giovedì 30 marzo 2017

"L'aborto un omicidio? Non esageriamo..." Scandalo in Belgio, vescovi contro il prof cattolico







Belgio. Ha uno sviluppo (spiacevole) la vicenda del docente dell'ateneo cattolico di Lovanio a rischio licenziamento per aver definito l'aborto un omicidio. Si aspettava una presa di posizione della Conferenza episcopale belga. Che è arrivata. Ma per prendere le distanze dalla marcia per la vita ("iniziativa privata"), scaricare il prof e dire che "le sue sono parole forti". Confondendo infine il misericordismo con la misericordia. Eppure lo stesso Papa Francesco aveva definito l'aborto un crimine orrendo.



di Marco Tosatti (30/03/2017)

In Belgio la polemica è forte. E La Chiesa belga, e l’Università Cattolica di Lovanio, non stanno mostrando, a nostro modesto parere il meglio di sé. Anzi. La storia è semplice: un professore di filosofia dell’università, Sthéphane Mercier, durante un corso destinato agli studenti del primo anno ha trattato del tema dell’aborto, e prendendo spunto dal quello che ha scritto Peter Kreeft, professore del King’s College di New York, secondo cui l’embrione è persona dal concepimento, ha argomentato che l’aborto volontario è un omicidio premeditato, e dovrebbe essere proibito dalla legge (come era peraltro in occidente fino a qualche decennio fa).

Siti femministi hanno protestato, il giornale di sinistra Le Soir ha scritto, e l’Università Cattolica di Lovanio dopo aver preso tempo, ha emanato un primo comunicato, in cui dopo aver annunciato un’inchiesta, diceva che “a prescindere dall’istruttoria, il diritto all’aborto è iscritto nel diritto belga e il testo di cui siamo venuti a conoscenza è in contraddizione con i valori sostenuti dall’università. Il fatto di veicolare posizioni contrarie a questi valori durante l’insegnamento è inaccettabile”. In seguito ha annunciato la sospensione dei corsi di Stéphane Mercier, e un’indagine disciplinare nei suoi confronti, che potrebbe concludersi con delle sanzioni o il licenziamento.

L’Università di Lovanio si proclama, nel suo stemma, cattolica. Nel comunicato fa riferimento a “valori” non meglio precisati. Di sicuro l’aborto, che per ultimo papa Francesco ha giudicato “Crimine orrendo”, difficilmente potrebbe rientrare nei valori difesi da un istituto accademico cattolico. La polemica non è rimasta confinata in ambito accademico – anche se su questo torneremo fra poco – ed è rimbalzata sui giornali. Tanto più perché proprio in questi giorni in Belgio si è svolta la “Marcia per la vita”, con la partecipazione di qualche migliaio di persone, e Stéphane Mercier ha portato la sua testimonianza all’evento.

Ci si sarebbe aspettati che i vescovi belgi, che hanno un rapporto di qualche genere con l’Università di Lovanio (in genere il termine “cattolico” per un ateneo deve avere l’approvazione della diocesi) avrebbero parlato. Ahimè, lo hanno fatto.

Tommy Scholtès, un sacerdote, portavoce della Conferenza episcopale belga, ha detto: “Le parole di Stèphane Mercier mi sembrano caricaturali. La parola omicidio è troppo forte: presuppone una violenza, un atto commesso in piena coscienza, con un’intenzione, e questo non tiene conto della situazione delle persone spesso nella più grande angoscia”. Ha poi aggiunto che “formule del genere non aiutano la Chiesa, specialmente nel quadro dell’appello alla vita lanciato dal Papa”. Ha ammesso che il rispetto per la vita resta al centro della dottrina “ma il Papa chiama anche alla misericordia: dobbiamo mostrare comprensione, compassione”.

Posizioni altrettanto sfumate per quello che riguarda le reazioni dell’Università Cattolica di Lovanio: “L’UCL e i vescovi belgi sono due cose allo stesso tempo vicine e diverse. Non abbiamo un’opinione da dare su quello che dice l’Università”. E naturalmente ha preso le distanze dalla Marcia per la Vita, ricordando che si tratta di un’iniziativa privata di cattolici.

La dichiarazioni del portavoce danno un’immagine della Chiesa belga che definire deludente è dire poco. Così come non si ha notizia per il momento di nessuna iniziativa – anche solo conoscitiva – da parte della Santa Sede. Che un’Università che si dichiara “Cattolica” faccia rientrare l’aborto volontario su richiesta fra i suoi valori forse dovrebbe interpellare la Congregazione per l’Educazione Cattolica e il nuovo dicastero per Famiglia e Laici, affidato alle cure dell’arcivescovo Farrell, chiamato apposta dagli Stati Uniti. Per non parlare dell’Accademia per la Vita. Ma se i vescovi belgi si allineano alla cultura dominante (e ci si chiede perché il Pontefice ha trattato come ha trattato l’arcivescovo Lèonard, che era un testimone coraggioso, sostituendolo con l’accomodante De Kesel, subito fatto cardinale…) la polemica divampa in campo accademico.

Perché la questione Mercier non riguarda solo il problema dell’aborto: è la libertà accademica a essere in gioco. Fra l’altro, proprio l’Università Cattolica di Lovanio circa un mese fa aveva organizzato un convegno sul tema della libertà accademica. Sui giornali dei professori universitari dell’UCL, Jean Bricmont e Michel Ghins chiedono che non sia presa nessuna misura contro Stéphane Mercier, e che “esprimere qualsiasi punto di vista sulla problematica dell’aborto sia autorizzata”.

“Siamo inquieti. Sì, siamo inquieti per le minacce che pesano sulla libertà accademica e a fortiori sulla libertà d’espressione all’Università Cattolica di Lovanio”, scrivono, e chiedono: “Ci sono degli argomenti che non possono essere discussi in un corso di filosofia all’università?”. La loro risposta è, chiaramente no. I due accademici però lanciano un allarme che vale non solo per il Belgio, ma per tutto l’occidente, e per l’Italia, Chiesa non esclusa:

“E’ per lo meno sorprendente constatare l’emergere all’UCL di una sorta di neo-clericalismo del buon pensiero politicamente corretto, di una nuova forma di polizia del pensiero che colpirebbe le posizioni minoritarie quando sono attaccate dai media e sono suscettibili di infastidire l’opinione della maggioranza. L’università deve restare un luogo di libero pensiero e di dibattiti aperti. Se è permesso a giusto titolo di criticare le posizioni della Chiesa cattolica all’UCL, sarebbe perlomeno paradossale in un’università che porta il nome di cattolico proibire che certi accademici sviluppino argomentazioni cattoliche che sono conformi al cattolicesimo”.

Ma devono essere dei professori, che lavorano all’UCL, ad avere il coraggio di fare queste affermazioni? E i vescovi belgi non “hanno un parere da dare su ciò che dice l’università”? E Roma, così loquace e ossessiva su tanti altri argomenti, continua a tacere?








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Gli attacchi alla famiglia denunciati con chiarezza da San Giovanni Paolo II



GIOVANNI PAOLO II – ANGELUS – Domenica, 20 febbraio 1994

1. Siamo entrati nella Quaresima dell’anno 1994, Anno della Famiglia, voluto dall’ONU e dalla Chiesa. Tra i compiti che, durante questo Anno, occorre mettere in evidenza in campo sia ecclesiale che civile vi è il consolidamento del legame familiare e della vera identità della famiglia. Per questa ragione la Lettera alle Famiglie, che verrà pubblicata martedì prossimo, 22 febbraio, è prima di tutto un invito alla preghiera per le famiglie e con le famiglie.

Gli insidiosi attacchi contro la famiglia nella moderna civiltà edonistica, che, malgrado tutte le dichiarazioni sui diritti dell’uomo, è nella sostanza contraria al suo vero bene, non possono essere respinti se non con la preghiera, il digiuno e l’amore vicendevole. Non mancano, certo, le famiglie che pregano per se stesse e per gli altri. In questo nostro mondo, esposto a così numerose minacce di ordine morale, si sta provvidenzialmente sviluppando l’apostolato delle famiglie.

Purtroppo si devono registrare, proprio in questo Anno della Famiglia, iniziative propagandate da notevole parte dei mass media, che nella sostanza si rivelano “antifamiliari”. Sono iniziative che danno la priorità a ciò che decide della decomposizione delle famiglie e della sconfitta dell’essere umano – uomo o donna o figli. Vi si chiama, infatti, bene ciò che in realtà è male: le separazioni decise con leggerezza, le infedeltà coniugali non solo tollerate ma persino esaltate, i divorzi, il libero amore sono talora proposti come modelli da imitare. A chi serve questa propaganda? Da quali fonti essa nasce? “Ogni albero buono – osserva Gesù – produce frutti buoni e ogni albero cattivo produce frutti cattivi” (Mt 7, 17). Si tratta, dunque, di un albero cattivo che l’umanità porta dentro di sé, coltivandolo con l’aiuto di ingenti spese finanziarie ed il sostegno di potenti mass media.

2. Il pensiero va qui alla recente e ben nota risoluzione approvata dal Parlamento Europeo. In essa non si sono semplicemente prese le difese delle persone con tendenze omosessuali, rifiutando ingiuste discriminazioni nei loro confronti. Su questo anche la Chiesa è d’accordo, anzi lo approva, lo fa suo, giacché ogni persona umana è degna di rispetto. Ciò che non è moralmente ammissibile è l’approvazione giuridica della pratica omosessuale. Essere comprensivi verso chi pecca, verso chi non è in grado di liberarsi da questa tendenza, non equivale, infatti, a sminuire le esigenze della norma morale (cfr. Giovanni Paolo II, Veritatis Splendor, 95). Cristo ha perdonato la donna adultera salvandola dalla lapidazione (cfr. Gv 8, 1-11), ma le ha detto al tempo stesso: “Va’ e d’ora in poi non peccare più” (Gv 8, 11).

Questo dico con grande tristezza, perché tutti abbiamo grande rispetto della Comunità Europea, del Parlamento Europeo; conosciamo i tanti meriti di questa istituzione. Ma si deve dire che con la risoluzione del Parlamento Europeo si è chiesto di legittimare un disordine morale. Il Parlamento ha conferito indebitamente un valore istituzionale a comportamenti devianti, non conformi al piano di Dio: ci sono le debolezze – noi lo sappiamo – ma il Parlamento facendo questo ha assecondato le debolezze dell’uomo.

Non si è riconosciuto che vero diritto dell’uomo è la vittoria su se stesso per vivere in conformità con la retta coscienza. Senza la fondamentale consapevolezza delle norme morali la vita umana e la dignità dell’uomo sono esposte alla decadenza ed alla distruzione. Dimenticando la parola di Cristo: “la verità vi farà liberi” (Gv 8, 32), si è cercato di indicare agli abitanti del nostro Continente il male morale, la deviazione, una certa schiavitù, come via di liberazione, falsificando l’essenza stessa della famiglia.

Non può costituire una vera famiglia il legame di due uomini o di due donne, ed ancor meno si può ad una tale unione attribuire il diritto all’adozione di figli privi di famiglia. A questi figli si reca un grave danno, poiché in questa “famiglia supplente” essi non trovano il padre e la madre, ma “due padri” oppure “due madri”.

3. Confidiamo che i Parlamenti dei Paesi d’Europa sapranno, su questo punto, prendere le distanze e, in occasione dell’Anno della Famiglia, vorranno proteggere le famiglie di antichissime società e nazioni da questo fondamentale pericolo. Non ci sono dubbi, però, che siamo in presenza di una terribile tentazione. La prima Domenica di Quaresima ci ricorda il Cristo che si è trovato faccia a faccia con l’eterno Tentatore dell’uomo e l’ha vinto: una vittoria che preannunciava il trionfo pasquale mediante la croce e la risurrezione. Cristo dice a noi – a noi cristiani, a noi abitanti dell’Europa – che questo genere di male non si vince se non con la preghiera e il digiuno. Sì, non possiamo vincere questo male, questa minaccia in altro modo. Le uniche istanze a cui possiamo appellarci sono la retta, la sana coscienza e il senso di responsabilità delle nazioni, le quali non devono permettere che si distrugga la famiglia, perché da essa dipende il futuro di ciascuno di noi.

All’inizio della Quaresima, la Chiesa riascolta la chiamata di Cristo e l’accoglie così come l’hanno accolta, un tempo, gli Apostoli. Smettiamo di essere uomini di poca fede e cerchiamo di diventare uomini di preghiera e di penitenza! ” . . . Se non vi convertite, perirete tutti” (Lc 13, 3), dice Cristo. Non sono parole pronunciate invano; hanno avuto già molte volte conferma nella storia. Non sappiamo né il giorno né l’ora (cfr. Mt 25, 13)! La Quaresima ci serva al rinnovamento della nostra alleanza con Dio in Cristo. In Lui solo è la salvezza dell’uomo.









martedì 28 marzo 2017

Un progetto sbagliato






di Giovanni Scalese (27/03/2017)

Un paio di settimane fa Aldo Maria Valli ha pubblicato sul suo blog un bel post, in cui, attraverso l’allegoria del sogno, esprime la nostalgia per una normalità che nella Chiesa odierna sembrerebbe divenuta cosí rara da essere costretti a sognarla. Si tratta di venti punti sui quali è difficile non trovarsi d’accordo: sono cose talmente ovvie (o, almeno, tali erano fino a pochi anni fa), che non ci dovrebbe essere bisogno di “sognarle”. Che i parroci debbano stare vicini alle coppie che decidono di sposarsi in chiesa; che le parole del vangelo siano chiare (e sicure) e vadano interpretate nel loro evidente significato; che la liturgia abbia la sua sacralità, e quindi tutti, dal Papa fino all’ultimo chierichetto, debbano assumere un atteggiamento consono; che le pontificie accademie debbano farsi promotrici dei piú autentici valori morali, ecc. ecc., sono cose scontate per ogni buon cattolico. Talmente scontate che non dovremmo star qui a parlarne. E invece, nel momento storico che ci troviamo a vivere, sono diventate oggetto di nostalgia, visto che la “normalità” è diventata un’altra, e coincide con l’opposto di tutte quelle ovvietà (che pertanto finiscono per essere considerate eccezioni, stravaganze, singolarità). Grazie, perciò, a Valli per averci ricordato che molto di ciò che oggi viene spacciato per normale, normale non lo è affatto.

Però… c’è un però. Cinque anni fa, in questi stessi giorni, Valli aveva fatto un altro sogno (evidentemente, l’arrivo della primavera stimola in lui l’attività onirica). Lo aveva pubblicato sul sito Vino nuovo. Quel sogno era stato profetico: con un anno esatto di anticipo, aveva previsto l’esito del futuro conclave. E diciamo che, grosso modo, ci aveva preso. In quel caso si trattava di dieci punti: le dieci decisioni del nuovo Papa che sarebbe uscito dal conclave. Beh, quelle dieci decisioni sono l’esatto contrario di quanto sognato quest’anno. Un esempio. Nel sogno di due settimane fa, a un certo punto, Valli dice:
Vado a pranzo con un collega e mi rivela che il papa, per non distinguersi, ha deciso di andare a vivere nel palazzo apostolico, come tutti i suoi predecessori.
Ebbene, il sogno di cinque anni fa si apriva in senso diametralmente opposto:
Per prima cosa il nuovo papa decise di traslocare. Eletto dopo un conclave estenuante, in mezzo a mille polemiche e contrasti, e dopo che il regno del suo predecessore era finito tra lotte di potere tanto sotterranee quanto violente all’interno della curia, decise di dire addio al Vaticano. Basta, bisognava dare un segnale. Fosse stato per lui, si sarebbe trasferito ad Assisi, la città del poverello, ma Pietro, dopo tutto, ha conosciuto il martirio a Roma. Dunque il nuovo papa ordinò: “Roma deve restare la città del successore di Pietro, ma niente piú Vaticano. Vado a vivere a San Giovanni in Laterano. Lí ho la mia cattedra in quanto vescovo di Roma, e siccome il papa è papa perché vescovo di Roma, e non viceversa, è giusto che abiti in Laterano”.
E questa era solo la prima decisione. A essa ne seguivano altre nove, tutte nel segno della piú trita utopia pauperistica: “niente pomposità, niente guardie, niente gendarmi, niente maggiordomi di sua santità, niente corte pontificia”; “revoca di tutti gli incarichi di curia e radicale riduzione degli uffici”; “rinuncia al titolo di capo di Stato”; “convocazione di un grande concilio ecumenico Vaticano III” (non a Roma, ma in Terra Santa); “no al concordato”; per il nuovo conclave, “appuntamento per tutti in piazza San Giovanni, all’aperto”; per quanto riguarda il Vaticano, “niente piú barriere, niente piú cancelli”; al posto di auto lussuose, papamobili ed elicotteri, l’uso di autobus, tram e metropolitana; prima enciclica di poche parole: «In quel tempo, Gesú, entrato nel tempio, si mise a scacciare quelli che vendevano, dicendo loro: “Sta scritto: ‘La mia casa sarà casa di preghiera’. Voi invece ne avete fatto un covo di ladri”».

Questo è ciò che Valli sognava cinque anni fa. Evidentemente, ne ha fatta di strada; e non possiamo che rallegrarcene. Sapientis est mutare consilium. Però qualche puntualizzazione, a mio parere, andrebbe pur fatta. Per carità, non mi si fraintenda: non chiedo a Valli di abiurare o anche solo ritrattare le sue precedenti convinzioni. Ormai l’abiura non la si esige piú neanche dagli eretici e dagli scismatici. Però non mi sembra neppure giusto fare finta di nulla, come se niente fosse. È piú che evidente che c’è stata una evoluzione nella sensibilità e nel pensiero di Valli, e io credo che questo vada fatto notare. Valli è un giornalista; e un giornalista, secondo me, ha dei doveri nei confronti dei propri lettori: innanzi tutto, il dovere di spiegare loro il senso e i motivi di certi ripensamenti. Mi spiego. Se ora ci si lamenta di alcune anomalie nella vita della Chiesa, quando solo cinque anni fa quelle stesse anomalie erano state proposte e auspicate come segni di rinnovamento, bisogna spiegare ai lettori che cosa è successo: perché quelli che cinque anni fa erano dei traguardi da raggiungere si sono trasformati oggi in anomalie di cui lagnarsi? Non vorrei che si cadesse nell’errore commesso nei confronti di alcune ideologie dell’età moderna, in particolare il marxismo: molti sono ancora convinti che il “socialismo reale” (quello che era stato instaurato in Unione Sovietica e nei paesi satelliti) fosse un tradimento dell’ideologia (considerata in sé buona), un tradimento dovuto alle responsabilità e ai limiti degli uomini che gestivano la cosa pubblica in quei paesi. In pratica, l’errore stava, secondo costoro, nell’applicazione dell’ideologia e non nell’ideologia stessa.

Ebbene, qualcosa di simile potrebbe accadere anche nella Chiesa. Le idee espresse da Valli nel suo sogno del 2012 costituirebbero l’ideale evangelico della Chiesa; le anomalie che Valli lamenta nella Chiesa odierna dipenderebbero solo dai limiti degli uomini che erano chiamati a dare attuazione a quell’ideale. Personalmente invece credo che le anomalie che oggi riscontriamo nella Chiesa sono proprio conseguenza di quelle idee. Il sogno di cinque anni fa non rappresentava un ideale evangelico; era piuttosto un distillato di pura ideologia, di cui ora stiamo verificando i risultati. E da questo punto di vista, penso che sia provvidenziale che la Chiesa faccia questa esperienza: essa serve ad aprire gli occhi di molti che hanno creduto in quelle idee. Pensavano che fossero il vangelo nella sua purezza, liberato dalle incrostazioni religiose, politiche e culturali che gli si erano depositate sopra nel corso dei secoli; in realtà non si trattava che di una utopia, che aveva ripreso qualche spunto dal vangelo, per farsi piú facilmente accettare, ma che aveva come scopo di stravolgere la Chiesa.

Ovviamente tale ideologia non l’ha inventata Valli, ma esisteva prima di lui, e lui ne era rimasto infatuato come molti altri cattolici (laici, preti, vescovi e cardinali). E neanche è da credere, come potrebbero fare i tradizionalisti, che si tratti di un frutto del Concilio. Essa esisteva già da molto tempo prima che il Vaticano II venisse convocato. Anzi, si potrebbe pensare che il Concilio sia stato proprio il tentativo — fallito — da essa usato per imporsi alla Chiesa. E, dopo il Concilio, ha continuato a diffondersi (proponendosi addirittura come l’interpretazione autentica del Vaticano II, come “spirito del Concilio”), nonostante la resistenza opposta dai Papi che si sono avvicendati, fino a trionfare in questi ultimi anni. E ora, vedendo i risultati dell’applicazione di quella ideologia, viene la nostalgia per una “normalità” che prima si criticava, scambiandola per il ritardo della Chiesa sulla storia (chi non ricorda una delle ultime, infelicissime, uscite del Card. Martini: «La Chiesa è rimasta indietro di duecento anni»?). Ora che la Chiesa, finalmente, cammina al passo con i tempi, ci si accorge che qualcosa non va. Ma non va, non perché qualcosa sia andato storto nell’applicazione del progetto; non va, semplicemente perché il progetto era sbagliato.
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lunedì 27 marzo 2017

Soffrire nella Chiesa e per la Chiesa. Le parole chiare di Negri e Burke







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In tempi grami come questi, nei quali tanta è la confusione nella Chiesa, la parola di alcuni pastori fedeli al Vangelo di Gesù è quanto mai preziosa.

Vorrei qui parlare dell’ultimo intervento di monsignor Luigi Negri sulla rivista «Studi cattolici» (marzo 2017), dove l’arcivescovo emerito di Ferrara – Comacchio è titolare della rubrica «Opportune et importune».

Sotto il titolo «Soffrire nella Chiesa e per la Chiesa», Negri parte da un ricordo di monsignor Luigi Giussani per esprimere in modo cristallino alcuni giudizi inequivocabili su questioni che in questi ultimi tempi hanno provocato sconcerto e suscitato tristezza in tanti cattolici.

Scrive dunque l’arcivescovo: «Il mese di febbraio, come accade dall’anno della sua morte, porta in me il ricordo vivo di monsignor Giussani, il grande maestro che ha segnato indelebilmente la mia vita, da quando a diciassette anni lo incontrai durante il suo insegnamento nell’ora di religione al liceo Berchet. La parola di Giussani su Cristo, la parola che ce lo ha testimoniato presente, si compì nell’introdurci alla Chiesa, perché la Chiesa è il luogo dove Cristo continua a essere misteriosamente presente, in modo sacramentale ma reale, e dove è possibile incontrarLo, coinvolgere la nostra vita con la Sua».

«Don Giussani – prosegue monsignor Negri –  ci introdusse nella Chiesa e ci fece scoprire che era nostra madre, dalla quale non potevamo più staccarci; nostra madre che dovevamo amare con tutte le nostre forze. Quante volte don Giussani ha ricordato che per la Chiesa si doveva soffrire: bisognava soffrire nella Chiesa e per la Chiesa, per tutto ciò che di imperfetto, di equivoco, di erroneo inevitabilmente vi è presente a motivo della sua dimensione anche umana».

«Noi non vogliamo una Chiesa nuova a tutti costi, noi non vogliamo una Chiesa che abbia delle formulazioni più consone o accoglibili dall’orrenda mentalità anticattolica che domina la vita del mondo e con la quale la Chiesa di oggi rischia di accordarsi. Noi vogliamo la Chiesa di Cristo, la Chiesa che viene generata e rigenerata ogni giorno dallo Spirito, attraverso la Parola di Dio, attraverso i sacramenti, attraverso la vita di carità; la Chiesa appartenendo alla quale si deve soffrire per lei, sempre con letizia».

Ed ecco la chiara valutazione di Negri su alcune questioni che hanno provocato sconcerto fra tanti cattolici: «Soffriamo per la grande confusione che domina l’odierna vita ecclesiale, in cui si rincorrono voci e affermazioni equivoche, quando non chiaramente erronee. Non si può dire, per esempio, che non siamo certi della Parola del Signore perché a quel tempo non c’erano i registratori [qui il riferimento è alle dichiarazioni fatte in un’intervista dal generale dei gesuiti, padre Arturo Sosa, ndr] e perché si ha l’idea della Parola di Dio come un testo meramente umano che dev’essere sottoposto alla contestualizzazione della cultura. Consegnare la Parola alla cultura, non a coloro che hanno la responsabilità di leggerla, di approfondirla e di proclamarla, è perfetto luteranesimo».

Allo stesso modo, «non si può dire che Marco Pannella “è ispiratore di una vita più bella non solo per l’Italia, ma per questo nostro mondo che ha bisogno più che mai di uomini che sappiano parlare come lui” e addirittura augurarsi che il suo spirito “ci aiuti a vivere in quella stessa direzione”» [e qui il riferimento è alle parole dedicate a Pannella da monsignor Vincenzo Paglia, presidente della Pontificia accademia per la vita, ndr].

Prosegue  monsignor Negri: «Chi ha vissuto in Italia (e non sulla luna) sa bene che Pannella, con la grande battaglia (vinta da lui e dai radicali) sull’aborto ha causato la non-nascita di sette milioni di italiani e con la sua grande battaglia (vinta da lui e dai radicali) sul divorzio ha messo le premesse giuridiche perché migliaia di famiglie italiane si decomponessero come la neve al sole».

«Non si può, contro le decisioni del Concilio di Trento e contro la tradizione storiografica migliore – non solo della Chiesa –, affermare che Lutero è un riformatore. Lutero è all’origine di tutti i degradi della modernità, compreso il razionalismo, compreso il fideismo, ma soprattutto comprese le grandi ideologie totalitarie che hanno immiserito la vita dell’Occidente. Eppure, un certo numero di istituti di scienze religiose di alcune diocesi italiane hanno inserito subito un corso o un seminario su Lutero riformatore».

«Ritengo – scrive l’arcivescovo – che questa situazione rischi di essere veramente di grande prova per il popolo cristiano e per tanti pastori. Chi guida dovrebbe agire per eliminare almeno i più grandi di questi equivoci con iniziative anche disciplinari, ma soprattutto dovrebbe rispondere alle domande legittime di tanti (e non solo di quattro cardinali), rendendo più chiaro il cammino nel vivere questo momento della Chiesa, anche per noi vescovi che nelle periferie abbiamo scelto di vivere, accompagnando i cristiani ad affrontare drammi che non sanno risolvere da soli».

Ed ecco la conclusione di monsignor Negri: «Un’ultima cosa vorrei ricordare alla fine di questa per me faticosissima sottolineatura delle ragioni di dolore per la Chiesa. Georges Bernanos e Giorgio La Pira, due giganti della cultura e dell’impegno sociale dei cristiani, hanno posto in primo piano una cosa su cui molti, oggi, soprattutto fra gli ecclesiastici autorevoli, dovrebbero riflettere: uno degli elementi terribili della storia, della vita e della cultura occidentale è stata la rabbia dei poveri, l’ira dei poveri. Io credo che bisogna considerarlo, perché i poveri non si irritano perché non sono aiutati a superare la loro povertà, ma perché sono abbandonati a sé stessi nella ricerca che precede e condiziona tutti gli aspetti della vita: il problema del senso, della verità, della bellezza e della giustizia della vita. La Chiesa tradisce la sua missione quando non si cura di portare a tutti gli uomini – che sono tutti poveri – la Parola che salva: forse l’ira della gente è più vicina di quanto noi pensiamo».

Che dire? Oltre a sottoscrivere ogni parola, vorrei soltanto aggiungere alcune brevi considerazioni, a partire da una domanda: perché non c’è un più alto numero di pastori capaci di parlare con questa «parresia», con questa franchezza che è anche la più alta forma di carità verso gli altri pastori e il gregge bisognoso di essere guidato nella verità?

Le ultime parole di monsignor Negri non sono una minaccia. Esprimono una sensazione che molti provano di fronte a una Chiesa che tradisce la sua missione e a tanti pastori che, per paura, opportunismo o un distorto senso del quieto vivere, restano in silenzio o, peggio, cavalcano l’onda.
Intanto un altro pastore che non ha nessuna intenzione di adeguarsi, il cardinale Raymond Burke, durante una serata a Springfield, in Virginia, è tornato sulla vicenda dei «dubia» e, rispondendo ad alcune domande, ha spiegato che lui e gli altri tre cardinali non molleranno la presa.


Quando gli è stato chiesto se ci sarà una risposta ai «dubia» da parte del papa o della Congregazione per la dottrina della fede, Burke ha detto:  «Sinceramente spero che ci sarà perché queste sono questioni fondamentali che sono onestamente sollevate dal testo dell’esortazione post-sinodale “Amoris laetitia”. Fino a quando non ci sarà una risposta a queste questioni continuerà a diffondersi una confusione molto dannosa nella Chiesa. Una delle questioni fondamentali riguarda la verità secondo cui ci sono cose che sono sempre e dovunque sbagliate, quelli che chiamiamo atti intrinsecamente malvagi. Noi cardinali quindi continueremo a insistere per ascoltare una risposta a queste domande sincere».

Quanto al motivo per cui i «dubia» sono stati resi pubblici, il cardinale Burke, dopo aver negato che da parte dei quattro cardinali ci sia stata arroganza, perché si sono limitati ad applicare un metodo tradizionale e consolidato nella Chiesa, ha detto che la decisione è stata presa dopo aver saputo dalla Congregazione che non ci sarebbe stata risposta. A quel punto, di fronte allo sconcerto e alla richiesta di chiarezza avanzata da tanti fedeli, è stato ritenuto opportuno pubblicare le domande, per far sapere che non tutti i cardinali, che hanno la responsabilità di assistere il papa, evitano di porre certe domande.

E ora che succederà? Se una risposta continuerà a non arrivare come procederanno i quattro cardinali?

Burke: «Allora dovremo semplicemente correggere la situazione, di nuovo in maniera rispettosa. Cioè semplicemente questo: dedurre la risposta alle domande dall’insegnamento costante della Chiesa e renderlo noto per il bene delle anime».

Insomma, a differenza di quanto alcuni ambienti hanno cercato di far sapere negli ultimi tempi, e cioè che i quattro cardinali, per non provocare divisioni nella Chiesa, avrebbero deciso di non procedere con la correzione, Burke dice che è vero proprio il contrario. Vedremo in che modo i quattro cardinali si muoveranno, ma di certo non demordono.

Aldo Maria Valli



sabato 25 marzo 2017

don Elia. La scala del cielo




don Elia 

Nella città di Santa Fe, nel New Mexico, da quasi un secolo e mezzo si ammira un prodigio di falegnameria che attira ogni anno un quarto di milione di visitatori. La cappella di Loreto fu eretta nella seconda metà del XIX secolo per un gruppo di religiose francesi giunte sul luogo per aprirvi un collegio femminile. Una volta terminata la costruzione, ci si accorse però con disappunto che l’architetto (lo stesso che aveva progettato la cattedrale) aveva omesso un passaggio per accedere alla cantoria. Dopo una vana ricerca di soluzioni, la comunità decise di affidarsi a san Giuseppe con una novena. L’ultimo giorno, ecco presentarsi un uomo anziano, accompagnato da un asinello, che propone di costruire una scala in legno. I suoi soli attrezzi, una sega, un martello e una squadra. In capo a sei mesi, una magnifica scala a chiocciola era pronta e lo sconosciuto sparì senza chiedere un soldo e senza lasciare traccia di sé.

Ciò che da allora costituisce il principale motivo di meraviglia, tuttavia, è il fatto che quella scala è sprovvista del necessario pilastro centrale che le faccia da supporto; nessuno è finora riuscito a spiegare come possa reggersi. Per la sua costruzione, inoltre, non sono stati usati né chiodi né colla, ma solo pioli lignei. Il legno utilizzato per assemblare l’elegante spirale dalle curve perfette è così duro che non presenta segni di usura, nonostante l’intenso passaggio di persone; esso, oltretutto, non si trova nella regione, ma è di origine ignota. In breve, l’opera richiede una perizia e delle conoscenze talmente specializzate che non si capisce come un uomo solo, a quell’epoca, possa averla realizzata… a meno che non sia stato davvero – come la devozione delle suore e del popolo ha subito amato pensare – qualcuno che, per la sua saggezza, fu scelto per essere immagine viva del Padre celeste per il Figlio di Dio umanato e insegnargli un’arte raffinata, in qualche modo legata alla Sua missione sulla terra.

Il «figlio del carpentiere» (Mt 13, 55), in effetti, non apprese un “umile mestiere”, come tende a pensare una mentalità da “colletti bianchi” che squalifica a priori il lavoro manuale, ma una disciplina di estremo rigore, frutto di antica sapienza. Nei brevi anni della sua vita pubblica, Egli doveva costruire una scala che congiungesse la terra al cielo. La Chiesa visibile, con le sue strutture e istituzioni, avrebbe dovuto sfidare i millenni e resistere a tutti gli assalti. Ciò che la tiene in piedi, tuttavia, sfugge allo sguardo umano: non sono mezzi imponenti o smisurate risorse finanziarie – che, semmai, sono tarli che la rodono dall’interno. Il materiale da costruzione è terreno, certo, ma chi è nato dallo Spirito non si sa di dove venga (cf. Gv 3, 8). L’architetto e costruttore è lo stesso che ha progettato la spirale del DNA; un giorno si è presentato nella veste del servo, umile e discreto, ed è poi ripartito, a lavoro ultimato, senza chiedere nulla in cambio.


Chi, insieme con la sua purissima Sposa, ha avuto il compito sublime di educare umanamente quest’Uomo-Dio non poteva certo rimanere estraneo alla Sua opera. Anche se il suo ruolo nei confronti della Chiesa è stato riconosciuto in epoca tardiva, egli lo ha sempre esercitato. L’8 dicembre 1870 il beato Pio IX, in un’epoca particolarmente burrascosa, non a caso lo proclamò Patrono della Chiesa universale. A nessun santo, dopo la Vergine, si può attribuire un onore e una funzione del genere. La preghiera degli stessi Apostoli, che pure sono le colonne del mistico edificio, non ha sul Figlio di Dio un influsso pari a quello di colui sotto la cui autorità paterna Egli scelse di porsi. Quest’ultimo, quale uomo del silenzio, ebbe il singolare privilegio, condiviso con Maria santissima, di ascoltare quotidianamente, per lunghi anni, il Verbo incarnato, formandone in pari tempo l’umanità con la sapienza di cui era maestro.


Come non avere incondizionata fiducia nella sua intercessione a beneficio della Chiesa intera e delle singole anime? Non solo per le necessità materiali (come la mancanza di lavoro, che in questo periodo affligge tante famiglie), ma anche e soprattutto per quelle spirituali. Come non guardare, senza una colpevole omissione, al suo esempio luminoso di uomo giusto per imparare a praticare fedelmente i santi Comandamenti di Dio, onde poter arrivare, con l’aiuto della grazia, in cima alla scala del Cielo evitando di inciamparvi lungo l’ascesa e di precipitarne rovinosamente? Come non affidargli, congiuntamente alla Sposa, le famiglie in pericolo, i matrimoni sofferenti e i figli esposti a tante insidie? Ma, soprattutto, perché non richiedere il suo intervento a favore della barca di Pietro sbattuta dai flutti? Certo, essa è stata costruita dal “figlio del carpentiere” in modo tale da non poter affondare, ma chi è in essa rischia di esserne sbalzato fuori dalla furia del vento e delle onde. Non dubitiamo che, al momento fissato, Egli si alzi a placarla, ma nel frattempo siamo sballottati in modo così violento che abbiamo anche bisogno di essere rassicurati.


Con la sua fedele obbedienza, san Giuseppe cooperò – sebbene a tutt’altro livello rispetto alla Madonna – al compiersi dell’impensabile mistero dell’Incarnazione. Grazie alla sua disponibilità totale, esso si realizzò in modo onesto e ordinato; il Divino Bambino e la Vergine Madre trovarono in lui un vero capo-famiglia e lo strumento vivente della Provvidenza. Non per nulla «l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide chiamato Giuseppe» (Lc 1, 26-27). La sua dignità non è in qualche modo infinita, come quella della Madre di Dio a motivo – rileva san Tommaso – della Sua maternità, ma è senz’altro la più alta dopo quella di Lei. Il suo fiat non è stato esplicito come quello di Maria, ma è stato pronunciato con i fatti, mediante quelle opere in cui la sua fede si è compiuta. Impariamo da lui a obbedire attivamente a Dio sempre e in ogni cosa, anche quando ciò che comanda sembra troppo arduo nell’attuale cultura o ciò che ci chiede impossibile alle sole capacità umane.



Pubblicato da mic 

mercoledì 22 marzo 2017

A proposito di profezie. Conoscete la Madonna del Buon Successo?







di Cristina Siccardi

Suor Lucia [di Fatima] sapeva, attraverso i suoi colloqui celesti, che la famiglia era il nucleo dello «scontro finale». Ci furono chiare profezie mariane sul tragico sfaldamento della cellula famiglia, si tratta delle apparizioni della Madonna del Buon Successo, che avvennero in Ecuador: la Vergine Maria parlò allora dei nostri tempi. All’una di notte del 2 febbraio 1594, la giovane badessa del convento dell’Immacolata Concezione della città di Quito, Madre Mariana de Jesus Torres (1563-1635), scese a pregare nel coro della cappella.

Ad un certo punto ebbe la sensazione che qualcuno fosse presente e dopo poco si sentì chiamare per nome; di fronte a lei apparve una bellissima Signora circondata di gloria e di splendore, vestita da monaca, che con la mano sinistra sosteneva un Bambino di celestiale bellezza, mentre con la mano destra stringeva un pastorale abbaziale di oro brunito e costellato di pietre preziose.

La Badessa era attonita e contemplava, con una gioia inesprimibile, quella Signora di ultraterrena beltà; allo stesso tempo provò un amore così immenso per Dio che, come lei stessa racconterà, se non avesse avuto una speciale protezione, ne sarebbe morta all’istante. Quando riuscì a parlare chiese alla Signora chi fosse, ed ella rispose: «Sono Maria del Buon Successo, regina dei Cieli e della terra».

Ebbe inizio così la prodigiosa serie di apparizioni mariane. [La religiosa ebbe apparizioni fin da bambina, compresa una nel 1582, quand’era appena diventata suora, che le causò una “morte mistica”, ndr] La Madonna, quattro secoli fa, descrisse la situazione del mondo e della Chiesa di oggi, ammonendo e sollevando speranze che gettano luce sull’epoca di grave crisi che stiamo
vivendo.

La Madonna del Buon Successo profetò quattro realtà: incoraggiò le sorti della comunità di suore che Madre Mariana Torres guidava, garantendo la sua materna protezione sul monastero; predisse il destino della nazione ecuadoregna, della cristianità occidentale e della Chiesa universale. Straordinario fu il suo predire la Massoneria più di un secolo prima della sua nascita formale (24 giugno 1717).

Per quanto riguarda l’Ecuador, la Beatissima Vergine preannunciò il 16 gennaio 1599, con due secoli e mezzo di anticipo, la consacrazione pubblica della nazione al Sacro Cuore di Gesù: «Nel secolo XIX verrà un presidente veramente cristiano (il futuro presidente dell’Ecuador, Gabriel García Moreno), un uomo di carattere, al quale il Signore concederà la palma del martirio sulla piazza antistante a questo mio convento; egli consacrerà la Repubblica al Divino Cuore del mio amatissimo Figlio e questa consacrazione sosterrà la Religione cattolica negli anni successivi, che saranno funesti per la Chiesa».

Il 21 gennaio 1610 la Madonna predisse che sarebbe dilagata la corruzione morale «perché Satana regnerà quasi completamente attraverso delle sette massoniche. Queste si concentreranno principalmente sui bambini per mantenere questa corruzione generale. Guai ai bambini di quest’epoca! (…)] Quanto al sacramento del matrimonio, che è simbolo dell’unione di Cristo con la sua Chiesa, sarà attaccato e profondamente profanato. La massoneria, con il suo potere, promulgherà delle inique leggi al fine di eliminare questo sacramento, facilitando la vita peccaminosa di ciascuno e incoraggiando la procreazione di bambini illegittimi, nati senza la benedizione della Chiesa. Lo spirito cattolico diminuirà rapidamente; la preziosa luce della fede si spegnerà progressivamente, fino a quando si giungerà ad una pressoché totale corruzione dei costumi (…).

In questi tempi sciagurati, ci sarà una lussuria ostentata che terrà le persone nel peccato e conquisterà innumerevoli anime frivole che si perderanno. Non si troverà quasi più l’innocenza nei bambini, né la modestia nelle donne. Nel supremo momento del bisogno della Chiesa, coloro che dovranno parlare resteranno in silenzio! Tu vedrai tutto dal cielo, dove non soffrirai più, figlia molto amata, ma le tue figlie e quelle che seguiranno dopo di loro soffriranno; queste anime molto amate che tu già conosci placheranno l’ira divina. Esse ricorreranno a me per l’invocazione di Nostra Signora del Buon Successo, quindi io ti comando di far fare la statua per la consolazione e la sopravvivenza del mio Convento e per le anime fedeli di questi tempi, un’epoca dove ci sarà una grande devozione verso di me, perché io sono la Regina del Cielo sotto svariate invocazioni. Questa devozione sarà lo scudo fra la Giustizia divina e il mondo prevaricatore, per prevenire la realizzazione della terribile punizione di Dio che questa terra colpevole merita».

Il 2 febbraio 1610 la Madonna, nella quinta apparizione, affermò che la Chiesa sarà attaccata da «terribili orde» e dilagheranno la corruzione morale e l’educazione laica.

La notte del 2 febbraio 1634, mentre la badessa pregava nel coro della cappella, la lampada del Tabernacolo si spense, lasciando il sacro luogo al buio. La Badessa stava per andare a riaccenderla, ma si sentì come bloccata da una forza sconosciuta e restò quindi in attesa. Improvvisamente apparve la Madonna, vincendo le tenebre col suo splendore e illuminando la cappella come se fosse stato pieno giorno. La Signora di Quito parlò di nuovo: «Lo spegnersi della lampada che arde davanti all’Amore prigioniero ha molti significati (…) si diffonderanno varie eresie, e, sotto il loro potere, la luce preziosa della Fede si spegnerà nelle anime per opera della quasi totale corruzione dei costumi. In quel tempo vi saranno grandi calamità fisiche e morali, pubbliche e private. Le poche anime rimaste fedeli alla grazia soffriranno un martirio tanto crudele e indicibile quanto prolungato; molte di esse scenderanno nella tomba per la violenza delle loro sofferenze e verranno considerate come martiri sacrificatisi per la Chiesa…».

Altro significato dello spegnimento della lampada è «dovuto allo spirito avvelenato di impurità che in quel tempo dominerà, percorrendo le strade, le piazze e i luoghi pubblici come un mare immondo e godendo di una libertà talmente sorprendente che quasi non resteranno più nel mondo anime vergini».

Il quarto significato «è il riconoscimento del potere delle sette, che abilmente si introdurrà nelle famiglie estinguendo l’innocenza nei cuori dei piccoli, soffocando in tal modo anche le vocazioni sacerdotali (…) Disgraziatamente, la Chiesa passerà allora attraverso una notte oscura in cui mancherà un prelato e un padre che vegli con amore, con dolcezza e forza, perspicacia e prudenza, e molte anime si perderanno mettendo in pericolo la loro stessa salvezza eterna. Il quinto motivo dell’estinzione della lampada sta nell’insensibilità e nel disinteresse di quella gente che, pur possedendo abbondanti ricchezze, resterà indifferente all’oppressione della Chiesa, alla persecuzione della virtù e al trionfo dei malvagi, trascurando di impiegare santamente le loro ricchezze per ottenere la distruzione del male e la restaurazione della Fede».

In questa tragica epoca di tenebre «la malvagità sarà trionfante. Eppure sarà giunta la mia ora, in cui io, in maniera meravigliosa, detronizzerò il superbo e maledetto Satana, ponendolo sotto il mio piede e incatenandolo nell’abisso infernale, liberando infine la Chiesa e la Patria dalla sua crudele tirannia». Tirannia che la Madonna imputò anche alla timidezza delle anime consacrate a Dio. La Regina delle vittorie parlò anche di un piccolo gregge che resisterà di fronte all’apostasia generalizzata.

La festa di Nostra Signora del Buon Successo si celebra il 2 febbraio e la sua devozione venne approvata nel 1611. La causa di beatificazione di Madre Mariana è stata aperta l’8 agosto 1986 dall’Arcivescovo di Quito, Antonio José González Zumárraga; mentre nel 1911 l’arcidiocesi della capitale ecuadoregna chiese alle autorità romane di poter incoronare la statua di Nostra Signora del Buon Successo, cosa che avvenne il 2 febbraio del 1991.

Nello stesso anno la cappella del convento dell’Immacolata Concezione è stata dichiarata Santuario mariano. Ricordare le profezie della Madonna del Buon Successo, legate inevitabilmente alle profezie di La Salette e di Fatima, non è soltanto motivo di considerare le importanti denunce celesti dei depravati, corrotti e profanatori giorni che stiamo vivendo, ma anche ragione di conforto e di sprone: resistere alle normative compiacenti il male, siano esse ecclesiastiche, siano esse laiche, è dovere di ogni uomo di buona volontà, ai fini sia della salvezza della propria anima, sia di un più rapido intervento divino, affinché la Misericordia di Nostro Signore ponga fine alla colpa.


Fonte di on


La “divagarite” e la medicina per guarirla




di   (21/03/2017)
Sempre più spesso, ascoltando i discorsi degli uomini di Chiesa o leggendo i loro testi, mi accorgo che non parlano delle cose essenziali relative alla fede e alla salvezza delle anime, ma si occupano d’altro. Lo fanno anche bene, dimostrando una certa preparazione. Ma non parlano, o parlano molto poco, o non in prima istanza, di Dio e della rivelazione divina. Non si occupano di quelli che un tempo si chiamavano i «novissimi»  (morte, giudizio, inferno, paradiso), ma preferiscono  parlare d’altro, delle cose terrene.

Definirei questo atteggiamento «divagarite». Significa che queste persone divagano.  Per esempio fanno sociologia, discettano di temi ecologici, affrontano alcune questioni economiche, scendono in campo sul piano dei diritti umani.

Non sto dicendo che siano temi di poco conto, né che la Chiesa non se ne debba occupare. Sto dicendo che, privilegiando questi temi, e trascurando Dio, la Trinità, la rivelazione, il giudizio divino e il destino dell’uomo dopo la morte, di fatto viene messa in atto una specie di autocensura. Che può essere conscia o inconscia. Ma c’è.

Perché succede?

Qualcuno ritiene che il fenomeno sia dovuto all’ingresso dell’ideologia politica nel cuore e nella mente degli uomini di Chiesa, per cui la loro predicazione si indirizza preferibilmente ai problemi di quaggiù e non ai misteri di lassù. È una spiegazione. Ma forse ci sono anche ragioni più profonde.

È noto che oggi, in piena post-modernità, è ritenuto inconcepibile che qualcuno pretenda di essere portatore e testimone di una verità assoluta. Se poi questa verità è una verità religiosa, peggio ancora. E se poi, come nel caso del cristianesimo, la religione si presenta addirittura come religione del «Logos», sintesi di ragione e fede, il suo contenuto è considerato del tutto improponibile.

L’uomo contemporaneo, imbevuto di soggettivismo e relativismo, è in larga misura uno sbandato. Lo è nel senso letterale del termine, perché non solo non possiede un orientamento sicuro, ma esclude che sia possibile averlo al di fuori del proprio sentimento in relazione a una singola situazione. Tuttavia possiede alcune certezze che, paradossalmente, sono proprio il frutto del suo sbandamento.

La prima è che nessun pensiero e nessuna religione possono avere una pretesa di verità. La seconda è che tra fede e ragione non può esserci sintesi, ma solo divaricazione e opposizione. Così, nel momento stesso in cui il cristianesimo rivendica per sé il doppio ruolo di religione vera, in grado di rispondere alle grandi domande dell’esistenza ergendosi su tutte le altre filosofie e religioni, e di religione razionale, che non separa ma integra la fisica e la metafisica, scatta immediatamente il rifiuto: tutto ciò, dice la mentalità sottoposta al dominio di soggettivismo e relativismo, è semplicemente assurdo. Per l’uomo contemporaneo un’esperienza religiosa oggi non può accampare alcuna pretesa né di verità né di razionalità; l’unica cosa che può fare è porsi umilmente accanto a tutte le altre, sullo stesso piano, nel segno del pluralismo.

Un altro principio oggi diffuso, un vero e proprio dogma laicista, è che qualunque obbligazione morale derivante dall’esperienza religiosa sia improponibile. Se tale esperienza non può rivendicare per sé lo status di razionale e vera, l’obbligazione morale che ne consegue è necessariamente infondata e arbitraria, frutto di disposizioni istituzionali che si sostituiscono alla libertà di scelta.

Si tratta di convincimenti tanto radicati, e così pervasivi, da aver fatto breccia anche fra i cattolici. I quali spesso sono i primi a ridimensionare la pretesa di razionalità e di verità della quale dovrebbero essere portatori. Ecco così che la stessa figura di Gesù è relativizzata e storicizzata fino al punto da mettere in ombra la sua divinità; ecco che l’origine divina della Chiesa in Gesù e la sua pretesa di essere l’unica vera Chiesa non sono più riaffermate come certe. Ed ecco anche il dilagare della «divagarite».

Se, come dissero gli apostoli a Gesù, «questo linguaggio è duro», difficile da afferrare per il mondo, perché stare a combattere? Meglio adeguarsi. E un modo comodo e rapido per adeguarsi è parlare d’altro. È una via di fuga, che raggiunge il duplice obiettivo di evitare argomenti troppo «duri» per la mentalità secolarizzata e di assicurarsi l’applauso del mondo.

Ma, se la «divagarite» è così diffusa, com’è che la fede ancora resiste? C’è qualche medicina? E, se c’è, come funziona?

Sì, le medicine ci sono. E non occorre cercarle chissà dove (per esempio, anche se qualcuno ha detto che Lutero è stato una medicina per la Chiesa, non occorre rivolgersi alla farmacia dei fratelli luterani). La medicina numero uno, in realtà, è un vecchio ritrovato della farmacia cattolica e si chiama adorazione. Per la precisione adorazione eucaristica. Per lo più silenziosa.

Mi torna alla mente la Giornata mondiale della gioventù a Colonia, nel 2005. Ero là come inviato e ricordo la notte dell’adorazione eucaristica da parte di migliaia e migliaia di giovani nella spianata di Marienfeld. Che momento! Non ci furono parole, eppure la forza di quella preghiera si poteva toccare.

So che in tutto il mondo, anche in Italia, si moltiplicano i gruppi di adorazione eucaristica. Mia moglie Serena, detta Santa Subito e catechista di lungo corso, non vi rinuncerebbe mai e fa i salti mortali pur di ritagliarsi quello spazio.

Butto giù questi appunti dopo essere stato in una chiesa nella quale c’è uno spazio riservato all’adorazione perpetua. Niente discorsi, niente proclami, niente attivismo. Solo il tabernacolo e il Santissimo. Che meraviglia.

Ecco. Praticata regolarmente, da tante persone nascoste, l’adorazione combatte la «divagarite» e molti altri morbi. Ed è significativo che lo faccia attraverso il silenzio.

«La force du silence» si intitola un bel libro del cardinale Robert Sarah.  E in san Giovanni della Croce troviamo questo pensiero fulminante: «Il Padre pronunciò una parola, che fu suo Figlio, e sempre la ripete in un eterno silenzio; perciò in silenzio essa deve essere ascoltata dall’anima».

Potendo contare su una medicina così, la nostra fede è al sicuro. Anche se alcuni pastori, in preda ad attacchi di «divagarite», mostrano la tendenza a trasformarsi in sociologi, economisti o politologi, la contemplazione silenziosa ci riporta continuamente all’essenziale.

Aldo Maria Valli
















La forza del simbolo liturgico e il suo rifiuto





fonte: traditioliturgica.blogspot.it (19/03/2017)

Un signore mi ha raccontato il fatto seguente: 

«Vent'anni fa ero assiduo frequentatore di una comunità religiosa nella quale si officiava nella liturgia latina tradizionale. Un giorno i religiosi stavano preparando la chiesa per una messa pontificale da celebrarsi il giorno seguente. C'era tutto: il trono del vescovo, le sedi dei diaconi e dei presbiteri, i libri e i paramenti liturgici. Ero amico del sacrestano che mi faceva vedere come si disponeva la chiesa per l'occasione. Mi caddero gli occhi sulle chiroteche (i guanti) che il vescovo avrebbe indossato per la liturgia. Per curiosità le presi in mano e ne indossai una. Vedendo la mia mano guantata, ebbi una imprevista e immediata reazione: sentii dentro di me che l'aver indossato quel guanto liturgico, gesto che non voleva essere irrispettoso seppur dettato da una innocente curiosità, mi faceva male dentro perché mi rappresentava per quello che non ero affatto. Immediatamente lo levai, come se l'oggetto mi scottasse, e lo misi dove stava originalmente».

Il racconto può sembrare banale ma non lo è affatto e vedremo subito il perché.
Il simbolo liturgico indica uno "status" un modo di essere, una funzione ben precisa. Un abito liturgico non può, perciò, essere indossato per altri scopi che per quelli per il quale è stato confezionato, non può essere indossato da altre persone se non dai cosiddetti sacri ministri perché esteriorizza uno "status" interiore; è l'esteriorizzazione di una realtà spirituale. L'esterno deve corrispondere all'interno!
Laddove tutto ciò non sussiste, il simbolo liturgico confligge con il contesto (che siano persone o luoghi) nel quale viene posto, diviene formalità che svuota di efficacia e senso l'azione liturgica, oltre a privarsi di senso in se stesso!
Ecco perché il soggetto di questa storia sente che quel suo ingenuo gesto gli ha "fatto male dentro".
E, d'altronde, basta avere un minimo di sensibilità per accorgersi di tutto ciò! Una volta, proprio per questo, il presbiterio non era "liberamente calpestabile" come lo è oggi e ci sono Chiese dove, penso agli etiopi, non solo non è concesso entrare nel presbiterio ma nella stessa chiesa si entra senza scarpe...

Al contrario, attorno a noi esiste la tendenza generalizzata a diminuire i simboli, a cancellarli se non ad invertirli (nei casi deprecabili delle "messe nere"): i vescovi (nel mondo cattolico) tendono a non assumere più tutti i paramenti che un tempo indicavano la pienezza del sacerdozio, i sacerdoti riducono sempre più i loro e, in pubblico, appaiono sempre più come dei semplici laici.

Temo che qui non ci sia solo un semplice "timore" ad apparire o la condanna per trionfalismo dell'apparato liturgico esterno, ma un'inconscia paura verso il simbolo il quale evoca una sacralità che, in un animo impreparato, è fonte di imbarazzo, se non di fastidio. Questo potrebbe spiegare da quali animi è nata la spoliazione delle chiese e il pauperismo delle sciattissime liturgie cattoliche odierne. I vecchi di un tempo, se avessero visto questa moda clericale, l'avrebbero giudicata così: "Sembra il demonio che ha paura dell'acqua santa e ne fugge via"... 

Il simbolo, infatti, parla ancora e parla assai bene; parla a chi lo riconosce e parla, soprattutto, a chi lo rifiuta perché entra in contrasto con la sua interiorità impreparata! In fondo, l'iconoclastia nelle chiese occidentali non è che un'involontaria ma chiarissima confessione: indica chiaramente che, se non ci sono le condizioni interiori richieste, il simbolo (dunque il mondo sacrale) entra in collisione con chi non lo può sostenere. Da qui l'antipatia e l'avversione per esso che si concretizza anche in una vera e propria persecuzione verso chi lo conserva.

E qui nasce la grande domanda: una Chiesa che non è più in grado di stabilire le condizioni con cui un uomo (o un sacerdote) possa efficacemente sintonizzarsi con il simbolo e con Quanto questo rimanda (poiché la liturgia ha essenziale bisogno di simboli per rimandare al Cielo!), non ha forse fallito il suo autentico e fondante mandato?









martedì 21 marzo 2017

Cardinal Sarah: "Credo la Chiesa una e santa"






Per la serie di incontri della “Cattedra di San Giusto per il tempo di Quaresima 2017”. Il testo dalla trascrizione dal sito della diocesi a cura del Vescovo di Trieste, mons. Giampaolo Crepaldi.Cattedra di San Giusto - Cattedrale di San Giusto martire in Trieste, 15 marzo 2017.



Robert card. Sarah

Il tema che mi è stato assegnato per questa meditazione, “Credo la Chiesa una e santa”, si rivolge all’ambito ecclesiologico, portando l’attenzione in particolare su due aspetti essenziali della Santa Chiesa, quali la sua intrinseca unità e la sua incorruttibile santità. Prima di addentrarci a riflettere su tali dottrine, desidero mettere in evidenza la loro cornice ed anche il loro fondamento, che sono dati dalla fede. Che la Chiesa è una e santa, è oggetto della fede cattolica. Il primo vocabolo del titolo della presente meditazione è la parola “Credo”. Sappiamo che il Simbolo della fede Niceno-costantinopolitano, frutto dei primi due concili ecumenici (325 e 381), che recitiamo nelle solennità liturgiche durante la celebrazione dell’Eucaristia, inizia proprio con il verbo “credere”. Nel testo greco originale del Concilio di Nicea I e poi del Costantinopolitano I, i Padri conciliari utilizzarono il plurale: “Noi Crediamo”. La versione liturgica ha adottato il singolare: “Credo in un solo Dio…” con quel che segue.

Queste due espressioni – “crediamo” e “credo” – non si oppongono, anzi si integrano a vicenda ed esprimono due importanti aspetti della fede cattolica. Non c’è o l’“Io credo” oppure il “Noi crediamo”; non c’è opposizione tra la dimensione personale e quella comunitaria della fede. Per questo, il Catechismo della Chiesa Cattolica intitola la sua Prima Sezione esattamente così: «“Io credo” – “Noi crediamo”». E nel capitolo terzo di tale Sezione, intitolato «La risposta dell’uomo a Dio», il Catechismo dedica diverse pagine a spiegare la relazione, all’interno dell’atto di fede, tra l’aspetto personale e quello ecclesiale. Rimandandovi alla rilettura personale di quelle pagine del Catechismo, strumento imprescindibile per la formazione cattolica, qui mi limito a ricordare che l’atto di fede si inserisce sempre nella Chiesa e non può mai essere individualistico. Noi crediamo in Dio; ognuno di noi crede personalmente e non può delegare ad altri l’atto di fede. D’altro canto, noi crediamo la fede della Chiesa, come diciamo nel Rito del Battesimo: «Questa è la nostra fede, questa è la fede della Chiesa, e noi ci gloriamo di professarla». Come si vede, il Rito battesimale non oppone la nostra fede a quella della Chiesa: si tratta dell’unica fede, della stessa fede. E infatti, chiunque crede, lo fa per la mediazione molto concreta e visibile della Chiesa, che custodisce e trasmette la fede. Ciò che noi crediamo proviene dagli Apostoli – questo è certo. Ma in concreto chi ce lo ha insegnato? Innanzitutto la mamma ed il papà, i nonni, il parroco, i catechisti e così via. La mia fede è la fede che mi è stata offerta dalla Chiesa, la quale con l’aiuto dello Spirito Santo la custodisce e tramanda perfettamente intatta per tutti i secoli.


Con queste prime riflessioni siamo di fatto già entrati in ambito ecclesiologico, a partire dal tema del credere, dal tema della fede. Ma c’è un secondo aspetto previo cui desidero fare cenno, sempre collegato con la parola “Credo”, anzi più precisamente con le prime parole: “Credo la Chiesa”. Nel dirle, noi cattolici affermiamo che la Chiesa è un mistero della fede. Se la Chiesa fosse una realtà puramente umana, appartenente al mero ordine naturale e sociale, non potremmo dire “Credo la Chiesa”; dovremmo limitarci ad espressioni di tenore più modesto, come per esempio “Constato che la Chiesa esiste”, o “Vedo che la Chiesa compie certe opere”… In altre parole, saremmo nel campo puramente fenomenico e non nel mondo soprannaturale dei misteri rivelati, i quali sono conosciuti, anzi “riconosciuti” solo dalla fede che si basa sull’autorità di Dio che rivela, e non sono oggetto di mera osservazione né rappresentano la conclusione cui giunge mediante ragionamenti il nostro intelletto.

È indubitabile che la Chiesa possegga anche una componente umana e visibile – che in passato veniva comunemente indicata con la parola “società”. Ma è altrettanto indubitabile che l’essenza della Chiesa non si limita ai soli aspetti visibili, perché anzi, ancor più importanti sono gli aspetti invisibili: il fatto ad esempio che la Chiesa è Sposa di Cristo, o che è il suo Corpo Mistico. Insomma, la Chiesa Cattolica è di certo anche un corpo sociale, osservabile per via storiografica, fenomenologica, sociologica… ma essa è prima di tutto un mistero della fede soprannaturale. Non a caso il primo capitolo della “Costituzione Dogmatica sulla Chiesa” del Concilio Vaticano II, Lumen Gentium, è intitolato proprio così: «Il mistero della Chiesa». La Chiesa è mistero perché proviene dal mistero della Santissima Trinità: popolo radunato dall’unità del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, come diceva l’africano san Cipriano di Cartagine. Ed è mistero perché il suo Fondatore non è Pietro – un uomo – bensì Gesù Cristo, l’Uomo-Dio. Gesù ha fondato la Chiesa sugli Apostoli, in particolare sulla roccia, su Pietro. Ma il Fondatore è Lui, Cristo. La Chiesa, dunque, non appartiene a Pietro. Pietro è solo la roccia sulla quale Gesù edificherà la Sua Chiesa (Cf. Mt 16, 16-18). La Chiesa è di Cristo. per questo crediamo la Chiesa, prolungamento del mistero di Cristo, vero Dio – vero uomo.


Questa osservazione sul carattere misterico della Chiesa è importante, perché non manca oggi una tendenza che vede nella Chiesa una sorta di aggregazione umana – se vogliamo usare la nota descrizione di Papa Francesco: una ONG (Organizzazione Non Governativa). Coloro che intendono la Chiesa in questa prospettiva orizzontalistica, non possono capire le dinamiche nascoste della grazia che fluisce invisibilmente ma realmente (molto realmente e concretamente!) dal Capo, che è Cristo, alle membra del suo Mistico Corpo. Costoro invece vedono nella Chiesa un’associazione benefica, impegnatissima nel risolvere i problemi sociali della fame, della giustizia e della pace, o una potenza diplomatica, un agente politico e, magari, anche un attore di un certo peso in ambito di finanza internazionale. La componente istituzionale della Chiesa, che ha di certo il suo valore, non esaurisce l’intera essenza della Chiesa. Sebbene i vescovi e il Papa abbiano anche un certo peso politico e diplomatico, sarebbe estremamente riduttivo, anzi sbagliato, considerarli principalmente da questo punto di vista, quasi che essi fossero dei leader mondani, che parlano e agiscono in accordo ad una logica, quando non addirittura ad un’ideologia e ad una agenda umane.

Vorrei condividere qui l’avvertimento, anzi l’ammonizione che, nel mese di ottobre scorso, faceva in modo privato l’imam Yahya Pallavicini, presidente del COREIS[1], professore a l’Università Cattolica ed uno dei più rappresentativi dell’Islam: “La Chiesa nel suo attuale slancio verso i valori della giustizia, dei diritti sociali e della lotta politica o ideologica per sradicare la povertà se dimentica la sua anima contemplativa fallisce la sua missione e verrà abbandonata dai suoi fedeli perché non verrà riconosciuta in essa il suo specifico”.


Il Concilio Vaticano II ci ha ricordato che i vescovi sono successori degli Apostoli, araldi del Vangelo e ministri di Cristo ed amministratori dei misteri di Dio (1Cor 4, 1). Compito della Chiesa e, in particolare, delle sue guide spirituali, non è dunque quello di “formulare un progetto” o di “dettare una linea”, né di “ispirare determinate azioni sociali e politiche”. Questa visione pecca per difetto. La Chiesa al contrario deve, come ricordavo all’inizio, custodire e trasmettere integro il deposito della fede, come dice san Paolo a Timoteo: “Prendi come modello le sane parole che hai udito da me, con la fede e la carità che sono in Cristo Gesù. Custodisci il buon deposito con l’aiuto dello Spirito Santo che abita in noi” (2Tm 1, 13-14). La Chiesa deve celebrare i Sacramenti per la gloria di Dio e la santificazione delle anime, e guidare gli uomini alla vita eterna, ammaestrandoli ed aiutandoli ad osservare i comandamenti del Signore. Sono questi i compiti che Cristo risorto diede infatti agli Apostoli: «Mi è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra. Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che io vi ho comandato» (Mt 28,19-20). È per svolgere questi compiti, e non altri inventati da noi e ritenuti più graditi alla mentalità secolare, che Cristo conclude assicurando alla Chiesa il suo costante aiuto: «Ecco io sono con voi tutti i giorni, sino alla fine del mondo». Cristo è con la Chiesa, “opera insieme a noi” (cf. Mc 16,20), quando noi rimaniamo fedeli all’indole della Chiesa ed alla sua missione.

Tutto ciò sottolinea il primato della grazia divina. Se la Chiesa è ciò che è, essa lo deve innanzitutto al dono gratuito e soprannaturale di Dio. Certo, questo dono diventa subito e sempre anche un compito a noi affidato. Ma ciò avviene sempre dopo. La grazia è innanzitutto preveniente: la Chiesa nasce per un’iniziativa gratuita di Dio, non per nostro merito. La grazia poi, accompagna: se noi rispondiamo positivamente alla vocazione ecclesiale, lo facciamo liberamente – certo – ma sempre e solo sotto l’influsso della grazia. Infine, la grazia porta a compimento, porta al fine ultimo, cioè alla salvezza eterna, questo nostro sforzo di cooperare con Dio in quanto suo Popolo eletto. È proprio questo mistero della grazia che spiega anche le caratteristiche di cui Cristo ha voluto adornare la sua mistica Sposa. Di solito, in molte culture che posseggono simile tradizione, il corredo e la dote della sposa vengono approntati dai suoi genitori, in altre culture il corredo e la dote sono provveduti dal futuro sposo. Nel nostro caso, invece, siccome Cristo è sia Sposo, sia Fondatore, cioè Creatore della Chiesa, Egli stesso ha provveduto la dote ed il corredo mistico della sua Amata. Nel fondare la Chiesa, Cristo Signore l’ha dotata di una gran quantità di doni e di caratteristiche, che sono necessari allo svolgimento della missione apostolica, in vista della salvezza delle anime la quale, come ricorda nella sua conclusione il Codice di Diritto Canonico, rimane la legge suprema nella Chiesa.


Orbene, nel ricco corredo, nell’ampia dote che Cristo ha preparato per la Chiesa, troviamo anche quattro caratteristiche di grande rilievo, al punto da essere messe in evidenza nel già menzionato Simbolo della fede Niceno-costantinopolitano. I teologi le chiamano “note” o “proprietà” della Chiesa e questo perché manifestano la Chiesa Cattolica, distinguendola da altre realtà – e in questo senso si chiamano “note”, perché la rendono nota, conosciuta. Inoltre si chiamano proprietà, perché sono elementi essenziali della natura della Chiesa, ragion per cui dove c’è la vera Chiesa, ci sono sempre anche queste proprietà. Il Simbolo della fede ne enumera quattro: Una, Santa, Cattolica ed Apostolica. È da ricordare, tuttavia, che vi sono numerose altre note individuate dai teologi. Ad esempio, i grandi teologi controriformisti Johannes Eck, Stanislao Osio e san Roberto Bellarmino, Dottore della Chiesa, enumeravano nei loro trattati una quindicina di note ecclesiologiche, al punto tale che si sviluppò nella teologia dell’epoca persino una via notarum, cioè un modo per contrastare la visione protestante sulla Chiesa proprio attraverso lo studio e l’illustrazione delle note proprie alla vera Chiesa di Cristo.

Ma lasciamo da parte queste pur interessanti informazioni e torniamo a dedicarci ad una riflessione teologica di carattere più meditativo e sapienziale, come abbiamo fatto sin qui. Vorrei innanzitutto osservare che le quattro note principali della Chiesa sono tra loro chiaramente distinte, eppure vanno sempre insieme, perché sono in relazione di unità organica, come le membra in un organismo. Possiamo, certo, distinguere il braccio dalla gamba, ma l’organismo sano e integro li possiede sempre entrambi. Così è delle proprietà della Chiesa. Ad esempio, la nota della santità e dell’unità – di cui qui ci interessiamo in particolare – sono distinte, ma non sono separabili. A livello esemplificativo, possiamo notare che non ci può essere un cristiano che viva volontariamente in peccato mortale, ossia che non sia santo, e pretenda tuttavia di essere pienamente inserito nell’unità soprannaturale della Santa Chiesa. Chi pecca gravemente, si separa da Dio e da Cristo e, per questo, sebbene non a livello formale e canonico (non è scomunicato), si separa dalla Chiesa a livello soprannaturale. Perciò il Concilio Vaticano II ha ricordato che con il Sacramento della Penitenza il peccatore perdonato ritorna in comunione, cioè in unità soprannaturale, sia con Dio sia con la Comunità ecclesiale, dai quali si era allontanato per la sua ribellione[2]. L’unità delle note ecclesiologiche, come si intuisce, andrebbe tenuta presente, pertanto, anche quando si affrontano temi legati all’ammissione dei fedeli alla ricezione dei Sacramenti.


Una seconda osservazione generale sulle note della Chiesa consiste nel riprendere quanto prima ho solo accennato: ogni proprietà ecclesiologica è sempre sia dono divino, sia compito a noi affidato. Che la Chiesa sia una è merito e dono di Cristo, non nostro. Questa unità costitutiva rappresenta però anche un appello alla nostra responsabilità, nell’impedire le divisioni tra noi. Soprattutto le divisioni dottrinali, morali, liturgiche, disciplinari, divisioni nella Fede e nella Carità. Analogamente, la santità della Chiesa è dono di Cristo, ma si capisce che anche noi siamo chiamati ad impegnarci nella nostra santificazione. “Perché questa è la volontà di Dio, la vostra santificazione” (1Ts 4, 3). E così via. Il Catechismo si esprime al riguardo con queste parole:«È Cristo che, per mezzo dello Spirito Santo, concede alla sua Chiesa di essere Una, Santa, Cattolica e Apostolica, ed è ancora Lui che la chiama a realizzare ciascuna di queste caratteristiche»[3].

Passiamo ora a meditare sulle due prime note menzionate dal Simbolo della fede: la Chiesa è una e santa. La radice e la ragione dell’unità della Chiesa è innanzitutto la Santissima Trinità. “Che stupendo mistero! Vi è un solo Padre dell’universo, un solo Logos dell’universo e anche un solo Spirito Santo, ovunque identico; vi è anche una sola vergine divenuta madre, e io amo chiamarla Chiesa” scrive San Clemente d’Alessandria (Paedagogus, 1, 6)[4]. Il Decreto sull’Ecumenismo del Concilio Vaticano II, Unitatis Redintegratio, al n. 2 insegna: «Il supremo modello e principio di questo mistero [della Chiesa] è l’unita nella Trinità delle Persone di un solo Dio Padre e Figlio nello Spirito Santo». Lo stesso testo, poi, attribuisce allo Spirito Santo un ruolo particolare nella preservazione di questa unità soprannaturale, dicendo: «Lo Spirito Santo, che abita nei credenti e riempie e regge tutta la Chiesa, produce quella meravigliosa comunione dei fedeli e tanto intimamente tutti unisce in Cristo da essere il principio dell’unità della Chiesa». Il Battesimo, innestandoci in Cristo, ci dona l’unità del suo Corpo Mistico: «Noi tutti siamo stati battezzati mediante un solo Spirito in un solo Corpo, giudei o greci, schiavi o liberi; e tutti siamo stati dissetati da un solo Spirito» (1Cor 12,13); «Un solo Corpo e un solo Spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo Battesimo» (Ef 4,4-5).

Oltre agli agenti principali dell’unità, che sono le Tre Persone divine, alla Chiesa sono stati donati anche agenti umani, in particolare gli Apostoli, che sono segno e strumento dell’unità nella Chiesa. Qui si nota che l’unità, da dono, diventa compito, dovere e responsabilità. È nell’unione con gli Apostoli e con i loro successori che si manifesta e si preserva il dono della Chiesa una. Ancora il mio conterraneo san Cipriano di Cartagine, verso l’anno 250 ha scritto queste celebri parole:
Habere iam non potest Deum Patrem, qui Ecclesiam non habet matrem. Si potuit evadere quisque extra arcam Noe fuit, et qui extra Ecclesiam foris fuerit evadet – Non può avere Dio per Padre chi non ha la Chiesa per madre. Se si fosse potuto salvare qualcuno fuori dell’arca di Noè, si potrebbe salvare qualcuno anche fuori della Chiesa[5].
Vi è un’unità costitutiva della Chiesa Cattolica e questa unità è anche salvifica: chi permane in essa, sarà salvato. In base a questa convinzione, nella sua Epistula 51, 2 – inviata a papa Cornelio (251-253) – lo stesso San Cipriano scrive: «C’e una sola Chiesa Cattolica, che non potrà essere né spaccata, né divisa». Sorprende questa salda convinzione, in un’epoca in cui c’erano molte divisioni e scismi tra i cristiani. Ma Cipriano attesta con le sue parole la certezza della nostra fede cattolica nell’unità della Chiesa: nonostante le tante e dolorose divisioni tra i cristiani, non c’è e non può mai esistere la divisione della Chiesa[6]. I cristiani, sì: si dividono. È accaduto tante volte, purtroppo, nella storia. Ma la Chiesa è una. Ciò che non può essere diviso in se stesso (la Chiesa), può risultare lamentabilmente diviso in noi.


Come si intuisce, l’unità della Chiesa è dunque un fatto permanente ed inscalfibile; verrebbe da dire che è un dato “trascendente”, “metafisico”, nel senso che non è il frutto dello sviluppo storico. Dalla sua nascita al momento del cuore trafitto di Cristo morto sulla croce per la nostra salvezza, l’unità della Chiesa è davvero un dono di Dio tramite lo Spirito Santo[7]. Se l’unità ecclesiale fosse punto di arrivo e non punto di partenza della Chiesa, si dovrebbe pensare che tale unità sarebbe il frutto dell’unione, o della federazione di diverse Chiese e gruppi cristiani. Questa concezione federativa è però estranea alla dottrina ecclesiologica cattolica, che infatti l’ha respinta in diverse occasioni. La Chiesa è una ed unica sin dal suo sorgere e tale rimane per grazia di Cristo, nonostante tutto.

Essendo chiaramente un dato oggettivo e non una realizzazione storica progressiva, l’unità della Chiesa possiede anche elementi oggettivi e non soltanto soggettivi per essere riconosciuta e vissuta. Gli elementi oggettivi dell’unità sono indicati sinteticamente in un brano degli Atti degli Apostoli:
[I cristiani] erano perseveranti nell’insegnamento degli Apostoli e nella comunione, nello spezzare il pane e nelle preghiere. Un senso di timore era in tutti, e prodigi e segni avvenivano per opera degli Apostoli. Tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune; vendevano le loro proprietà e sostanze e le dividevano con tutti, secondo il bisogno di ciascuno. Ogni giorno erano perseveranti insieme nel Tempio e, spezzando il pane nelle case, prendevano cibo con letizia e semplicità di cuore, lodando Dio e godendo il favore di tutto il popolo. Intanto il Signore ogni giorno aggiungeva alla comunità quelli che erano salvati. (At 2,42-47)
Come si nota, i sentimenti, quali la «letizia», la gioia o il «senso di timore», non bastano a caratterizzare la comunione della Chiesa. San Luca sottolinea gli elementi oggettivi della comunione: l’insegnamento apostolico (unità di fede), la preghiera e particolarmente la Liturgia Eucaristica (unità di Culto), la vita comune con i concreti atti che ne conseguono (unità di carità). Non vive dunque nell’unità comunionale della Chiesa chi desidera farne parte, ma chi è inserito in questi elementi oggettivi dell’unità. Non è estraneo ai nostri giorni, nell’animo anche di molti cattolici, un certo sentimentalismo ecclesiologico, per cui l’unità viene capita come un “volersi bene”, un “camminare insieme”, un coltivare “bei sentimenti di accoglienza” verso gli altri. Certo, volersi bene è importante, ma ancora non basta. Ognuno di noi può fare l’esperienza di provare buoni sentimenti di amicizia e di volere bene ad un amico che pratica un’altra religione, o che fosse persino agnostico o ateo. Tali sentimenti, pur lodevoli, di certo non costituirebbero motivo sufficiente per ritenere che entrambi apparteniamo all’unità della Chiesa. Ci vogliono elementi oggettivi, quali il Battesimo, la professione della stessa dottrina di fede, l’ubbidienza ai legittimi pastori, ecc. Solo in base ad elementi certi, oggettivi ed anche esternamente verificabili, possiamo dire di far sviluppare anche in noi questo dono dell’unità. Allora, e solo a queste condizioni, siamo uno nella Chiesa una. Un altro esempio riguarda il caso, già prima accennato, di chi commette peccato mortale. Non basterebbe a costui un vago sentimento di volersi convertire in teoria, ma non in pratica. Ci vuole una vera conversione ed un reale, effettivo ed oggettivo ritorno all’unità mistica ecclesiale, che si concretizza in un segno esternamente verificabile, come è il Sacramento della Confessione. Con questo secondo esempio, tocchiamo il tema della santità, intimamente connesso a quello dell’unità, come si è detto.

Il Concilio Vaticano II insegna che «La Chiesa […] è per fede creduta indefettibilmente santa. Infatti Cristo, Figlio di Dio, il quale col Padre e lo Spirito Santo è proclamato “il solo Santo”, amò la sua Chiesa come sua Sposa e diede Se stesso per essa, al fine di santificarla (cf. Ef 5,25-26) e la congiunse a Sé come suo Corpo e l’ha riempita del dono dello Spirito Santo, per la gloria di Dio. Perciò tutti nella Chiesa, sia che appartengano alla gerarchia, sia che siano retti da essa, sono chiamati alla santità, secondo il detto dell’Apostolo: « certo la volontà di Dio è questa, che vi santifichiate»[8] (1Ts 4,3; cfr. Ef 1,4). L’avverbio “indefettibilmente” attrae la nostra attenzione: significa che questa qualità della Chiesa, la santità, al pari dell’unità rimarrà integra sino alla fine dei tempi, ossia fin quando sussisterà la stessa Chiesa. Possiamo inventare delle eresie, trafficare la Parola di Dio per renderla più accettabile al mondo secolarizzato e decadente, possiamo infangare la Chiesa con le nostre corruzioni umane, ma la Chiesa di Cristo rimarrà indefettibilmente Santa.


Nella prerogativa della santità, si rispecchia la natura di Dio stesso e di Cristo Gesù. Nella Bibbia, “santo” in senso primario ed assoluto è Dio solo. Ricordiamo il canto dei Serafini, contemplati dal profeta Isaia. Essi eternamente stanno dinanzi al trono di Dio cantando l’inno trisagio. Isaia descrive in questi termini la visione:
Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il Tempio. Sopra di Lui stavano dei Serafini; ognuno aveva sei ali: con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l’uno all’altro, dicendo: «Santo, santo, santo il Signore degli eserciti! Tutta la terra è piena della sua gloria». Vibravano gli stipiti delle porte al risuonare di quella voce, mentre il Tempio si riempiva di fumo. (Is 6,1-4)
Dinanzi alla maestosità di simile visione, il profeta si sente venir meno. In particolare, lo colpisce il contrasto tra la sua piccolezza, il suo stato di misero uomo e cioè di peccatore, e la santità perfetta dell’Onnipotente. Perciò Isaia prorompe nel grido: «Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il Re, il Signore degli eserciti» (v. 5).

L’uomo non può accostarsi a cuor leggero e senza stupore e tremore al Dio tre volte Santo. È anzi necessario che noi stiamo davanti al Signore sempre prostrati, in ginocchio ed in spirito di adorazione, di sacro e santo timore, nonché di profondissimo rispetto. Per questo Mosè dovette togliersi i sandali prima di potersi avvicinare al Roveto ardente (cf. Es 3,5). Ricordiamo ancora che il Nuovo Testamento usa per la nostra parola «santo», il termine greco hagios che deriva dal verbo haxiomai, cioè «rabbrividire». Troviamo quindi una continuità di insegnamento tra Antico e Nuovo Testamento: dinanzi alla santità trascendente di Dio, l’uomo deve rabbrividire, deve cioè assumere un contegno rispettoso e adorante, deve lasciarsi bruciare dal roveto ardente, dal fuoco dell’Amore di Dio e stare in silenzio ed in contemplazione.

Nel Nuovo Testamento si aggiunge però anche una componente di maggior prossimità di Dio all’uomo. Lo vediamo ad esempio nell’istituzione dell’Eucaristia: segno che Dio vuole stare sempre vicino a noi, anzi diventiamo la dimora di Dio, il tempio della Santissima Trinità. Per questo un bel libro dell’allora cardinale Joseph Ratzinger, dedicato a meditazioni eucaristiche, si intitolava in tedesco Gott ist uns nah, Dio ci è vicino. Rimane però anche nel Nuovo Testamento la dimensione della santità di Dio, che va rispettata, amata ed adorata. Per questo, anche dinanzi alla celebrazione ecclesiale dell’Eucaristia, è importante che all’amore per il Signore che si offre al Padre per noi e che rimane con noi nell’Ostia consacrata, si impronti anche la nostra rispettosa condotta verso il dono eucaristico. La maggiore vicinanza della santità di Dio a noi, non può comportare una diminuzione del senso adorante e rispettoso. Al contrario, dovrebbe alimentarli. Scriveva al rispetto san Giovanni Paolo II:
Se la logica del «convito» ispira familiarità, la Chiesa non ha mai ceduto alla tentazione di banalizzare questa «dimestichezza» col suo Sposo dimenticando che Egli è anche il suo Signore e che il «convito» resta pur sempre un convito sacrificale, segnato dal sangue versato sul Golgota. Il convito eucaristico è davvero convito «sacro», in cui la semplicità dei segni nasconde l’abisso della santità di Dio […]. Sull’onda di questo elevato senso del mistero, si comprende come la fede della Chiesa nel Mistero eucaristico si sia espressa nella storia non solo attraverso l’istanza di un interiore atteggiamento di devozione, ma anche attraverso una serie di espressioni esterne, volte a evocare e sottolineare la grandezza dell’evento celebrato[9].
Anzi l’Eucaristia che celebriamo ci trasforma radicalmente. Diventiamo “Ipse Christus, il Cristo stesso”. L’Eucaristia ci fa diventare una sola cosa con Cristo. La dinamica di questo cambiamento radicale effettuato in noi, è stato illustrato magnificamente da Papa Benedetto XVI:
“L’Eucaristia ci attira nell’atto oblativo di Gesù. Noi non riceviamo soltanto in modo statico il Logos incarnato, ma veniamo coinvolti nella dinamica della sua donazione ». Egli «ci attira dentro di sé». La conversione sostanziale del pane e del vino nel suo corpo e nel suo sangue pone dentro la creazione il principio di un cambiamento radicale, come una sorta di «fissione nucleare», per usare un’immagine a noi oggi ben nota, portata nel più intimo dell’essere, un cambiamento destinato a suscitare un processo di trasformazione della realtà[10]” .
Soprattutto attraverso l’Eucaristia, Cristo, Uomo e Dio, partecipa la sua santità alla Chiesa, sua Sposa e suo Corpo Mistico. La santità oggettiva della Chiesa, come la sua unità, è dono di Cristo. Per questo il Nuovo Testamento chiama i fedeli cristiani, ossia i battezzati, semplicemente i «santi», ossia coloro che hanno ricevuto in dono la santità.

Qui conviene fare una breve riflessione. Ai nostri giorni si parla tanto di santità, anche se a volte si usano espressioni diverse, come ad esempio, «testimonianza», «martyria», o altre parole simili. Questo perché il Concilio Vaticano II ha ricordato che nella Chiesa tutti i battezzati sono chiamati alla santità e non solo alcune classi di fedeli, quali ad esempio i monaci o i ministri ordinati[11]. Chiaramente questo insegnamento è assolutamente veritiero. Bisogna però ricordare che la santità del cristiano – al pari della nota ecclesiologica corrispondente – è sia dono che compito. Cioè è una santità innanzitutto donata e poi anche vissuta con il nostro libero impegno personale. Prima di tutto c’è il dono oggettivo: la grazia della santità, dataci già all’inizio della nostra vita cristiana, mediante il Battesimo. Per questo motivo, è necessario ricordare che la santità è sì, certamente, anche una meta da raggiungere con il nostro sforzo. Ma prima di questo, la santità è il punto di partenza. Prima di essere culmen, momento finale e apicale della vita del cristiano; essa è fons, sorgente da cui scaturisce anche la possibilità per me di essere santo. Siamo santi perché il Signore è santo e ci dona gratuitamente, prima di ogni nostro merito, la santità. Solo in seguito a ciò, noi possiamo e dobbiamo mantenerci e crescere nella santità. D’altro canto, è risaputo che simile sforzo è possibile solo con l’aiuto della grazia divina, che precede, accompagna e porta a compimento la nostra libera cooperazione, come già si notava in precedenza.


Tutto ciò va detto perché ai nostri giorni, assieme alla corretta sottolineatura del fatto che tutti i battezzati ricevono la vocazione alla santità, è subentrata anche una visione meno corretta, che suggerisce che la santità è il risultato della nostra azione. È anche questo. Ma non è solo questo, né è principalmente. Prima di tutto è la santità di Dio in noi. Di conseguenza, essere santi, più che raggiungere una santità che è alla fine del percorso, significa custodire e difendere dagli attacchi del Maligno la santità che è già dentro di noi, nonché crescere e portare frutto in essa.

E così, possiamo capire ancora una volta che la morale cristiana non coincide con il volontarismo, con il senso del dovere, con il puro impegno solidale: cose spesso lodevoli – sia chiaro – ma che rimangono su un piano naturale. Per noi cristiani la morale parte da Dio, dal suo dono di santità in noi; ci vuole Santi come Lui, nostro Padre, è Santo: uno splendido e terribile dono al quale il Signore ci invita a corrispondere liberamente. Pertanto, i valori morali non sono luoghi utopici, irraggiungibili in concreto. Ciò potrebbe essere se la santità consistesse nell’asintotico procedere verso un fine perfetto, che non fosse però alla nostra portata. In simile prospettiva, i valori morali, e anche i comandamenti divini, rimarrebbero un ideale irraggiungibile o delle indicazioni di direzione, degli orientamenti, ma non mete possibili. Invece, i comandamenti ed i valori possono e devono essere vissuti in concreto, proprio perché viverli non significa tanto raggiungerli, quanto accoglierli, accettarli e custodirli, perché già ci sono stati dati. Il compito è espressione del dono. Ad esempio, si sente oggi dire che la fedeltà degli sposi e l’indissolubilità del matrimonio sono bellissimi ideali che però in concreto, almeno in certi casi, non è possibile attuare. In realtà, è necessario pensare in modo opposto, dato che la fedeltà e l’indissolubilità non sono frutto dell’impegno degli sposi: esse sono già date, molto concretamente e realmente, all’inizio della vita coniugale, mediante il Sacramento del Matrimonio. Non c’è nulla da raggiungere; è già donato. L’impegno necessario degli sposi consisterà piuttosto nel custodire con amore, con fedeltà ed in modo integro tali doni, giorno dopo giorno, senza permettere al Maligno e al mondo di portarseli via.

La nota della santità della Chiesa, poi, è alla base anche della ben nota dottrina della «Comunione dei santi». Nei primi secoli con la parola “santi” usata in questa espressione, si intendevano piuttosto gli uomini santi delle origini, in particolare gli Apostoli. Perciò inizialmente Comunione dei santi indica il legame con i primi uomini scelti da Cristo. In questo senso, la nota della santità si collega con quella della apostolicità. Nel Medioevo, poi, con “santi” si intendono le “cose sante”, in particolare i Sacramenti. Quindi si mantiene la comunione ecclesiale per la comune partecipazione agli stessi santi Segni. I Segni santi confermano la Chiesa nella sua santità, così come, nel primo significato dell’espressione, la comune dottrina della fede, che ci viene dagli Apostoli, santifica i credenti nella verità. Questi due modi di intendere l’espressione non vanno contrapposti, perché sono entrambi veri. Per rimanere e crescere nella santità, la Chiesa ha bisogno sia della sana dottrina apostolica, sia della grazia oggettivamente prodotta dai Sacramenti. Nella dottrina e nei Sacramenti ci viene sempre di nuovo ridonata quella santità oggettiva della Chiesa, che partecipata a noi diventa santità soggettiva dei credenti. E siccome questa santità che ci è data è in se stessa incorruttibile, perché nonostante i nostri peccati, la Chiesa rimane sempre Santa, dobbiamo sforzarci, con l’aiuto di Dio, di non rovinare in noi ciò che non può essere scalfito in se stesso. Cioè, dobbiamo custodire la nostra santità personale, per evitare che la santità oggettiva della Chiesa, la quale non è toccata dalle nostre mancanze, sia cionondimeno messa in dubbio da coloro che, vedendo la nostra pochezza, sono tentati di attribuirla alla Chiesa in quanto tale. Ecco perché sant’Ambrogio ci ammonisce dicendo che quando pecchiamo «Non in se stessa [..] è ferita la Chiesa, ma in noi». Ma proprio per questo, continua il grande Vescovo di Milano, «facciamo attenzione affinché la nostra caduta non divenga una ferita per la Chiesa»[12].


Cari fratelli, a conclusione di questa meditazione, non mi resta che augurare a me ed a voi tutti, a questa Chiesa diocesana di Trieste, al suo Vescovo, ai suoi sacerdoti e a tutti i suoi battezzati, che possiamo permanere sempre nell’unità e santità della Chiesa Cattolica, questa meravigliosa, soprannaturale Famiglia di Dio, alla quale il Signore, senza alcun nostro previo merito, ci ha chiamati come membra vive. Chiediamo al Signore, per intercessione di Maria Santissima e di san Giuseppe, Patrono della Chiesa Universale, di cui tra pochi giorni celebreremo la solennità liturgica, questa grazia: che il dono oggettivo dell’unità e della santità della Chiesa siano sempre ben custoditi in noi e portino frutti abbondanti che maturino per la vita eterna.




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[1] Comunità Religiosa Islamica
[2] Cf. Lumen Gentium, n. 11
[3] CCC n. 811
[4] CCC n. 813
[5] San Cipriano, De unitate Ecclesiae, 6

[6] Anche a Roma, il sacerdote teologo Novatus, si è opposto al Papa Cornelio per la sua troppa misericordia e il recupero e la riconciliazione dei cristiani che avevano ceduto alle persecuzioni. Si è fatto eleggere papa formando così gli scismatici novaziani. Papa Cornelio, confortato dalla solidarietà di San Cipriano, è morto a Civitavecchia dove è stato esiliato dall’imperatore Gallo nel 253, e fu sepolto nel cimitero di San Callisto.[7] Cf. CCC n. 766
[8] Lumen Gentium, n. 39
[9] Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, n. 48-49
[10] Benedetto XVI, Esortazione Apostolica post sinodale Sacramentum Caritatis n. 11, 22 febbraio 2007.

[11] Cf. Lumen Gentium nn. 39-41
[12] Sant’Ambrogio, De virginitate, 48


Pubblicato da Chiesa e postconcilio