martedì 6 marzo 2018

Intervista a Stefano Fontana: “Per uscire dalla crisi bisogna abbandonare Rahner”






La Chiesa cattolica è in piena confusione: sembrerebbe che abbia perduto la propria identità e il senso della sua missione. Per negare ciò, bisogna essere ciechi o in mala fede. Ma come si è arrivati a questa drammatica situazione? Che cosa si deve fare per uscirne? Lo abbiamo chiesto al prof. Stefano Fontana, giornalista e scrittore, nonché direttore dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa; dal 2010 è direttore del settimanale diocesano di Trieste Vita Nuova. È autore di diverse libri, tra i più recenti segnaliamo Filosofia per tutti (Fede&Cultura, Verona, 2016) e La nuova Chiesa di Karl Rahner(Fede&Cultura, Verona, 2017).


DOMANDA. Gentile prof. Fontana, La ringraziamo per la sua disponibilità. Cominciamo con la dottrina sociale della Chiesa cattolica. Come nasce e in che cosa consiste?
RISPOSTA. La Dottrina sociale della Chiesa è l’incontro della Chiesa col mondo allo scopo di ordinarlo secondo il progetto di Dio e, quindi, salvarlo. Essa appartiene così alla missione della Chiesa ed è strumento di evangelizzazione, dato che per ordinare il mondo secondo il progetto di Dio e per salvarlo bisogna fare in modo che Dio abbia il posto che gli spetta nella costruzione della comunità umana nella storia. Dio è il principale “bene comune”, il Vangelo è il primo fattore di autentico sviluppo, il mondo che si separa dalla religione cattolica e dalla Chiesa si separa da se stesso. La Dottrina sociale della Chiesa è una “dottrina” ed è “della Chiesa”. È una dottrina in due sensi: prima di tutto perché è connessa con la dogmatica della fede cattolica di cui è espressione e da cui trae luce, secondariamente perché essa stessa è un corpus dottrinale organico in cui tutti gli elementi si tengono insieme. Ha anche un carattere pratico e orientativo per l’azione, ma alla luce degli elementi dottrinali. Gli elementi dottrinali sono principalmente due: la rivelazione di Dio in Cristo e il diritto naturale; essa si fonda quindi sull’armonia tra ragione e fede e sul primato della fede. È poi “della Chiesa”, nel senso che il soggetto ad essa adeguato è la Chiesa stessa, come Corpo di Cristo dentro la storia. Tutti i singoli soggetti ecclesiali ne sono coinvolti e non solo i laici, anche se ai laici spetta il ruolo specifico di mettere direttamente mano all’organizzazione del mondo secondo il progetto di Dio. La Dottrina sociale della Chiesa è collegata quindi con tutte le forme di vita della Chiesa, dai sacramenti alla catechesi.

D. Un cattolico in politica può fare a meno della dottrina sociale?
R. Di fatto molti ne fanno a meno oppure la contraddicono apertamente, di diritto no, non può farne a meno. Al cuore del problema sta il rapporto Chiesa e mondo. Il mondo ha bisogno della Chiesa e la Chiesa deve aiutare il mondo senza farsi a sua volta mondo. La fede deve aiutare la ragione senza farsi a sua volta ragione, ma spingendo la ragione ad essere fino in fondo se stessa, cosa che non può fare senza un rapporto non accidentale con la fede. Lo stesso vale per il mondo, esso non riesce ad essere se stesso senza un rapporto non accidentale con la religione vera e la Chiesa. Però la Chiesa non deve farsi direttamente mondo, non solo perché in questo caso essa non sarebbe più se stessa ma anche perché non aiuterebbe nemmeno il mondo. La Dottrina sociale della Chiesa fa incontrare le due realtà, senza identificarle, garantendo però il loro rapporto strutturale e il primato della Chiesa. Senza questo quadro, il cattolico in politica si affida alla sola prassi mondana, oppure ideologizza il Vangelo.



D. Dal momento che ci troviamo in una situazione anomala nella quale la dottrina sta scomparendo e rimane solo l’attivismo nel sociale, come si può fare per “rilanciarli” entrambi senza alcuna separazione?

R. Alla base della constatazione da cui parte la domanda c’è l’idea che il mondo sia diventato ormai adulto, maturo in se stesso e che di conseguenza non debba più essere guidato dalla religione e dalla Chiesa. La secolarizzazione viene spesso intesa in questo senso e addirittura fatta dipendere dallo stesso cristianesimo. Ne consegue che la pretesa di applicare una dottrina alla prassi sia sempre una trasformazione della purezza del Vangelo in ideologia. Sarebbe lungo esaminare le suggestioni filosofiche e teologiche che stanno dietro queste affermazioni, ed è impossibile riprenderle qui anche sommariamente. La cosa principale da dire e da mettere in atto è che l’attività e la dottrina vanno insieme ma nella priorità della dottrina. Non si accostano in modo puramente giustapposto, ma ordinato e questo ordine prevede la priorità della dottrina sulla prassi sociale o pastorale. I motivi sono molteplici e vanno dalla semplice constatazione che ognuno pensa prima di agire fino ad arrivare a notare che anche la tesi del primato della prassi sulla dottrina è comunque una dottrina. La prassi senza dottrina è cieca e da qualcosa di cieco non può derivare nessuna verità perché dal nulla non nasce nulla e il più non può venire dal meno.

D. Perché la filosofia è importante nella teologia?
R. La teologia è l’uso della ragione per approfondire le verità rivelate. La teologia usa quindi la ragione e prima di tutto usa la ragione nel suo vertice che è quello filosofico. La filosofia è il vertice della ragione perché si occupa del tutto. Siccome la rivelazione ci comunica verità assolute e totali essa ha bisogno della filosofia che si misura concettualmente con verità assolute e totali. Oggi si preferisce collegare la teologia con le scienze, le quali però sono strutturalmente settoriali e parziali. La filosofia fornisce alla teologia la grammatica concettuale adatta. Naturalmente stiamo parlando qui della vera filosofia, ossia della filosofia cristiana. La rivelazione contiene in sé delle verità filosofiche e metafisiche che non spetta però ad essa esplicitare e analizzare e di cui non può essere essa a fornire la concettualità adatta. A farlo deve essere la filosofia, la quale però può farlo solo se non rompe i suoi rapporti con la fede, altrimenti fornisce alla teologia dei concetti inadeguati e fuorvianti. La teologia ha bisogno della vera filosofia, e questa non riesce ad essere tale se non nel rapporto con la fede. Non che con ciò la filosofia non sia legittimamente autonoma, lo è ma proprio perché la fede le garantisce il respiro adatto per esserlo.



D. Quali sono i maggiori filosofi moderni? Il loro pensiero è compatibile con quello cattolico?
R. Di recente ho pubblicato un libro semplice e di piccole dimensioni per rispondere proprio a questa domanda. Nella modernità, intesa come categoria cronologica si possono trovare anche cose buone, ma nella modernità intesa come categoria filosofica no. La modernità si fonda su alcuni errori fondamentali, assunti come tali e capaci di determinare per coerenza filosofica tutti gli sviluppi negativi successivi. In tutti i filosofi c’è anche qualcosa di vero perché anche l’opinione più sbagliata, diceva san Tommaso, contiene comunque qualche piccola verità. Però il buono che c’è nella modernità c’è per accidens, dato che la sua sostanza è sbagliata. Cartesio, Hume, Kant, Hegel, eccetera, sono incompatibili con il cattolicesimo (non lo sono invece col protestantesimo).

D. Che cosa succederebbe alla Chiesa se venisse eletto, per esempio, un papa heideggeriano?
La formazione filosofica è molto importante per poter fare vera teologia. Nella Chiesa non fanno teologia solo i teologi di professione, i primi teologi sono il Papa e i Vescovi, vale a dire i Pastori. Se i pastori dovessero essere formati a correnti filosofiche contrarie al cristianesimo sarebbe un grande guaio, perché vedrebbero — per quanto concerne l’aspetto umano del loro ruolo nella Chiesa — le verità del deposito della fede in modo diverso. Se uno è storicista sarà a favore dell’evoluzione storica dei dogmi; se uno è seguace dell’ermeneutica sosterrà che gli insegnamenti di Cristo sono tutti da interpretare, se uno è esistenzialista tenderà a dire che la verità nasce dall’esistenza negando l’esistenza di realtà metafisiche e così via. Uno dei punti centrali è l’accettazione o meno della metafisica: questo è oggi il vero discrimine tra filosofie conformi o difformi rispetto alla religione cattolica. Bisogna stare quindi molto attenti a quale filosofia (e di conseguenza a quale teologia) si insegna nei seminari. Perché da questo dipende la formazione dei preti di domani, ma anche dei vescovi e dei papi.



D. Parliamo di Karl Rahner, il più famoso discepolo di Heidegger. Può fare un profilo di questo gesuita tedesco? Com’è riuscito a diventare, in un certo senso, il nuovo doctor communis?
R. Ho pubblicato di recente un libretto divulgativo per spiegare quanto lei mi chiede. A mio parere Rahner ha portato dentro la teologia cattolica i principi del pensiero moderno — Kant, Hegel, Heidegger — e in questo modo ha stravolto la teologia cattolica. Stupisce come il suo pensiero sia fatto proprio perfino da vescovi e da cardinali. Rahner ha creato una “nuova Scolastica” assumendo però il punto di vista del trascendentale moderno. Per lui la rivelazione avviene nell’esistenza, quindi nel mondo: rivelazione come storia. Il mondo è sacramento, il mondo è grazia. La Chiesa stessa è nel mondo come garanzia della libertà critica del modo stesso ma non come quanto deve dargli la verità e la salvezza. Ne consegue che Dio si rivela a tutti e che tutti sono cristiani anonimi, che si rivela in modo atematico da cui la perdita d’importanza della dottrina, che tra storia sacra e profana non c’è differenza, che Dio si rivela nell’uomo e ci parla attraverso il nostro prossimo, che le verità rivelate sono tutte storiche e relative, che la modalità esistenziale di porsi prevale sui contenuti, che la dottrina è astratta e che la morale deve incontrare la situazione di vita, che Dio è presente in tutte le religioni e anche nell’ateismo e così via … Rahner fu originariamente influenzato dal tentativo della scuola di Lovanio di Mons. Marechal di ripensare il tomismo partendo dai principi del criticismo moderno. Si trattava di quel “realismo critico” così acutamente contestato da Gilson. Da lì nasce il pensiero di Rahner che padre Cornelio Fabro demolìagli inizi degli anni Settanta. Nel mio libro ho cercato di mostrare come questo pensiero sia penetrato ormai a fondo nella Chiesa cattolica, arrivando fino all’ultima parrocchia e all’ultimo progetto pastorale.

D. In che cosa consiste la “nuova Chiesa” di Karl Rahner? Ed era già stata programmata?
R. Ho già in parte detto nella risposta precedente. Nei limiti di questo breve spazio posso aggiungere l’idea che l’inferno sia vuoto, che non si sappia mai veramente quando si è in peccato, che la pastorale è fonte di dottrina e la prassi fonte di verità, che la Chiesa deve smetterla con la pretesa di essere luce per il mondo e deve “uscire” nel senso di farsi mondo, che il cattolico possa votare una legge che legalizza l’aborto, che la Chiesa debba essere declericalizzata e democratizzata, che non esista un chiaro confine tra eresia ed ortodossia, che la Chiesa deve essere aperta a tutti, anche agli atei e così via. Se era stata programmata? Nel senso che due o tre si siano seduti ad un tavolo per programmarla no. Che sia la conclusione di un lungo percorso con molti protagonisti ben coordinati tra loro e che hanno fatto progressivamente penetrare queste idee nella Chiesa sì. Rahner non è stato occasionale e nemmeno quanto ne è seguito. Si pensi solo alle difficoltà che si incontrano oggi per criticarlo.



D. Quanto c’è, di Rahner, nell’Amoris laetitia?
R. Non voglio entrare nel merito specifico dell’Esortazione di Papa Francesco per il semplice fatto che sto scrivendo un piccolo libro a questo proposito. Preferisco limitarmi a parlare di questo lungo percorso sinodale e post-sinodale sulla famiglia di cui Amoris Laetitia è in fondo l’epilogo. Ho già scritto nel libro sopracitato che molti sono gli elementi rahneriani di questo periodo sinodale: il ruolo del cardinale Kasper, le tesi da lui sostenute nella relazione preparatoria del febbraio 2014, il concetto di parresia così come applicato durante il sinodo, l’idea che non esista il peccato ma solo gradi diversi di bene, l’idea di non poter conoscere le situazioni oggettive di peccato come nel caso dei divorziati risposati, l’idea di procedere caso per caso, l’idea che nella situazione di peccato possa essere presente la grazia, la convinzione che la tradizione debba essere letta a partire dal magistero recente piuttosto che il contrario, l’idea della reversibilità esistenzialista e non sacramentale della situazione di peccato, la convinzione che i fondamenti della morale possano cambiare, l’idea che Cristo indichi solo ideali e non dia precetti, chiamare il peccato “fragilità”, termine che non contempla la colpa, l’idea del decentramento dottrinale e l’accettazione che su punti qualificanti la dottrina della fede le conferenze episcopali si comportino in modo diverso e così via, l’elenco potrebbe essere molto lungo.

D. Come si può uscire, secondo Lei, dalla “nuova Chiesa” di Rahner? Come si può cestinare il pensiero pseudo-cattolico di Rahner?
R. Alcuni seminaristi mi dicono che è loro impedito di leggere San Tommaso, Gilson o Fabro e che se vogliono leggere qualcosa del genere lo devono fare di nascosto. Bisogna tornare a dare la possibilità a chi si prepara al sacerdozio di apprendere la filosofia cristiana. Ai laici bisogna tornare ad insegnare la retta (e completa) Dottrina sociale della Chiesa. Bisogna tornare ad insegnare e a formarsi alla verità. E bisogna farlo dal basso, anche in piccole iniziative. Il ruolo primario in questo momento spetta ai laici. Però senza un intervento provvidenziale dall’Alto, ciò non basterà.

Grazie ancora per la Sua disponibilità.
















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