per la sua resistenza al nazismo. Cosa possiamo imparare dal suo esempio?

Beh, il primo esempio che si deve imparare è che bisogna studiare il proprio nemico. Otto era una delle poche persone che avevano comprato e letto il Mein Kampf quando uscì il librò. La maggior parte delle persone lo comprava e lo metteva sugli scaffali, ma nessuno lo leggeva. Lui invece lo lesse davvero. Sapeva quali terribili idee assassine fossero nella testa di quell’uomo che era contro tutto ciò che la famiglia Asburgo rappresentava. Infatti, l’Anschluss dell’Austria, nel 1938, fu chiamata Unternehmen Otto (“Operazione Otto”), perché Hitler lo vedeva come un vero pericolo. Ciò che gli Asburgo fanno sempre è cercare di applicare i loro principi, quelli che espongo nel libro, nel mondo in cui vivono.


Può parlarci del “rituale del bussare” che si svolge al funerale di un sovrano asburgico?

Gli Asburgo prestavano molta attenzione ai funerali perché sapevano che, per dirla in termini cattolici moderni, possono essere un’occasione di evangelizzazione. Volevano dare ai loro sudditi una lezione di umiltà, trasmettendo la consapevolezza che anche l’imperatore è un essere umano peccatore e bisognoso di grazia. Così, quando gli Asburgo morivano, nel corso del funerale erano condotti per le strade di Vienna fino alle porte del Kapuzinergruft, un monastero cappuccino nel centro della città, nella cui cripta gli Asburgo sono stati sepolti dal XVI o XVII secolo. Qui il maestro delle cerimonie bussava alla porta che conduce alla cripta e un monaco dall’interno chiedeva: “Chi è?”. Il maestro leggeva tutti i titoli del defunto, per esempio “Zita, imperatrice d’Austria, regina d’Ungheria, regina di Boemia, regina di Croazia” e via così. E il monaco: “Non la conosciamo”. Il maestro allora bussava una seconda volta, e il monaco: “Chi va là?”. In risposta, il cerimoniere leggeva tutte le conquiste di quel sovrano, tutto ciò che aveva fatto, le guerre combattute, i matrimoni, i figli avuti. E di nuovo la voce dall’interno rispondeva: “Non lo conosciamo”. Allora il cerimoniere bussava per la terza volta e alla solita richiesta, “Chi è?”, rispondeva: “Zita, una povera donna peccatrice”. E a quel punto, la porta finalmente si apriva. È un messaggio che tutti capiscono. Quel morto avrà anche portato una corona, ma alla fine era un peccatore come me e come te, e tutti dobbiamo prepararci alla morte.


Pensa che la monarchia asburgica debba tornare in auge, visto lo stato dell’Occidente e soprattutto dell’Europa?


Possiamo concludere con una citazione di Henry Kissinger. Quando andai a trovarlo, sei settimane prima che morisse, e gli portai il mio libro, mi disse: “Sa, sono molto contento che mi abbia dato il libro sulla sua famiglia, perché credo che gli Asburgo siano la cosa migliore che sia mai accaduta all’Europa, almeno all’Europa centrale”. E aggiunse: “Pur tenendo conto delle debolezze personali di ogni imperatore, si può comunque dire che, nel corso dei secoli, gli Asburgo siano stati la cosa migliore capitata all’Europa. Nel momento in cui sono stati eliminati dall’equazione, sono iniziati tutti i problemi dell’Europa centrale, e non si sono più fermati”.

Fonte: ncregister.com

Nella foto di Edward Pentin, l’ambasciatore Eduard d’Asburgo





L’anticristo secondo santa Ildegarda di Bingen. Un avvertimento per i nostri tempi




24 APR 2024


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by Aldo Maria Valli



di Robert Lazu Kmita

Quale dono ci ha fatto il Cielo con il pontificato di papa Benedetto XVI? Molti potrebbero pensare soprattutto alla lettera apostolica Summorum Pontificum del 2007. In realtà, tale dono potrebbe essere completamente diverso e stupefacente. Mi riferisco alla proclamazione di santa Ildegarda di Bingen Dottore della Chiesa, avvenuta il 7 ottobre 2012. Ma perché mi spingo a dire che un tale evento è un dono celeste?

Se vogliamo comprendere la crisi in cui sono letteralmente immersi il mondo contemporaneo e la Chiesa stessa, il significato delle opere di santa Ildegarda può risultare di cruciale importanza. Lo possiamo capire dal discorso [qui] pronunciato proprio da Benedetto XVI il 20 dicembre 2010 alla Curia romana.

In quell’occasione, nel pieno della lotta contro i gravissimi scandali di abusi sessuali commessi da sacerdoti, il Santo Padre citò una visione descritta da santa Ildegarda in una lettera a Werner von Kirchheim e alla sua comunità sacerdotale, visione che il papa collegò inequivocabilmente allo stato attuale della Chiesa:

Nella visione di sant’Ildegarda, il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato per la colpa dei sacerdoti. Così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto in quest’anno.

La visione di santa Ildegarda, risalente a ottocento anni fa, fu collegata da papa Benedetto XVI a una situazione che si è verificata negli ultimi cinquant’anni e molto probabilmente, così facendo, il Santo Padre non solo volle sottolineare il ripetersi di un dramma causato dai peccati dei membri degli ordini sacri, ma intese anche richiamare l’attenzione sull’attualità delle visioni di santa Ildegarda. E per questo motivo proclamò la famosa mistica Dottore della Chiesa.

Proprio in quest’ottica, e senza dilungarci in troppi commenti, presenteremo alcuni dei tratti più significativi dell’anticristo così come viene rappresentato in due opere della santa: Scivias, completato probabilmente tra il 1151 e il 1152, e il Liber divinorum operum (Libro delle opere divine), terminato nel 1173. I nostri lettori potranno così valutare se gli scritti di Ildegarda possono davvero essere applicati alla crisi attuale.

In primo luogo notiamo che, riferendosi alla storia universale, santa Ildegarda la decifra in un modo che ricorda san Beda il Venerabile, utilizzando il numero simbolico sette derivato dal Libro dell’Apocalisse di san Giovanni apostolo [1]:

In sei giorni Dio compì le sue opere e il settimo giorno si riposò. Che cosa significa? I sei giorni sono sei epoche; e nella sesta epoca sono stati compiuti gli ultimi miracoli nel mondo, poiché Dio ha terminato la sua opera il sesto giorno. Ma ora il mondo è nella settima epoca e si avvicina alla fine dei tempi, come nel settimo giorno (Scivias, p. 498).

Il settimo e ultimo periodo della storia si divide in altre cinque epoche, ognuna delle quali è associata a un animale che ha un significato simbolico: un cane, un leone giallo, un cavallo pallido, un maiale nero e un lupo grigio. Le ultime due bestie rivelano i principali vizi che si diffonderanno nelle ultime due epoche dell’intera storia umana, epoche che si collocano prima della seconda venuta di Gesù Cristo descritta nel capitolo 19 dell’Apocalisse.

Il maiale e il suo colore, il nero, rappresentano i vili vizi sessuali a cui i capi politici ed ecclesiastici (rectores) del mondo si abbandoneranno in una misura mai vista in tutta la storia. Il lupo grigio, il cui colore è un misto di bianco e nero, simboleggia l’astuzia del furto diffuso tra coloro che si depredano a vicenda. Come ladri della stessa banda, si mostreranno amichevoli l’uno con l’altro solo per trovare occasioni di depredazione. In questa atmosfera completamente corrotta di ladrocinio, “l’errore degli errori salirà dall’inferno al paradiso”. E il portatore di questa abominevole dottrina ha un’identità: è l’Anticristo.

“Il figlio della perdizione” (II Tessalonicesi 2:3) non dominerà attraverso la magia e la stregoneria, ma attraverso il potere persuasivo delle sue parole ingannevoli. In sostanza, sarà un manipolatore del linguaggio, e ingannerà i suoi interlocutori in modo paragonabile all’opera del suo maestro, “il padre della menzogna” (Giovanni 8:44). Questo il primo tratto notevole del nemico di Cristo, come descritto nel Liber divinorum operum [3]:

Ma coloro che sono stati perfezionati nella fede cattolica aspetteranno nella loro profonda angoscia ciò che Dio ha ordinato nella sua volontà. E queste crisi continueranno ad avanzare in questo modo finché il figlio della perdizione non aprirà la bocca per insegnare le sue opinioni contrarie. Ma quando avrà offerto le false parole della sua menzogna, cielo e terra tremeranno insieme” (Liber divinorum operum, pp. 463-464).

La diffusione della perversam doctrinam dell’anticristo porterà alla giustificazione di peccati estremi come la pedofilia e l’incesto. E santa Ildegarda lascia intendere che un numero significativo di battezzati seguirà l’anticristo su questa strada.

Ancora una volta, nell’arco di poche pagine, la diffusione di un falso insegnamento viene sottolineata in modo sempre più netto, contemporaneamente alla descrizione del contenuto di questa dottrina perversa:

L’anticristo sarà effettivamente infuso dal diavolo quando aprirà la bocca per insegnare la perversità, come descritto sopra. Distruggerà tutto ciò che Dio ha stabilito nell’antica e nella nuova legge e affermerà che l’immoralità sessuale e altre cose simili non sono affatto peccati. Affermerà infatti che non è peccato se la carne riscalda la carne, così come non è peccato se una persona si riscalda al fuoco. Affermerà anche che tutti i comandamenti sulla castità sono stati fatti nell’ignoranza, perché se una persona può essere calda e un’altra fredda dovrebbero moderarsi a vicenda con il loro calore e il loro freddo” (Liber divinorum operum, p. 466)

Se riflettiamo su questa citazione, tutto diventa chiaro. Il nucleo degli insegnamenti anticristici riguarda direttamente la legge morale. Più precisamente, il nemico della nostra salvezza postula che ogni tipo di azione che la legge morale e la Tradizione cristiana considerano peccato non lo sia.

Essere “servi del peccato” (Romani 6, 17) è uno stato spirituale che oscura l’intelletto e ostacola il discernimento e senza dubbio questa è una delle cause principali della diffusione di una dottrina anticristiana. Tuttavia, c’è un’altra spiegazione che potrebbe essere ancora più importante: il disprezzo per la Tradizione ascetica e morale degli antenati. Istigati dal falso vangelo dell’anticristo, ecco cosa diranno i suoi seguaci:

Oh, guai ai miserabili che vissero prima di questi tempi! Perché hanno reso la loro vita miserabile con dolori atroci, non conoscendo, ahimè, l’amorevolezza del nostro Dio! (Scivias, p. 504).

Questo modo di pensare antitradizionale si accompagna nelle loro menti a una totale perversione degli insegnamenti teologici e rivelati. L’immagine di Dio, il Creatore dell’universo, viene profondamente distorta. Sono eliminati i riferimenti alla giustizia e all’ira divina. Per coloro che seguono la dottrina dell’anticristo, non solo Dio è esclusivamente “misericordioso”, e dunque non è il vero Dio, ma l’usurpatore cerca di sostituirsi a Dio, ottenendo la gloria e l’adorazione che appartengono solo al nostro Salvatore, Gesù Cristo:

Acquisterà per sé molte persone, dicendo loro di fare la sua volontà (Scivias, p. 504).

Se contempliamo l’oceano di peccati in cui è immerso il mondo di oggi, ci rendiamo conto che questa è la spiegazione più profonda e coerente della situazione. Incoraggiare gli abitanti del mondo postmoderno a seguire il corso della loro vita, soddisfacendo costantemente la propria volontà, è il motore che guida il declino rapido e crudo della nostra cultura e civiltà occidentali.

L’aspetto più interessante delle visioni e degli insegnamenti di santa Ildegarda sull’anticristo è anche il più sorprendente. Così sorprendente che persino la stessa santa sembra aver paura di dirlo esplicitamente: l’anticristo è, formalmente parlando, cristiano.

Nell’ambito della vita ecclesiastica, il risultato della politica dell’anticristo è registrato da santa Ildegarda quando menziona “i grandi scismi che verranno con il figlio della perdizione” (Scivias, p. 510). La sua capacità di ingannare e manipolare attraverso il potere delle parole, generando un’illusione che vela le menti di coloro che lo ascoltano, è così grande che molti cattolici lo seguiranno. Di conseguenza, i suoi insegnamenti eretici provocheranno scismi che separeranno lui e i suoi seguaci dalla vera Chiesa.

Lungi dall’essere considerato, come vediamo in altri santi Padri e Dottori, un rappresentante di una religione diversa dal cristianesimo, l’anticristo è certamente un membro formale della Chiesa. E non sembra essere un membro ordinario. Se consideriamo gli scismi menzionati nelle profezie citate, sembra essere un gerarca di alto rango. In ogni caso, l’identità cristiana dell’anticristo è chiaramente evidente nella parte più raccapricciante della visione:

E vidi di nuovo la figura di una donna che avevo visto prima di fronte all’altare che sta davanti agli occhi di Dio; stava nello stesso posto, ma ora la vedevo dalla vita in giù. E dalla vita fino al luogo che indica la femmina, aveva varie macchie squamose; e in quest’ultimo luogo c’era una testa nera e mostruosa. Aveva occhi di fuoco, orecchie come quelle di un asino, narici e bocca come quelle di un leone; spalancava le guance e batteva terribilmente i suoi orribili denti color ferro. E dalla testa fino alle ginocchia la figura era bianca e rossa, come se fosse stata contusa da molte percosse; e dalle ginocchia fino ai tendini dove si univano ai talloni, che apparivano bianchi, era coperta di sangue. Ed ecco! Quella testa mostruosa si mosse dal suo posto con un sussulto così forte che la figura della donna fu scossa in tutte le sue membra. Una grande massa di escrementi aderì alla testa; essa si sollevò su una montagna e cercò di salire fino all’altezza del cielo. Ed ecco che all’improvviso arrivò un fulmine, che colpì quella testa con una forza così grande che essa cadde dal monte e abbandonò il suo spirito nella morte” (Scivias, p. 493).

La Chiesa stessa è dunque rappresentata attraverso l’icona di una donna maestosa, nella cui area specificamente femminile risiede una testa mostruosa che simboleggia l’anticristo. Ogni dettaglio di questa testa abominevole è significativo. Le orecchie dell’asino indicano l’ostinazione con cui si aggrapperà ai propri insegnamenti eretici, la “dottrina perversa” che diffonderà. Le narici e la bocca del leone alludono sia alla ferocia demoniaca con cui farà a pezzi la fede ortodossa sia alla violenza fisica e spirituale con cui perseguiterà i veri cristiani. L’ascensione al cielo indica il suo orgoglio, che raggiungerà proporzioni inimmaginabili. La violenza interna – la donna è scossa in tutte le membra – indica la separazione (o l’esclusione?) dalla Chiesa che avverrà attraverso gli scismi in cui attirerà i suoi seguaci (la massa di escrementi che aderisce alla testa mostruosa).

Non abbiamo voluto descrivere tutti i dettagli delle visioni di santa Ildegarda di Bingen sull’anticristo. Il nostro obiettivo era quello di evidenziare solo alcuni punti particolarmente significativi, che riassumiamo come segue:

La dottrina anticristica (la teologia perversa)

Il potere ingannatore dell’anticristo mira a un obiettivo preciso: sostituire l’autentico Vangelo di nostro Signore, Gesù Cristo, con un anti-Vangelo che giustifica soprattutto i peccati sessuali. Un aspetto chiave della dottrina perversa dell’anticristo è la distorsione degli insegnamenti teologici su Dio. Proponendo un’immagine di Dio da cui sono assenti la giustizia e la punizione divine (immagine attraverso la quale può attirare un gran numero di adepti cristiani), in realtà sostituisce se stesso al Creatore supremo.

Scismi


La diffusione della dottrina perversa dell’anticristo porterà ad alcuni scismi, che culmineranno in un grande scisma finale che separerà l’anticristo e i suoi adepti dalla Chiesa.

Origini cristiane


L’anticristo è di origine cristiana. Inoltre, la sua capacità di provocare scismi all’interno del corpo ecclesiastico suggerisce la sua appartenenza alla gerarchia ecclesiastica.

Alla fine, non possiamo che invitarvi a rileggere e meditare i testi di santa Ildegarda, tenendo ben a mente le parole del Vangelo del nostro Re e Salvatore, Gesù Cristo: “Chi ha orecchie per intendere, intenda” (Matteo 11:15).

_____________

[1] Utilizzo la traduzione di Madre Columba Hart O.S.B. e Jane Bishop, Scivias, New York, Paulist Press, 1990.

[2] Cito la traduzione di Nathaniel M. Campbell, St. Hildegard of Bingen, Book of Divine Works, The Catholic University of America Press, 2018.




martedì 23 aprile 2024

Campagna Internazionale per la piena Libertà della Liturgia Tradizionale




Pubblicato da Marco Tosatti 22 Aprile 2024

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, riceviamo, e portiamo alla vostra attenzione questo comunicato di Renaissance Catholique, che condividiamo in pieno. Buona lettura e diffusione.


§§§



Lutetiae parisiorum, die XXI mensis aprilis, dominica III post Pascha


Campagna internazionale per la piena libertà della liturgia tradizionale


Essere cattolici nel 2024 non è facile. In Occidente continua una massiccia scristianizzazione, tanto che il cattolicesimo sembra scomparire dalla scena pubblica. D’altra parte, il numero dei cristiani perseguitati per la loro fede continua a crescere. Per di più, la Chiesa sembra essere colpita da una crisi interna, che si riflette in un declino della pratica religiosa, in un calo delle vocazioni sacerdotali e religiose, in una minore pratica sacramentale e persino in dissensi tra sacerdoti, vescovi e cardinali, che ieri sarebbero stati impensabili. Ebbene: tra gli elementi che possono contribuire alla rinascita interna della Chiesa e alla ripresa del suo sviluppo missionario, c’è innanzitutto la celebrazione santa e dignitosa della sua liturgia, alla quale l’esempio e la presenza della liturgia romana tradizionale possono dare un potente aiuto.

Nonostante tutti i tentativi che sono stati fatti per eliminarla, soprattutto durante l’attuale pontificato, la liturgia tradizionale continua a vivere, a diffondersi, a santificare il popolo cristiano che la pratica. Produce evidenti frutti di pietà, vocazioni e conversioni. Attira i giovani, è all’origine della fioritura di molte opere, soprattutto scolastiche, e si accompagna ad un solido insegnamento catechistico.

Nessuno può negare che essa sia un vettore di conservazione e di trasmissione della fede e della pratica religiosa in un periodo indebolimento del credere e di emorragia dei credenti. Questa messa, in virtù della sua venerabile antichità può vantarsi di aver santificato tante anime nel corso dei secoli. In seno ad altre forze vive che ancora si manifestano nella Chiesa, questa forma di vita cultuale attira l’attenzione per la salda struttura conferitale dalla continuità della lex orandi.

Certo, quando le è stato dato un qualche spazio vitale, o meglio lo si è tollerato, si è troppo spesso ripreso con una mano ciò era stato concesso con l’altra; tuttavia, senza riuscire a farla scomparire.

A partire dalla grande depressione verificatasi subito dopo il Concilio, si è tentato a più riprese di far rivivere la pratica religiosa, di aumentare il numero delle vocazioni sacerdotali e religiose e di preservare la fede del popolo cristiano: tutto, tranne che permettere “l’esperienza della tradizione”, e dare una possibilità alla cosiddetta liturgia tridentina. Tuttavia, oggi il buon senso ci richiede urgentemente di permettere a tutte le forze vive della Chiesa di vivere e prosperare, e in particolare a questa, che gode di un diritto più che millenario.

Intendiamoci: questo appello non è la richiesta di nuova tolleranza, come nel 1984 o nel 1988, e nemmeno del ripristino dello status concesso nel 2007 dal Motu Proprio Summorum Pontificum, che in linea di principio riconosceva un diritto, ma di fatto è stato ridotto a un sistema di permessi concessi con parsimonia.

Da semplici laici, non spetta a noi giudicare il Concilio Vaticano II, la sua continuità o discontinuità con l’insegnamento precedente della Chiesa, la validità o meno delle riforme che ne sono scaturite, e così via. D’altra parte, dobbiamo difendere e trasmettere gli strumenti con cui la Provvidenza ha permesso a un numero crescente di cattolici di mantenere la fede, di progredire in essa o di scoprirla. In ciò, la trascendenza, la bellezza, l’atemporalità e la certezza dottrinale della liturgia tradizionale giocano un ruolo essenziale. Per questo chiediamo semplicemente, in nome della vera libertà dei figli di Dio nella Chiesa, che venga riconosciuta la piena e completa libertà della liturgia tradizionale, con il libero uso di tutti i suoi libri, in modo che, senza ostacoli, nel rito latino, tutti i fedeli possano beneficiarne e tutti i chierici possano celebrarla.



Jean-Pierre Maugendre, Direttore Generale di Renaissance catholique, Parigi



Questo appello non è una petizione da firmare, ma un messaggio da diffondere, eventualmente da riprendere in qualsiasi forma sembri opportuna, e da portare a conoscenza ed illustrare ai cardinali, vescovi e prelati della Chiesa universale.

Si Renaissance catholique a l’initiative de cette campagne, c’est uniquement pour se faire l’interprète d’un large désir en ce sens qui se manifeste dans l’ensemble du monde catholique. Cette campagne n’est pas la sienne, mais celle de tous ceux qui y participeront, la relayeront, l’amplifieront, chacun à leur manière.