giovedì 31 marzo 2016

Conferenza Episcopale delle Filippine: sulla necessità di inginocchiarsi durante tutta la consacrazione


Traduzione (del blog chiesaepostconcilio ) della lettera di mons. Socrates Villegas, arcivescovo di Lingayen-Dagupan e presidente della Conferenza Episcopale dei Vescovi delle Filippine (CBCP: Catholic Bishops' Conference of the Philippines):
 

Sulla QUESTIONE dell'inginocchiarsi o restare in piedi
dopo la Consacrazione e fino al "grande Amen" finale
durante la Celebrazione Eucaristica

Mons. Villegas
19 marzo 2016

Vostre Eminenze ed Eccellenze,

durante la 112esima Assemblea plenaria a Cebu, c'è stata una discussione riguardante lo stare in piedi o inginocchiati da dopo la consacrazione fino a dopo l'Amen. La discussione comprendeva una domanda sul motivo per cui non continuiamo a restare in ginocchio dopo la consacrazione fino a dopo l'Amen. Dopo una breve discussione, è stato chiesto al Concilio Permanente della CBCP di considerare la questione.

Perciò, nell'incontro del Concilio Permanente della CBCP del 15 marzo 2016, una delle questioni discusse è stata questa questione della postura in piedi dopo la consacrazione e del rimanere in piedi o inginocchiati da dopo il Sanctus fino all'Amen della Preghiera Eucaristica. Questa è la ragione di questa lettera.

Prima degli anni '90, ricordiamo, avevamo la pratica dell'inginocchiarsi da dopo il Sanctus fino a dopo l'Amen della Preghiera Eucaristica.

Negli anni '90 cominciò la pratica di alzarsi in piedi dopo l'inizio della consacrazione. Questo cambiamento della pratica già in uso era basato sulle Linee Guida per l'Eucarestia che vennero approvate dalla CBCP nel gennaio 1990. Il numero 3 di tali Linee Guida diceva: “I fedeli dovrebbero inginocchiarsi dal Sanctus fino alla fine della Preghiera Eucaristica… Se l'acclamazione dopo la consacrazione è cantata, allora i fedeli possono alzarsi restare in piedi.” In realtà la pratica è divenuta stare sempre in piedi da dopo la consacrazione fino a dopo l'Amen finale.

Nel gennaio 2003, all'86esima Assemblea Plenaria della CBCP, una delle proposte che la CBCP aveva approvato per l'inclusione tra gli Adattamenti per le Filippine all'Ordinamento Generale del Messale Romano (OGMR) del 2002 era stata: “Adattamento proposto per le Filippine: ‘Nelle Filippine, i fedeli si inginocchiano da dopo il Sanctus, si alzano per l'acclamazione del memoriale, e si inginocchiano dopo l'Agnello di Dio.’

Per entrambi i casi, nelle Linee Guida per l'Eucarestia del 1990 e nelle proposte di Adattamenti per le Filippine dell'IGMR del 2002, non era mai giunto da Roma alcun riconoscimento.

In particolare, per gli Adattamenti per le Filippine all'OGMR del 2002 che erano stati sottoposti a Roma, non è stata mai ricevuta alcuna risposta. L'Arcivescovo Romulo Valles, durante una visita ad limina nel settembre 2003, chiese un riscontro all'ufficio della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti (CDDS) sullo stato degli adattamenti proposti dalle Filippine. Ma da allora ad oggi non abbiamo mai ricevuto una risposta formale scritta.

A febbraio 2016 il vescovo Julius Tonel, presidente della Commissione Episcopale sulla Liturgia, chiese al Segretario della CDDS a proposito di tali specifica proposta di adattamento. Nel rispondere alla sua richiesta, fu confermato che non c'era mai stata formalmente alcuna risposta o riconoscimento.

Sulla base di quanto citato sopra, abbiamo chiesto consiglio ad alcuni dei nostri vescovi più esperti del Codice di Diritto Canonico. Ci hanno detto che la mancata risposta o il silenzio da parte di Roma indicano che non è stato dato alcun riconoscimento. Senza tale riconoscimento la CBCP non ha l'autorità di creare o implementare tali adattamenti. Essendo questo il nostro caso, dobbiamo riportare alla pratica preesistente alla richiesta.
Sulla base delle informazioni sopra documentate, il Concilio Permanente è giunto alla decisione che dobbiamo ABBANDONARE la pratica di stare in piedi da dopo la consacrazione fino all'Amen, a causa del fatto che non abbiamo l'autorità di creare tale adattamento, né abbiamo l'autorità di implementarlo. Dobbiamo ripristinare la pratica precedentemente stabilita di inginocchiarsi da dopo il Sanctus fino a dopo l'Amen della Preghiera Eucaristica.

Fare un passo indietro verso la pratica preesistente è un tenersi al passo con il nostro attuale OGMR, approvato dalla CBCP e dotato del necessario riconoscimento da Roma, pubblicato nell'edizione filippina del 2011 del Messale Romano. Nel numero 43 è stabilito che: “Dove vi è la consuetudine che il popolo rimanga in ginocchio dall’acclamazione del Santo fino alla conclusione della Preghiera eucaristica e prima della Comunione, quando il sacerdote dice Ecco l’Agnello di Dio, tale uso può essere lodevolmente conservato.”
In altre parole, il tornare alla pratica preesistente, dove i fedeli si inginocchiavano da dopo il Sanctus e rimanevano in ginocchio fino a dopo l'Amen della Preghiera Eucaristica, è in armonia con l'OGMR.

Vi si chiede perciò di informare il nostro clero e i fedeli cattolici a proposito del ripristinare questa posizione e di portarli, attraverso catechesi liturgiche, ad approfondire la nostra devozione al Santissimo Sacramento. Lo spirito di tale norma è infatti di dare maggior riverenza alla Presenza Reale.

Vi ricordiamo qui alcune righe della nostra Esortazione Pastorale per l'Anno 2016 dell'Eucarestia e della Famiglia:
Inginocchiarsi è parte della nostra cultura cristiana. Non possiamo abbandonare la cultura dell'inginocchiarsi a favore dell'idea che gli uomini liberi devono stare in piedi di fronte a Dio. Piegare il ginocchio (genuflettersi) al Tabernacolo, inginocchiarsi alla celebrazione dell'Eucarestia, prostrarsi in adorazione del Santissimo Sacramento esposto - sono piccoli ma sublimi atti di adorazione che dobbiamo preservare e proteggere.
Sinceramente vostro,
+SOCRATES B. VILLEGAS













 

mercoledì 30 marzo 2016

Anima immortale o resurrezione dei morti? Et-et, cioè tutte e due





“Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10, 28).



di Carla D’Agostino Ungaretti
L’esortazione rivoltaci da Gesù, nel Discorso Apostolico secondo Matteo, è piena di significati e di conseguenze sui quali l’umanità dovrebbe seriamente tornare a riflettere, soprattutto in questa travagliata epoca che ha determinato il trionfo del materialismo e l’affievolimento (per non dire la totale scomparsa) del senso del peccato[1]. Due sono i punti salienti di quell’esortazione: da un lato, l’immortalità dell’anima e da un altro, l’esistenza del demonio e dell’inferno. In questa mia riflessione, non certo da teologa o da esegeta ma da cattolica “bambina”, mi soffermerò sul primo dei due problemi, rimandando il secondo a un’occasione futura, sempre Deo favente.

Con il termine “anima” si intende comunemente l’elemento spirituale dell’uomo che, a differenza di quello corporeo, non conoscerebbe l’esperienza della morte. È un tema particolarmente coinvolgente, oltre che affascinante, perché è strettamente connesso con quello che ciascuno di noi immagina sia il nostro destino escatologico. Che cosa ci aspetta dopo la morte fisica? L’annientamento eterno, indistinto e inconsapevole, un sonno profondo dal quale non ci sarà risveglio, come sostengono i materialisti e i laicisti più sfegatati (e in questo caso non dobbiamo aspettarci nulla, perché saremo completamente incoscienti), ovvero la sopravvivenza di quella componente totalmente immateriale del nostro essere che i credenti chiamano “anima” e i non credenti “mente”, anche se i due termini non sono esattamente sinonimi? E se c’è una sopravvivenza, ci aspetta il premio per la nostra vita virtuosa e la nostra fedeltà a Dio o il castigo eterno per i nostri peccati? Il problema è enorme e non può essere liquidato tanto facilmente non pensandoci mai come fanno molti, perché allora ci accomuneremmo agli animali[2].

Lo studio dell’anima è affascinante, come dicevo poc’anzi, non solo per l’ “homo religiosus”, ma anche per l’antropologo, perché gli consente di studiare le modalità con le quali l’essere umano di tutti i tempi e di tutte le latitudini ha immaginato il suo destino dopo la morte, segno che l’aspirazione a una qualche forma di immortalità è sempre stata presente nel cuore e nella mente degli uomini. Infatti tutte le civiltà e tutte le religioni ritengono che “qualche cosa” dell’essere umano sopravviva dopo la morte fisica.

Le neuroscienze moderne però creano alcuni problemi al riguardo e pretendono, senza peraltro riuscirci, di trovare soluzioni totalmente materialistiche. Secondo Edoardo Boncinelli, un primo e più naturale significato del termine “anima” sarebbe “una sorta di energia vitale e di principio organizzatore che permea gli esseri viventi, ne sostiene l’attività e ne coordina le funzioni”[3] .

Inoltre egli riporta, condividendola, l’opinione di F. Crick, secondo il quale la parte più immateriale e, innegabilmente, spirituale dell’uomo sarebbe da identificare con la capacità di tradurre un impulso elettrico nel suo significato. La mente – termine che molti preferiscono usare invece di “anima” – trasformerebbe qualcosa di implicito (neurostato) in qualcosa di esplicito(psicostato). Il passaggio da uno stato all’altro è detto “binding”, ma Boncinelli riconosce onestamente che gli scienziati non sanno che cosa sia esattamente, né come avvenga quel passaggio. Se esso si identifica con una presa di coscienza collettiva e può essere interpretato come capacità di dare un significato, allora si può pensare che esso abbia a che fare con la capacità linguistica dell’uomo. Boncinelli distingue l’autocoscienza, cioè la capacità dell’uomo di raccontare in parole quello che sta vivendo, dalla coscienza fenomenica, di carattere cognitivo – affettivo che si fa fatica a comunicare adeguatamente. Poiché il potersi esprimere implica capacità di progettazione e azione, tale capacità secondo lui sarebbe la caratteristica dell’autocoscienza[4].

“Sarà … !” commenta, certamente non persuasa, la vostra amica cattolica “bambina”. Ma piuttosto si domanda: “Chi ha “progettato e instillato” nel cervello umano quell’ “energia vitale, o principio organizzatore” che gli scienziati non sono neppure riusciti a capire come funzioni e, tanto meno, riuscirebbero a fabbricare in laboratorio, se non Qualcuno la cui intelligenza trascende enormemente le capacità umane?” A questa domanda gli scienziati non rispondono.

Ma come è stato trattato nei secoli il problema dell’anima e dello spirito – termini che io, invece, preferisco usare – di quelle parti, cioè, impalpabili della persona umana che non si vedono ma che è impossibile negare, perché sono sempre stati capaci di produrre effetti straordinari e, loro sì, ben visibili?[5] Al tempo, ormai purtroppo lontano, del mio liceo classico – frequentato come usava una volta, ossia sul serio, e non secondo la deleteria moda post sessantottina – la filosofia greca mi aveva particolarmente appassionato. Infatti, avendo io ricevuto una rigorosa educazione cattolica basata sul Catechismo di S. Pio X – fatto come tutti sanno di domande e risposte, facilissime da memorizzare, che mi aveva insegnato come, dopo la morte, l’anima non muore col corpo, ma va in Paradiso o all’inferno – inizialmente avevo trovato nei grandi filosofi greci, e soprattutto in Platone, una straordinaria assonanza con il messaggio cristiano, come se Dio avesse instillato in quella grande mente, una sorta di anteprima di quella Parola che sarebbe stata pronunciata secoli dopo.

E infatti un po’ è avvenuto davvero così, anche se soltanto un po’: infatti già Platone, nel Fedone, aveva intuito che l’anima è razionale, spirituale e immortale, tanto che la filosofia patristica aveva trovato nella sua dottrina una straordinaria armonia con la frase di Gesù che ho citato in epigrafe. Ma più tardi, progredendo negli studi e nel cammino di fede, ho capito che le cose non stanno esattamente in questi termini, o meglio l’anima è, sì, immortale, ma è tale perché così Dio, creandola, l’ha voluta e non già perché essa vive, eterna ed increata, nel Mondo delle Idee ed esce dalla sostanza di Dio per entrare in un corpo, come credeva Platone. Secondo lui, filosofo per molti versi affascinante a causa delle poetiche immagini mitologiche di cui si serve per illustrare il suo pensiero, essendo l’anima totalmente distinta dal corpo, l’uomo non può essere costituito da corpo e anima insieme, ma “è” l’anima, e solo quando morendo si sbarazza del corpo, egli può godere del suo destino immortale.

Invece, a differenza di Platone, secondo il pensiero ebraico dell’Antico Testamento Dio crea l’anima dal nulla, ed essa forma un tutt’uno con il corpo. Nell’Antico Testamento non esiste alcuna forma di dualismo tra anima e corpo, infatti sappiamo che per gli antichi Patriarchi l’idea di immortalità e di premio dopo la morte coincideva con la speranza di avere una lunga discendenza. Disse il Signore ad Abramo: “Io sono il tuo scudo; la tua ricompensa sarà molto grande … Guarda il cielo e conta le stelle, se riesci a contarle”. E soggiunse: “Tale sarà la tua discendenza”. Egli credette al Signore che glielo accreditò come giustizia” (Gen 15, 1 ss). Perciò in Abramo, nei Patriarchi e nei libri successivi alla Genesi non si rintraccia una chiara visione della sopravvivenza dell’anima dopo la morte. Anzi: “Non esiste superiorità dell’uomo rispetto alle bestie, perché tutto è vanità … tutto è venuto dalla polvere e tutto ritorna alla polvere” , afferma il Qoèlet (Eccle 3, 20)[6] , ma ciò non significa che esso riveli una sorta di antropologia materialistica, perché l’uomo è anche spirito (in ebraico “ruah”). Dio solo è la fonte della vita e l’uomo vive perché ha ricevuto da Lui il soffio vitale, grazie al quale è capace di entrare in relazione con Lui. Ma il termine più usato nella Scrittura è il “cuore”, sede dei sentimenti e dei pensieri, sede della vita, parte del cervello, fattore di unità dell’uomo .“Allevia le angosce del mio cuore / liberami dagli affanni” implora il Salmo 25, 17 .

Ricordo che al liceo il mio professore di filosofia faceva notare ai suoi allievi il diverso atteggiamento di Socrate e di Gesù di fronte alla morte. Socrate, secondo Platone, bevve la cicuta deliberatamente e serenamente perché per lui la morte significava liberazione dalla prigionia del corpo; invece Gesù, vero uomo oltre che vero Dio, ebbe paura della morte, come ce l’hanno tutti gli uomini di questo mondo. Giunto al Getsemani, “cominciò a sentire paura e angoscia … e diceva: “Abbà, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. (Mc 14, 34). “Egli offrì preghiere e suppliche con forti grida e lacrime a colui che poteva liberarlo da morte … ” (Eb 5, 7). Infatti la morte è un evento orribile perché è la conseguenza del peccato, cioè della disobbedienza volontaria a Dio, pericolo dal quale Dio stesso aveva chiaramente messo in guardia Adamo ed Eva (Gen 2, 17). Il peccato, perciò, ha provocato la morte, cioè la separazione eterna dal Padre che invece è il Dio della Vita. Gesù accetta la morte solo perché in essa riconosce la volontà del Padre per la redenzione dell’uomo[7]; perciò i cristiani tengono ben distinto il concetto dell’immortalità dell’anima, tipico della filosofia greca, da quello della resurrezione dei morti che, rispetto al primo, per opera di S. Paolo, rappresenta un notevole passo avanti.

Anche Paolo, nelle lettere, rivela una visione unitaria dell’uomo che sarebbe composto addirittura da tre elementi: spirito, anima, corpo (1Ts 5, 23). L’unica opposizione che egli esprime è tra quella tra “sarx” (carne), con significato negativo indicante la parte istintuale e passionale dell’uomo, e “soma” (corpo), indicante l’uomo tutto intero, luogo in cui interagiscono la parte materiale e quella spirituale. Nella visione paolina l’uomo è un corpo animato o un’anima in quanto corpo: “Vi esorto dunque, fratelli, per la misericordia di Dio, ad offrire i vostri corpi come sacrificio vivente , santo e gradito a Dio” (Rm 12, 1). Ma il corpo, che è composto di carne e anima insieme, vive in conflitto con lo spirito. Lo spirito spinge l’uomo verso Dio, ma il corpo sente la tentazione della carne: “Camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne; la carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste” (Gal 5, 16, 17). Ma come mai avviene tutto questo, dato che siamo stati creati a immagine e somiglianza di Dio? Perché la vita dell’uomo è stata contagiata per sempre dal peccato originale e può guarire e tornare all’originaria comunione con Lui non liberandosi del corpo (come diceva Platone), né con l’osservanza della legge (come nell’Antico Testamento) e tanto meno con le sue sole forze – come sostenevano la gnosi e l’eretico Pelagio, la cui dottrina fu dimostrata totalmente errata sia teologicamente che filosoficamente da S. Agostino – ma solo per i meriti dell’incarnazione, morte e resurrezione di Gesù Cristo.

Ciò nonostante, l’uomo rimane libero di peccare perché in lui rimane sempre la tendenza a soddisfare la carne; perciò la vera liberazione, secondo Paolo, non avverrà dal corpo (come diceva Platone) ma sarà la liberazione del corpo, tutto intero, da ciò che gli impedisce di diventare spirituale, e dalla morte, che è la più temibile conseguenza del peccato. Infatti l’aspetto qualificante del Nuovo Testamento non è l’immortalità dell’anima – sulla quale non si discute perché, come ha detto Gesù, non può essere uccisa – ma la resurrezione dei corpi.

La visione biblica e patristica dell’uomo presenta di lui una visione unitaria: l’anima conferisce una dimensione all’uomo tutto intero ed è l’uomo tutto intero ad essere redento e salvato nella vita nuova donatagli da Dio attraverso Cristo. Paolo stesso constatò di persona la differenza culturale con l’ellenismo quando si presentò davanti ai colti e smaliziati Ateniesi dell’Areopago per parlare loro della Resurrezione di Cristo: “Ti sentiremo su questo un’altra volta” gli risposero i più educati, mentre altri lo derisero, “ma alcuni aderirono a lui e divennero credenti fra questi anche Dionigi membro dell’Areopago e una donna di nome Damaris” (At 17, 34). Le donne, a cominciare da Maria di Nazareth e da sua cugina Elisabetta, sono sempre state più ricettive degli uomini alla Parola di Dio.
Il Simbolo Apostolico, professione di fede dell’inizio del III secolo, parla di “resurrezione della carne”, mentre il Simbolo Niceno – Costantinopolitano – che recitiamo ogni domenica durante la S. Messa ed è una rielaborazione del primo per opera del Concilio di Costantinopoli del 381- preferisce l’espressione, più completa, “resurrezione dei morti” a significare, cioè, l’uomo tutto intero, composto di anima e di corpo. Infatti nella resurrezione la creazione intera viene ricondotta, per intervento divino, a un nuovo progetto cosmico, nel senso etimologico greco di “ordine”, “armonia”. “La creazione stessa … nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio … tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto … anche noi, che possediamo le primizie dello spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo. (Rm 8, 22 ss)[8] .

Allora crolleranno le limitazioni dello spazio e del tempo nelle quali ora viviamo immersi, saremo come apparve Gesù ai discepoli lo stesso giorno della Resurrezione “mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano”, come fu visto da Tommaso otto giorni dopo, sempre “a porte chiuse”(Gv 20, 19- 26) e vedremo Dio faccia a faccia.

E che ne è dell’anima dopo la nostra morte e finché il resto dell’umanità è ancora immersa nelle dimensioni dello spazio e del tempo? Se l’anima è immortale, come ha detto Gesù, non possiamo credere che muoia anch’essa, così come muore fisicamente il corpo, in attesa di risorgere con esso alla fine dei tempi. La Chiesa ha sempre impegnato la sua autorità di “Mater et Magistra” nell’insegnarci che le anime dei grandi Santi, che in duemila anni di storia hanno vissuto e operato nel solco tracciato dalla Parola di Dio osservandola in grado eroico, ora sono presso di Lui, vedono Lui faccia a faccia e vedono e assistono noi con le loro preghiere. Ma non solo loro, anche se solo a loro è riservato il culto pubblico: il grande mistero della Comunione dei Santi – cioè di tutti coloro, anche i più ignoti, le cui anime si sono salvate – ci insegna che possiamo e dobbiamo pregare per loro, nella certezza che anche loro continuano ad amarci e a proteggerci, come le persone che abbiamo amato e che ci hanno preceduto nell’incontro con Dio.

Ho condotto questa mia umile e necessariamente incompleta riflessione da cattolica “bambina” sull’anima e sulla Resurrezione promessaci da Cristo, Bibbia alla mano e davanti agli occhi, non certo elaborati trattati filosofici e teologici, ma il testo di filosofia del mio antico liceo classico, come si conviene appunto a una cattolica “bambina”. Perciò non pretendo di aver detto nulla di eccezionale ma, mentre ringrazio il Signore per avermi fatto il dono della fede, spero che Egli si serva delle mie povere parole per instillare nel cuore e nella mente di chi prova la terribile tentazione del dubbio, qualche piccolo seme di speranza, perché “nella speranza siamo stati salvati … e se speriamo quello che non vediamo, lo attendiamo con perseveranza” (Rm 8, 24 – 25).


[1] Con grande soddisfazione di Eugenio Scalfari che, come grande risultato delle sue frequentazioni personali con Papa Francesco, ha messo più volte in risalto questo affievolimento.


[2] Aldo Grasso riferisce che nell’Enciclopedia Einaudi 1977 – 1982, monumento allo scientismo novecentesco politicamente corretto, compare la voce “corpo” ma non la voce “anima”, perché (secondo l’editore) compito dell’Enciclopedia è “rischiarare la mente degli uomini per liberarli dalle tenebre dell’ignoranza e della superstizione attraverso conoscenza e scienza” Cfr. IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4. Il Prof. Grasso aggiunge di aver letto la voce “corpo” e di averci capito poco, segno (aggiungo io) che neppure il compilatore di quella voce ha le idee chiare in proposito.


[3] Cfr. E. Boncinelli, I segreti della mente? Molecole, cellule e circuiti nervosi”, IL CORRIERE DELLA SERA, La Lettura, 7.2.2016, pag. 4.


[4] Cfr. E. Boncinelli, Quel che resta dell’anima, Milano, Rizzoli, 2015, pag. 29 e seguenti.


[5] Basti pensare a quello che sono stati capaci di fare in ogni tempo i grandi Santi della Chiesa, lasciando che lo Spirito Santo guidasse le loro anime sulla strada tracciata da Dio.


[6] Mentre rifletto su questo versetto del Qoèlet, mi viene in mente che esso dovrebbe piacere agli animalisti che, come è noto, negano la superiorità dell’uomo rispetto agli animali. Chissà che, leggendolo, non arrivino pian piano ad apprezzare la Sacra Scrittura approdando prima o poi al Cristianesimo? Le vie del Signore sono infinite e forse questo potrebbe essere un “preambulum fidei”, come dice S. Tommaso d’Aquino. Ma forse lavoro di fantasia e mi do troppe arie da filosofa consumata …


[7] Anche l’Apocalisse presenta la morte come l’ultima nemica che sarà sconfitta (20, 14).


[8] Questa notissima frase della Lettera ai Romani mi offre lo spunto per un’ulteriore riflessione, forse poco ortodossa, ma allora mi aspetto di essere corretta da chi ne sa più di me. E’ noto che le piante e gli animali non hanno un’anima immortale quindi sarebbero fatti di pura materia, ma se è vero che anche la materia spera di essere redenta alla fine dei tempi, non possiamo sperare che anche per loro, sue creature, Dio abbia progettato una sorta di resurrezione finale, senza ritenere necessario rivelarlo all’uomo? Sono stata molto criticata per questa mia ipotesi, ma io penso che se Dio ha creato il mondo per amore, non può abbandonare nel nulla eterno quelle altre sue creature, ontologicamente inferiori all’uomo e del tutto incolpevoli del peccato da lui commesso.




Fonte: Riscossa cristiana, 28.3.2016






martedì 29 marzo 2016

Il cuore di Maria non ha mai stato smesso di battere

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È il titolo di un interessante libro scritto da Federico Catani e Florian Kolfhaus. Gli autori indagano su come possa essere avvenuto il passaggio al Cielo per l’Assunta. Maria è morta e poi risuscitata? Oppure non ha mai subito la separazione tra anima e corpo?
 
 
 
di Lorenzo Bertocchi (28-03-2016)
 
«Lazzaro vieni fuori!». Fu l’urlo di Gesù di fronte al sepolcro dell’amico di Betania. Non sappiamo quanto tempo sia passato da quell’urlo e il momento in cui Lazzaro uscì dalla tomba, ancora avvolto dalla fasce con cui l’avevano deposto. Possiamo provare a immaginare l’atmosfera: l’attesa fiduciosa delle sorelle di Lazzaro, lo sguardo indagatore dei giudei, un tempo sospeso aperto verso l’eternità.
Ma la risurrezione di Lazzaro è ancora nulla rispetto a quella del Cristo, segno di una vita nuova in Lui di cui noi possiamo solo balbettare profondità e larghezza. Infatti, Lazzaro è uscito dal sepolcro in cui giaceva da quattro giorni, ma è stato anche colui che ha vissuto la singolare esperienza di morire due volte, di vivere per due volte lo straziante strappo dell’anima dal corpo. Sarà la risurrezione del Cristo che spalancherà definitivamente la porta alla vera vita, quella eterna, che comprende anche la naturale riunione dell’anima con il nostro corpo, anche se completamente rinnovato. Saranno cieli e terra nuovi.
 
 
La Chiesa ci dà un segno forte di questa nuova realtà, specialmente con la proclamazione del dogma dell’Assunzione della Beata Vergine Maria nella gloria celeste in corpo e anima. Così Maria, come titola un interessante libro appena edito da Cantagalli, potrebbe davvero essere stata colei il cui cuore «non ha mai smesso di battere». Gli autori, Federico Catani e Florian Kolfhaus (Il cuore che non ha mai smesso di battere. Perché la Madonna non è morta, pag. 132), indagano proprio il come possa essere avvenuto il passaggio tra questo mondo e la gloria celeste per l’Assunta. Maria è morta e poi risuscitata? Oppure non ha mai subito la separazione tra anima e corpo?
 
Si tratta di domande che a prima vista potrebbero interessare solo teologi e addetti ai lavori, ma francamente sono quesiti rilevanti per chi è in cerca di speranza seria su cui appoggiare il proprio peregrinare in questo mondo. Gli esperti si dividono tra mortalisti, la Madonna avrebbe subito la separazione di corpo e anima per poi essere risuscitata, e gli immortalisti, coloro che, invece, ritengono che la Vergine avrebbe raggiunto i Cieli senza conoscere il frutto amaro della morte. Cioè il suo cuore non avrebbe mai smesso di battere.
 
«Insigni mariologi», scrivono Catani e Kolfhaus, «hanno avuto la preoccupazione di elencare e spiegare gli argomenti a favore della non-morte di Maria, segno che non si tratta di una questione fantasiosa e risibile, bensì di un tema da prendere sul serio e che ha le sue buone ragioni». Certo, il momento finale di Maria è avvolto nel mistero, generalmente si parla di dormitio, cioè Maria si sarebbe come addormentata, ma di solito non si parla espressamente di morte. Non mancano studiosi (san Giovanni Paolo II compreso) che non escludono la possibilità della morte, anche perché la glorificazione di Maria è comunque il trionfo di Dio, sia che sia avvenuta attraverso la morte e risurrezione, sia attraverso il non-morire.
 
La Madre di Dio, preservata dal peccato originale in vista dei meriti del Cristo, può essere ragionevolmente considerata una creatura assolutamente speciale agli occhi di Dio e, pertanto, è lecito ritenere che il suo cuore non abbia mai smesso di battere. L’esorcista Francesco Bamonte, citato nel libro, ricorda un esorcismo praticato un 15 agosto, festa dell’Assunzione. «Che profumo, che profumo che emana! Che schifo, che schifo!», fu la voce del demonio durante l’esorcismo. Avendogli ordinato, nel nome di Gesù, di dirmi cosa fosse quel profumo, dice Bamonte, con tono di rammarico e pronunciando una sola volta il nome di Maria, disse: «Quel profumo proviene dall’anima e dal corpo di Lei. La sua anima non ha mai lasciato il corpo, la vostra lo farà, la sua non l’ha mai fatto. Da quando quell’anima è entrata in quel corpo non l’ha mai lasciato e con quel corpo è stata assunta. Lei e solo Lei, solo Lei, Lei per prima, dopo suo Figlio. Suo Figlio è morto ma s’è portato via il corpo, così come ha fatto Lei. Lei però non ha avuto bisogno neanche di morire. Lei ha chiuso gli occhi e ha sentito che suo Figlio stava venendo a prenderla e Lui è sceso insieme agli angeli e l’ha abbracciata, e l’ha portata con sé, e le ha detto: “Come tu mi hai portato su questa terra, Io ti porto nel regno del Padre nostro”».
 
É difficile dire qualcosa di certo su un mistero così immenso, che incrocia la vita e la morte, Dio e una creatura sublime. E mentre rimandiamo alle conclusioni di Catani e Kolfhaus per approfondire il tema, noi ci limitiamo a una considerazione semplice, semplice. Per un attimo, cari lettori, provate a pensare che nella storia del mondo ci sia stata una creatura il cui cuore non ha mai smesso di battere.
 
 
 
FONTE: lanuovabq.it
 
 
 
 
 
 
 

La rivoluzione pastorale





Padre Giovanni Scalese
28 marzo 2016

A quanto è stato riferito, il 19 marzo scorso il Papa avrebbe firmato l’esortazione apostolica post-sinodale contenente i risultati degli ultimi due Sinodi dei Vescovi: la III assemblea generale straordinaria su “Le sfide pastorali sulla famiglia nel contesto dell’evangelizzazione” (5-19 ottobre 2014) e la XIV assemblea generale ordinaria su “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo” (4-25 ottobre 2015). La pubblicazione è attesa per la metà di aprile.
Il 14 marzo il Card. Walter Kasper, nel corso di una conferenza tenuta a Lucca, ha annunciato: «Tra pochi giorni uscirà un documento di circa duecento pagine in cui Papa Francesco si esprimerà definitivamente sui temi della famiglia affrontati durante lo scorso sinodo e in particolare sulla partecipazione dei fedeli divorziati e risposati alla vita attiva della comunità cattolica. Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». A leggere questo annuncio bomba del Cardinale tedesco, sembrerebbe di capire che l’esortazione apostolica costituirà uno “strappo” alla tradizione in materia di matrimonio e famiglia.

Il 19 marzo, vale a dire il giorno stesso della presunta firma del documento, il Prof. Alberto Melloni ha pubblicato su Repubblica un editoriale sull’argomento. L’esponente della “Scuola di Bologna” sembrerebbe rassicurarci: «Nessuna spaccatura. Ma una sintesi, tra rigoristi e progressisti. Francesco disorienta ancora una volta chi sperava di “incastrarlo” nel dibattito sinodale sulla famiglia e sulla comunione ai divorziati. O chi pensava di mettere in contraddizione, dentro il sinodo e nella platea dei fedeli, la supposta rigidità di una “dottrina” con una “apertura” che il Papa sintetizza nell’espressione “misericordia”. L’Esortazione post-sinodale su cui oggi Francesco apporrà la sua firma, conterrà proprio questa combinazione di elementi. E l’operazione di chi puntava su uno strappo è clamorosamente fallita». Si potrebbe eccepire: ma il Prof. Melloni che ne sa? Ma lasciamo perdere: da che mondo è mondo, c’è sempre stato qualcuno che, senza averne i titoli, risulta piú informato degli altri. Limitiamoci alle sue affermazioni, che sembrano fondarsi su una conoscenza non approssimativa del documento papale: non ci sarà alcuna rottura, ma ci troveremo di fronte a una superiore sintesi fra le diverse posizioni. Ah, beh, beh! Possiamo tirare un sospiro di sollievo: la rivoluzione è rimandata.

Se però proseguiamo nella lettura, il Professore aggiunge: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II, pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia. E che una “apertura” che non abbia la pretesa di dire la verità che è la persona di Gesú Cristo, sia solo una operazione di marketing. Ha allora superato lo scoglio chiamando a responsabilità i vescovi a cui restituisce poteri effettivi, segnando, come ha detto il cardinale Kasper, una vera e propria “rivoluzione”». Sembrava che Melloni prendesse le distanze dalle anticipazioni di Kasper, e invece ecco che le conferma, arrivando al punto di parlare di una vera e propria “rivoluzione”. Sembrerebbe di capire che la rivoluzione consista nel restituire ai Vescovi “poteri effettivi”. Che significa? Che sulla questione dell’ammissione dei divorziati risposati alla comunione saranno i singoli Vescovi a decidere? È possibile; ma ciò non giustifica la frase del Cardinale: «Questo sarà il primo passo di una riforma che farà voltare pagina alla Chiesa dopo 1700 anni». Perché proprio millesettecento anni? Forse che millesettecento anni fa erano stati tolti ai Vescovi “poteri effettivi”? Non mi risulta. Se sottraiamo a 2016 millesettecento, otterremo 316, una data non particolarmente significativa. Nel 313 c’era stato l’Editto di Milano. Ma allora che voleva dire Kasper? Che finalmente è terminata l’era costantiniana? Non vedo che cosa c’entri. O non sarà forse un riferimento al 325, anno in cui si svolse il primo concilio ecumenico, quello di Nicea? Sí, ma che c’entra?

Rileggiamo con attenzione l’inizio del secondo paragrafo dell’editoriale del Prof. Melloni: «Il Pontefice, coerentemente con la riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale che è al cuore del concilio Vaticano II...». Ah, ecco, abbiamo forse trovato il bandolo della matassa: il Professore fa riferimento al Concilio e alla sua pretesa “riforma del linguaggio del pastorale e del dottrinale”. Il Vaticano II è stato il primo concilio pastorale della Chiesa; fino ad allora i concili erano stati o dottrinali o disciplinari. Certamente il primo di essi, il Concilio di Nicea, fu un concilio dottrinale. Ecco allora che si incomincia a capire perché dopo millesettecento anni la Chiesa volterà pagina: perché finalmente abbandonerà l’attitudine dottrinale, assunta a Nicea, per assumerne una nuova, completamente pastorale. Sí, ma questa svolta non era già avvenuta cinquanta anni fa, appunto con la celebrazione del primo concilio pastorale? No, perché quello fu solo un tentativo. Fallito. Si voleva fare un nuovo tipo di concilio, pastorale appunto, per rompere con la tradizione plurisecolare della Chiesa; Papa Giovanni, ingenuamente, senza rendersi conto della manovra, abboccò; ma provvidenza volle che non potesse portare a termine il Concilio; il testimone passò a Paolo VI, il quale, senza sconfessarne l’iniziale fisionomia pastorale, diede al Concilio una chiara impronta dottrinale, seppure un po’ sui generis.

La svolta, che doveva avvenire — ma non avvenne — cinquant’anni fa, a quanto pare, si realizzerà con l’esortazione apostolica post-sinodale di Papa Francesco: al centro di essa evidentemente non saranno piú le questioni dottrinali, come era avvenuto finora, ma esclusivamente l’attenzione, tutta pastorale, per la situazione concreta in cui si trovano gli uomini del nostro tempo. Se cosí è, si può parlare di una vera e propria “rivoluzione”? Sarebbe una rivoluzione se si manomettesse la dottrina; ma, visto che la dottrina non viene toccata, che male c’è a fissare l’attenzione sui problemi concreti della vita di ogni giorno?

E invece si tratta proprio di una rivoluzione, perché non tocca questo o quel punto della dottrina (in tal caso sarebbe, semplicemente, un’eresia), ma consiste in un cambio radicale di atteggiamento, di prospettiva: una vera e propria “rivoluzione copernicana”. È vero che la dottrina non viene toccata; ma semplicemente perché non interessa piú: è inutile; peggio, dannosa. Avete sentito il Prof. Melloni: «Il Pontefice … pensa che una dottrina che non includa la misericordia sia solo una ideologia». La dottrina è tendenzialmente ideologica; la dottrina divide, provoca le guerre di religione; la dottrina è l’arma di cui si servono i dottori della legge, gli scribi e i farisei per giudicare e condannare. Meglio dunque preoccuparsi della vita concreta, incontrare le persone nella loro condizione reale, cercare ciò che unisce, collaborare con tutti, a prescindere dalle differenze che ci distinguono. Questo atteggiamento può essere definito, appunto, “pastorale”.

Bisognerebbe che qualcuno, prima o poi, si decidesse a fare la storia di questo nuovo orientamento della Chiesa. Giustamente Mons. Brunero Gherardini, nella sua conferenza al convegno sul Vaticano II (16-18 dicembre 2010), paragona la pastorale all’Araba Fenice (“che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa”), ma poi non ricostruisce l’origine e il successivo sviluppo storico del nuovo approccio pastorale della Chiesa. A me sembra, ma potrei sbagliarmi, che esso sia in qualche modo connesso con l’influsso della filosofia moderna sulla teologia cattolica, in modo particolare da parte dell’idealismo e del marxismo. Questo è particolarmente evidente nella teologia della liberazione e nella teologia politica, dove viene chiaramente dichiarato il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia (su tale contrapposizione si vedano l’istruzione della CDF su alcuni aspetti della “teologia della liberazione” Libertatis nuntius del 6 agosto 1984, parte X, n. 3, e la conferenza del Card. Joseph Ratzinger tenuta in Messico nel maggio 1996, in particolare il quinto paragrafo); ma potrebbe aver determinato anche il nuovo orientamento pastorale. L’argomento, ovviamente, andrebbe approfondito. In ogni caso, un dato è certo: non ci troviamo di fronte a un atteggiamento ideologicamente neutro e spiritualmente innocuo; esso è portatore di una carica fortemente ideologica. La dottrina può, certo, trasformarsi in ideologia (quando, da descrizione oggettiva della realtà, quale dovrebbe essere, si risolve in teoria astratta che tenta di imporsi alla realtà); il primato dell’ortoprassi sull’ortodossia è, in sé, ideologia allo stato puro.

Non sta a me emettere giudizi, ma ho l’impressione che ci troviamo di fronte all’ultimo tentativo di assalto alla Chiesa da parte del modernismo. Finora il modernismo non era riuscito a imporsi, perché si era sempre mosso su un piano dottrinale, e su questo piano risultava relativamente facile alla Chiesa individuare le eresie e condannarle. Ecco allora che, nel corso del Novecento, il modernismo ha cambiato strategia (evolvendosi cosí in “neomodernismo”): se continuiamo ad attaccare la dottrina, non andremo da nessuna parte; la dottrina lasciamola cosí com’è; semplicemente, ignoriamola; perseguiamo i nostri obiettivi percorrendo un’altra strada, la via pastorale. Per motivi pastorali, è possibile fare tutto ciò che la dottrina proibisce. Una volta ammesso ciò che finora era proibito, a poco a poco, diventerà scontato e pacificamente accettato da tutti; la dottrina rimarrà un’anticaglia del passato, da conservare in museo, sotto una campana di vetro. E la rivoluzione è fatta. Senza spargimento di sangue.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

venerdì 25 marzo 2016

La Passione del Signore descritta da un medico



Alcuni anni fa un dottore francese, Barbet, si trovava in Vaticano insieme con un suo amico, il dottor Pasteau. Nel circolo di ascoltatori c’era anche il cardinal Pacelli (futuro Pio XII). Pasteau raccontava che, in seguito alle ricerche del dottor Barbet, si poteva ormai essere certi che la morte di Gesù in croce era avvenuta per contrazione tetanica di tutti i muscoli e per asfissia.
Il cardinal Pacelli impallidì. Poi mormorò piano:- Noi non ne sapevamo nulla; nessuno ce ne aveva fatto parola.

In seguito a quella osservazione Barbet stese per iscritto una allucinante ricostruzione, dal punto di vista medico, della passione di Gesù. Premise un’avvertenza:
«Io sono soprattutto un chirurgo; ho insegnato a lungo. Per 13 anni sono vissuto in compagnia di cadaveri; durante la mia carriera ho studiato a fondo l’anatomia. Posso dunque scrivere senza presunzione ».


«Gesù entrato in agonia nell’orto del Getsemani – scrive l’evangelista Luca – pregava più intensamente. E diede in un sudore come di gocce di sangue che cadevano fino a terra ». Il solo evangelista che riporta il fatto è un medico, Luca. E lo fa con la precisione di un clinico. Il sudar sangue, o ematoidròsi, è un fenomeno rarissimo. Si produce in condizioni eccezionali: a provocarlo ci vuole una spossatezza fisica, accompagnata da una scossa morale violenta, causata da una profonda emozione, da una grande paura. Il terrore, lo spavento, l’angoscia terribile di sentirsi carico di tutti i peccati degli uomini devono aver schiac­ciato Gesù.
Questa tensione estrema produce la rottura delle finis­sime vene capillari che stanno sotto le ghiandole sudori­pare… Il sangue si mescola al sudore e si raccoglie sulla pelle; poi cola per tutto il corpo fino a terra.


Conosciamo la farsa di processo imbastito dal Sine­drio ebraico, l’invio di Gesù a Pilato e il ballottaggio della vittima fra il procuratore romano ed Erode. Pilato cede e ordina la flagellazione di Gesù. I soldati spogliano Gesù e lo legano per i polsi a una colonna dell’atrio. La flagel­lazione si effettua con delle strisce di cuoio multiplo su cui sono fissate due palle di piombo o degli ossicini. Le tracce sulla Sindone di Torino sono innumerevoli; la maggior parte delle sferzate è sulle spalle, sulla schiena, sulla re­gione lombare e anche sul petto.

I carnefici devono essere stati due, uno da ciascun lato, di ineguale corporatura. Colpiscono a staffilate la pelle, già alterata da milioni di microscopiche emorragie del sudor di sangue. La pelle si lacera e si spacca; il sangue zampilla. A ogni colpo il corpo di Gesù trasale in un sopras­salto di dolore. Le forze gli vengono meno: un sudor freddo gli imperla la fronte, la testa gli gira in una verti­gine di nausea, brividi gli corrono lungo la schiena. Se non fosse legato molto in alto per i polsi, crollerebbe in una pozza di sangue.

Poi lo scherno dell’incoronazione. Con lunghe spine, più dure di quelle dell’acacia, gli aguzzini intrecciano una specie di casco e glielo applicano sul capo.
Le spine penetrano nel cuoio capelluto e lo fanno san­guinare (i chirurghi sanno quanto sanguina il cuoio ca­pelluto).

Dalla Sindone si rileva che un forte colpo di bastone dato obliquamente, lasciò sulla guancia destra di Gesù una orribile piaga contusa; il naso è deformato da una frattura dell’ala cartilaginea.
Pilato, dopo aver mostrato quello straccio d’uomo alla folla inferocita, glielo consegna per la crocifissione.

Caricano sulle spalle di Gesù il grosso braccio orizzon­tale della croce; pesa una cinquantina di chili. Il palo verti­cale è già piantato sul Calvario. Gesù cammina a piedi scalzi per le strade dal fondo irregolare cosparso di cottoli. I soldati lo tirano con le corde. Il percorso, fortunatamente, non è molto lungo, circa 600 metri. Gesù a fatica mette un piede dopo l’altro; spesso cade sulle ginocchia.
E sempre quella trave sulla spalla. Ma la spalla di Gesù è coperta di piaghe. Quando cade a terra la trave gli sfugge e gli scortica il dorso.

Sul Calvario ha inizio la crocifissione. I carnefici spo­gliano il condannato; ma la sua tunica è incollata alle piaghe e il toglierla è semplicemente atroce. Non avete mai staccato la garza di medicazione da una larga piaga contusa? Non avete sofferto voi stessi questa prova che richiede talvolta l’anestesia generale? Potete allora rendervi conto di che si tratta.


Ogni filo di stoffa aderisce al tessuto della carne viva; a levare la tunica, si lacerano le terminazioni nervose messe allo scoperto nelle piaghe. I carnefici dànno uno strappo violento. Come mai quel dolore atroce non provoca una sincope?

Il sangue riprende a scorrere; Gesù viene steso sul dorso. Le sue piaghe s’incrostano di polvere e di ghiaietta. Lo distendono sul braccio orizzontale della croce. Gli aguzzini prendono le misure. Un giro di succhiello nel legno per facilitare la penetrazione dei chiodi e l’orribile supplizio ha inizio. Il carnefice prende un chiodo (un lungo chiodo appuntito e quadrato), lo appoggia sul polso di Gesù; con un colpo netto di martello glielo pianta e lo ribatte saldamente sul legno.


Gesù deve avere spaventosamente contratto il viso. Nello stesso istante il suo pollice, con un movimento vio­lento, si è messo in opposizione nel palmo della mano: il nervo mediano è stato leso. Si può immaginare ciò che Gesù deve aver provato: un dolore lancinante, acutissimo che si è diffuso nelle sue dita, è zampillato, come una lingua di fuoco, nella spalla, gli ha folgorato il cervello il dolore più insopportabile che un uomo possa provare, quel­lo dato dalla ferita dei grossi tronchi nervosi. Di solito provoca una sincope e fa perdere la conoscenza. In Gesù no. Almeno il nervo fosse stato tagliato netto! Invece (lo si constata spesso sperimentalmente) il nervo è stato di­strutto solo in parte: la lesione del tronco nervoso rimane in contatto col chiodo: quando il corpo di Gesù sarà sospeso sulla croce, il nervo si tenderà fortemente come una corda di violino tesa sul ponticello. A ogni scossa, a ogni movimento, vibrerà risvegliando il dolore straziante. Un supplizio che durerà tre ore.

Anche per l’altro braccio si ripetono gli stessi gesti, gli stessi dolori.
Il carnefice e il suo aiutante impugnano le estremità della trave; sollevano Gesù mettendolo prima seduto e poi in piedi; quindi facendolo camminare all’indietro, lo addos­sano al palo verticale. Poi rapidamente incastrano il brac­cio orizzontale della croce sul palo verticale.

Le spalle di Gesù hanno strisciato dolorosamente sul legno ruvido. Le punte taglienti della grande corona di spine hanno lacerato il cranio. La povera testa di Gesù è inclinata in avanti, poiché lo spessore del casco di spine le impedisce di riposare sul legno. Ogni volta che Gesù sol­leva la testa, riprendono le fitte acutissime.

Gli inchiodano i piedi.

È mezzogiorno. Gesù ha sete. Non ha bevuto nulla né mangiato dalla sera precedente. I lineamenti sono tirati, il volto è una maschera di sangue. La bocca è semiaperta e il labbro inferiore già comincia a pendere. La gola è secca e gli brucia, ma Gesù non può deglutire. Ha sete. Un soldato gli tende, sulla punta di una canna, una spugna imbevuta di una bevanda acidula in uso tra i militari.

Ma questo non è che l’inizio di una tortura atroce. Uno strano fenomeno si produce nel corpo di Gesù. I muscoli delle braccia si irrigidiscono in una contrazione che va accentuandosi: i deltoidi, i bicipiti sono tesi e rilevati, le dita si incurvano. Si tratta di crampi. Alle cosce e alle gambe gli stessi mostruosi rilievi rigidi; le dita dei piedi si incurvano. Si direbbe un ferito colpito da tetano, in preda a quelle orribili crisi che non si possono dimenti­care. È ciò che i medici chiamano tetanìa, quando i crampi si generalizzano: i muscoli dell’addome si irrigidiscono in onde immobili; poi quelli intercostali, quelli del collo e quelli respiratori. Il respiro si è fatto a poco a poco più
corto. L’aria entra con un sibilo ma non riesce quasi più a uscire. Gesù respira con l’apice dei polmoni. Ila sete di aria: come un asmatico in piena crisi, il suo volto pallido a poco a poco diventa rosso, poi trascolora nel violetto purpureo e infine nel cianotico.

Gesù, colpito da asfissia, soffoca. I polmoni, gonfi d’arìa non possono più svuotarsi. La fronte è imperlata di sudore, gli occhi gli escono fuori dall’orbita. Che dolori atroci devono aver martellato il suo cranio!

Ma cosa avviene? Lentamente, con uno sforzo sovru­mano, Gesù ha preso un punto di appoggio sul chiodo dei piedi. Facendosi forza, a piccoli colpi, si tira su, allegge­rendo la trazione delle braccia. I muscoli del torace si distendono. La respirazione diventa più ampia e profonda, i polmoni si svuotano e il viso riprende il pallore primitivo.

Perché tutto questo sforzo? Perché Gesù vuole par­lare: « Padre, perdona loro: non sanno quello che fanno ». Dopo un istante il corpo ricomincia ad afflosciarsi e l’asfissia riprende. Sono state tramandate sette frasi di Gesù dette in croce: ogni volta che vuol parlare, Gesù dovrà sollevarsi tenendosi ritto sui chiodi dei piedi… Inimma­ginabile!

Uno sciame di mosche (grosse mosche verdi e blu come se ne vedono nei mattatoi e nei carnai), ronza attorno al suo corpo; gli si accaniscono sul viso, ma egli non puo scacciarle. Fortunatamente, dopo un po’, il cielo si oscura, il sole si nasconde: d’un tratto la temperatura si abbassa. Fra poco saranno le tre del pomeriggio. Gesù lotta sempre; di quando in quando si risolleva per respirare. È l’asfissia periodica dell’infelice che viene strozzato e a cui si lascia riprendere fiato per soffocarlo più volte. Una tor­tura che dura tre ore.

Tutti i suoi dolori, la sete, i crampi, l’asfissia, le vibra­zioni dei nervi mediani, non gli hanno strappato un lamento. Ma il Padre (ed é l’ultima prova) sembra averlo abbandonato: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abban­donato?».

Ai piedi della croce stava la madre di Gesù. Potete immaginare lo strazio di quella donna?

Gesù dà un grido: « È finito (compiuto) ».
E a gran voce dice ancora: «Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito».
E muore (lanciando un alto grido).


[Fonte]


L’archeologia conferma l’Uomo della Sindone


 
William-Adolphe Bouguereau, Flagellazione di Nostro Signore Gesù Cristo, 1880



 

di Flavia Manservigi

L’Uomo della Sindone è Gesù? Per molti studiosi, l’impressionante coincidenza tra i segni di tortura che hanno lasciato un’impronta sul telo e il racconto della Passione che si trova nei Vangeli è sufficiente a dimostrare tale identità. L’Uomo della Sindone, come Gesù, fu incoronato di spine e il suo costato fu trafitto da una lancia. Come il Salvatore, l’Uomo della Sindone fu flagellato abbondantemente – come dimostrato dalla serie di numerosi piccoli segni di forma irregolare impressi sul Lenzuolo, traccia inequivocabile delle ferite provocate dai colpi di sferza -, come se quella fosse l’unica pena cui era stato condannato, mentre in seguito fu anche crocifisso. Ciò concorda pienamente con il Vangelo di Giovanni, che parla delle due condanne inflitte a Gesù da Pilato.

L’ipotesi di una possibile identificazione tra i supplizi subiti dall’Uomo della Sindone e quelli inferti a Gesù comporta la necessità di verificare se effettivamente i segni presenti sul telo siano compatibili con le forme di tortura che erano applicate nel I secolo nel mondo romano.

Per quanto riguarda la flagellazione, in ambito romano essa era codificata secondo un rigido protocollo legislativo, e prevedeva l’utilizzo di un’ampia gamma di strumenti, di cui il più terribile in assoluto - utilizzato per punire i reati più gravi - era l’horribile flagrum, un flagello dotato di corregge terminanti con estremità contundenti, in grado di battere e lacerare le carni. Secondo gli studiosi, sarebbe stato usato proprio questo strumento per flagellare l’Uomo della Sindone; molti sindonologi ritengono inoltre che questo flagrum fosse del tipo taxillatum, ossia dotato di taxilli (piccoli ossicini di animale, altrimenti noti come astragali).

È opportuno precisare, però, che il termine taxillatum non è mai usato nelle fonti storiche: è stato infatti coniato solo nel XVI secolo dal filologo e umanista Giusto Lipsio per rendere la parola greca “astragalato”. Meglio quindi, per riferirsi a questo strumento, parlare di flagrum ’dotato di astragali’. È inoltre opportuno considerare che questo tipo di flagrum non era usato dai soldati Romani a scopi punitivi, ma veniva utilizzato dai sacerdoti della dea orientale Cibele durante rituali di autoflagellazione. L’associazione tra Gesù, l’Uomo della Sindone e il flagrum ’astragalato’ è quindi molto improbabile.

Tuttavia, diverse fonti databili all’epoca romana e ai primissimi secoli dell’Era Cristiana ci parlano di flagra dotati di estremità contundenti, quindi compatibili con le tracce sindoniche: il Codice Teodosiano, così come vari autori - tra cui Zosimo e Prudenzio - descrivono le plumbatae, palline di metallo che erano poste all’estremità degli orribili flagelli per imprimere ancor più orribili punizioni.

Numerosi dizionari di Archeologia Romana e Cristiana, datati tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, ci informano che esemplari di questo tipo di flagrum sarebbero stati rinvenuti a Ercolano e nelle catacombe di Roma, e sarebbero quindi databili a periodi vicinissimi a quello in cui visse Gesù. Ad oggi, non abbiamo notizie in merito ai flagra di Ercolano: essi sono stati probabilmente dispersi in qualche collezione privata, o potrebbero essere stati smembrati in più parti.

Discorso diverso vale per i flagra delle catacombe, di cui quattro esemplari sarebbero oggi conservati presso i Musei Vaticani, dove essi sono catalogati come flagelli bronzei romani (invv. 60564-60567). La comprovata esistenza di questi flagra dalla forma compatibile con le tracce sindoniche sembrerebbe togliere ogni dubbio circa la possibilità che l’Uomo della Sindone sia stato flagellato con strumenti utilizzati in ambito romano nell’epoca in cui visse Gesù.

È però necessario precisare che i quattro flagelli erano esposti insieme ad altri reperti, a loro volta classificati come strumenti di tortura, ma che in realtà avevano ben altri usi: uno di questi, inventariato come ‘graffione’, è stato in seguito identificato con un porta lucerne etrusco. Da qui il dubbio che anche i flagelli siano in realtà qualcosa di diverso, non legato all’ambito della tortura; tale eventualità è avvalorata dalla somiglianza tra le terminazioni di questi reperti con quelle di alcuni oggetti rinvenuti nella necropoli villanoviana di Verucchio (RN), classificati come pendenti ornamentali o stimoli per cavalli. Il problema circa l’esatta identificazione dei quattro ‘flagelli’ dovrà quindi essere oggetto di ulteriori approfondimenti.

Ciò non toglie che l’uso di flagelli dotati di corregge terminanti con oggetti contundenti, quindi compatibili con i segni visibili sull’impronta sindonica, fosse sicuramente diffuso in un’epoca prossima al periodo in cui visse Gesù: questo dato è attestato da fonti storiche e letterarie, come abbiamo visto.

Inoltre, il fatto che in un’epoca non lontana dal I secolo si facesse uso di flagelli terminanti con estremità contundenti è dimostrato anche da altre testimonianze: all’interno di un numero del Bullettino dell’Instituto di Corrispondenza Archeologica datato al 1859, l’etruscologo Gian Carlo Conestabile della Staffa riporta la notizia del ritrovamento, nella zona di Volterra, di un oggetto identificato con un flagello di bronzo, formato da «sei lunghe catenelle che vanno a riunirsi tutte in un’asta serpeggiante […]; tre di quelle catenelle sono doppie, e tre semplici, formate da anelli e fornite in punta di una pallina».

Gli Etruschi, quindi, usavano flagelli terminanti con estremità contundenti; dagli Etruschi, i Romani avevano mutuato non solo la pratica della flagellazione, ma anche l’uso di alcuni strumenti per flagellare: è ipotizzabile, quindi, che i Romani avessero ‘ereditato’ anche questo oggetto.

Sebbene, quindi, le testimonianze archeologiche ad oggi in nostro possesso non siano totalmente sicure, ciò non toglie che esista compatibilità tra gli strumenti in uso per la flagellazione nei primissimi secoli dell’Era Cristiana e i segni visibili sull’impronta lasciata dall’Uomo della Sindone.

Ovviamente questo dato, da solo, non rappresenta la prova definitiva del fatto che Gesù e l’Uomo della Sindone siano la stessa persona; tuttavia, l’analisi delle fonti porta ad avvalorare la possibilità che l’Uomo della Sindone abbia subito una tortura tipica dei luoghi e dei tempi in cui Gesù visse, operò e accettò di caricare sulle proprie spalle la croce più grande per la salvezza dell’umanità.

Le meditazioni proposte da La NBQ per la Settimana Santa:



 
 
 
 
 
 

giovedì 24 marzo 2016

Tutte le irregolarità del processo farsa per fare morire Gesù






Furono ventisette i divieti infranti dai giudici: le prove di una sentenza abborracciata, con un capo d'accusa grottesco


Rino Cammilleri
23/03/2016

Che il processo di Gesù davanti al Sinedrio fosse stato una farsa non è invenzione degli evangelisti. Né fu un caso isolato, visto che l'ebreo Flavio Giuseppe narra di un tal Zacharias processato
nel 67 d.C. e lapidato nel Tempio quantunque riconosciuto innocente. Due storici ebrei nel 1877 si misero a spulciare il Talmud e, nel processo di Gesù, riscontrarono ben ventisette irregolarità, una sola delle quali sarebbe bastata a invalidarlo. Ecco le principali.
 
La Legge giudaica vietava i processi notturni e nelle vigilie delle feste, e tra le sedute doveva correre almeno un giorno. Invece, Gesù è processato di notte davanti all'ex sommo sacerdote Anna, poi di nuovo all'alba da Caifa e alla vigilia di Pasqua. A casa di Caifa viene condannato a morte, sebbene tali condanne, rigorosissimamente, non potessero essere pronunciate che nella Sala delle Pietre Squadrate (detta Gazith) dentro al Tempio.
 
Ogni testimone doveva essere ascoltato da solo, invece nel caso di Gesù finì a gazzarra. I membri del Sinedrio, settantuno, dovevano votare solennemente uno per uno, ma nel caso di Gesù si misero a urlare in coro «a morte!».
 
Andiamo avanti. Il processo doveva iniziare con la comunicazione dei capi d'accusa all'imputato. Caifa, al contrario, interroga Gesù sulla di lui dottrina. Doveva essere giudice, invece si improvvisa pubblico ministero e pretende, per giunta, che l'imputato si accusi da solo. Gesù, infatti, gli fa presente che, secondo le regole, dovrebbe rivolgersi a chi ha ascoltato i suoi discorsi pubblici, non a lui. Per tutta risposta si becca una bastonata in faccia (come si vede dal naso rotto della Sindone) da parte di un lacchè ruffiano.
 
Gesù sa bene che i sinedriti non hanno nulla in mano, per questo cercano di strappargli un'ammissione di colpa. Ridicolo, perché in un processo appena decente nessuno può essere obbligato a testimoniare contro se stesso. È per questo che, dal quel momento, Gesù si tappa la bocca. La apre col Sommo Sacerdote solo per ammettere che il Messia è lui, cosa sulla quale non può tacere e che non è certo un reato. Ma Caifa lo dichiara subito bestemmiatore e si straccia pure le vesti, fregandosene della Legge che vieta al Sommo Sacerdote anche solo di sporcarle.
 
Gesù insomma è condannato a morte con sentenza abborracciata, in dispregio di ogni procedura e con un capo d'accusa grottesco. Già: se uno afferma di essere il Messia che si deve fare? Si va a scrutare le Scritture per vedere se il soi disant ha tutte le caratteristiche predette riguardo a tempi, luoghi e operato (Gesù le ha tutte e al millimetro, tra parentesi). Se non le ha, si tratta di un fanfarone megalomane, e va additato come tale al popolo. Ma fanfaronaggine e megalomania non sono reati capitali, specie se il Sedicente non ha mai fatto del male a nessuno.
 
Gesù ha perfettamente capito che quel processo-farsa è stato imbastito da tempo e che serve solo a far fare il lavoro sporco a Pilato. Il quale verrà incastrato dai Sinedriti con la minaccia di un ricorso all'imperatore Tiberio se non li accontenta. Tiberio si è appena sbarazzato del suo primo ministro Seiano e sta eliminando tutti quelli che a costui devono il posto. Pilato è uno di questi e sa che Cesare sta solo aspettando un suo passo falso. E il passo lo fa, anche perché i furbi sinedriti gli hanno messo sotto al piede una saponetta di quelle che qualunque cosa fai sbagli.
 
Gesù sta zitto anche con Pilato. Parla solo quando quello gli chiede se davvero è Re, e domanda che cosa intende: se vuol sapere se lui è un capo politico come dicono i sinedriti, la riposta è no; se la sua richiesta è invece sincera la riposta è sì, ma non «di questo mondo». E poi tace per sempre, perché vede che a Pilato la «verità» non interessa.
 
Gli storici ebrei di cui dicevamo all'inizio hanno una storia curiosa. Si tratta dei gemelli Augustin e Joseph Lémann di Lione. Dopo gli studi rabbinici si convinsero che Gesù di Nazareth era davvero il Messia e chiesero il battesimo. Vennero picchiati per farli rinsavire, ma non ci fu niente da fare. Cacciati di casa, si fecero preti tutti e due e pubblicarono nel 1877 il saggio Valeur de l'Assemblée qui prononça la peine de mort contre Jésus Christ. La Libreria Editrice Fiorentina lo ha tradotto come L'assemblea che condannò il Messia. Storia del Sinedrio che decretò la pena di morte di Gesù (pagg. 130, euro 8).
 
Il giorno in cui il Papa Pio IX proclamò il dogma dell'Immacolata Concezione c'erano loro due a servirgli la messa. Nella loro ricerca i Lémann rintracciarono anche i profili di oltre quaranta dei sinedriti di quella triste notte. Il Nuovo Testamento cita solo quelli che cercarono di far rispettare le regole, Gamaliele, Nicòdemo, Giuseppe di Arimatea (non a caso divenuti poi cristiani), signorilmente sorvolando sugli altri personaggi, il più pulito dei quali, come si suol dire, aveva la rogna. Per questi il Nazareno non poteva essere il Messia perché non rispettava il sabato e i lavacri rituali. Ma soprattutto non aveva mai rispettato loro.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

Giovedì santo. L'abluzione all'altare papale di S. Pietro




L'abluzione dell'altare papale. (Romagnoli e Zaniboni)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi -

 di Francesco G. Tolloi 

Una breve premessa.
Tra le innumerevoli cerimonie che si susseguivano serratamente durante la Settimana santa in Roma, merita particolare attenzione – non fosse altro per la curiosità che era in grado di suscitare – l’abluzione dell’altare papale che veniva compiuta la sera del Giovedì santo nella Basilica vaticana. L’anonimo autore di un piccolo volume, ai primi del Novecento, dedicato proprio a questo particolare costume liturgico, ci riferisce che – fin dalle testimonianze da lui consultate – il concorso di fedeli era tale da rendere persino difficoltoso il passaggio del clero che si dirigeva all’altare per il compimento di questa cerimonia: talmente numerosa era la moltitudine che esso si vedeva costretto ad aprirsi materialmente il varco tra le ali di folla [1]. L’allora popolarissimo periodico «La Tribuna Ilustrata della Domenica», volle – nel 1898 – pubblicare una dettagliata incisione a colori di Romagnoli e Zaniboni, laddove si notano i fedeli assiepati fino alle immediatissime vicinanze del basamento delle colonne berniniane [2]. Altrettanto – sebbene con un’incisione, questa volta, in bianco e nero presa da un “disegno dal vero “ di D. Paolocci – si evince da «L’illustrazione popolare».

Descriverò qui brevemente il modo di ordinarsi di questa cerimonia.

 
L'abluzione dell'altare papale (Paolocci)
- collezione personale di Francesco G. Tolloi 
Svolgimento.

Una volta terminata l’ufficiatura delle Tenebrae, ossia il canto di mattutino e lodi del Venerdì santo anticipati la sera del giovedì, il clero della basilica vaticana si portava processionalmente all’altare papale. Aprivano la processione il crocifero – la cui immagine del Crocifisso era velata – accanto ad esso, ai suoi fianchi, incedevano due accoliti che sostenevano i candelieri con le candele in cera gialla grezza spente. Li seguivano i seminaristi, il clero beneficiato e i restanti canonici. Il canonico officiante, sopra il rocchetto, portava stola e piviale di colore nero. Egli era assistito da sei canonici. Questi, che per l’ufficiatura avevano indossato la cappa, ora indossavano la cotta messa sopra il rocchetto e la stola nera. Il cardinale arciprete della Basilica, indossando la cappa di colore violaceo (caratteristica dei tempi di penitenza), seguiva la processione accompagnato dai suoi familiares. 

Gli accoliti e il crocifero andavano a collocarsi nella parte retrostante l’altare, mentre l’officiante con i sei canonici si mettevano in ginocchio sul più basso dei gradini dell’altare; il restante del clero si disponeva ad emiciclo presso l’altare. L’altare si presentava in questo momento privo delle tovaglie, in luogo opportuno erano state preparate sette brocche riempite di vino bianco allungato con acqua. L’officiante intonava l’antifona Diviserunt sibi, subito proseguita dai cappellani che cantavano – alternativamente con la Schola cantorum – il salmo XXI, secondo il testo del Salterio romano in uso al clero della basilica vaticana [3]

Ritengo che l’uso di cantarlo – attestato dal citato Autore di La cérémonie de l’ablution (cit., p. 31), sia una innovazione recenziore, infatti Francesco Cancellieri ci riporta che si proseguiva “senza canto”[4]. Non appena la summenzionata antifona era intonata, il canonico officiante si alzava e, una volta toltosi il piviale, saliva con i suoi assistenti all’altare. Ivi, il canonico altarista, in rocchetto e cotta, gli porgeva una delle brocche. Gli altri sei canonici in stola nera, ricevevano anch’essi una brocca. Contemporaneamente versavano una parte del contenuto sulla mensa, spargendolo con l’ausilio di un “aspergillo”. Il Cancellieri ci ragguaglia che questi aspergilli erano dei serti fatti con rami di tasso, di bosso o più comunemente di sanguinella opportunamente composti ed intrecciati[5]. Questi canonici scendevano dall’altare per lasciare il posto al cardinale arciprete che imitava immediatamente il medesimo gesto. Altrettanto facevano, dopo di lui, gli altri canonici, i beneficiari, il clero della basilica e, in fine, i seminaristi. 

Una volta che tutti avevano terminato di spargere il vino allungato con l’acqua sulla mensa, l’officiante con i suoi assistenti saliva nuovamente all’altare di cui asciugava la mensa servendosi di spugne e asciugatoi di stoffa. Terminata anche questa operazione, scendevano in plano per mettersi in ginocchio sul più basso dei gradini. Tutti si ponevano quindi in ginocchio. Avendo i cappellani detto il versetto Christus factus est obediens con la sua risposta, l’officiante principiava il Pater noster – proseguito in segreto – cui faceva seguito l’orazione Respice, quaesumus, Domine. 

Tutti si levavano e – fatta la debita reverenza – facevano ritorno alla sacrestia, per poi far riaccedere alla navata centrale poco dopo per assistere alla solenne ostensione delle reliquie della Lancia, della Croce e del santo Sudario.

Origine e qualche riferimento storico.

Decisamente diverse sono state le ipotesi avanzate per spiegare le origini dell’uso liturgico di mondare l’altare: se perlomeno ardita è l’ipotesi per la quale vi sia da ricercare il fondamento nelle costumanze rituali del tempio israelitico (in particolare Esodo XXIX), a fortiori lo è quella del protestante zwingliano Rodulpus Hospinianus che ne vorrebbe rintracciare l’origine addirittura in lacerti di usi pagati, trasformati ed adattati (nella fattispecie la lustratio del simulacro della dea Cibele) [6]. Fin troppo viziata di “positivismo” appare l’ipotesi del De Vert. L’Autore è conosciuto proprio per queste spiegazioni che ricercano una mera origine pratica, spesso forzatamente pragmatica. Proprio nel caso della ablutio, egli opina che l’uso si sia instaurato profittando del fatto che l’altare si trova spogliato degli ornamenti, in particolare delle tovaglie che abitualmente ne ricoprono la mensa. L’uso di spogliare l’altare dopo la celebrazione sarebbe rimasto nelle prescrizioni del Giovedì santo: essendo già spogliato un lavaggio ne sarebbe stato largamente facilitato e agevolmente sarebbe venuto ad insinuarsi nelle incombenze da farsi in quei giorni. È qui che il De Vert si lascia andare a una critica all’atteggiamento e la condotta dei sacristi che lasciano gli altari addobbati col mero pretesto della comodità [7]

Una interpretazione votata alla simbolicità e alla allegoria, vorrebbe che l’altare, immagine del corpo di Cristo, venga lavato, come pietosamente si fa con il corpo di un morto; il vino e l’acqua sembrerebbero, a questo punto, voler alludere e simboleggiare il sangue e l’acqua scaturiti dal costato del Signore, ferito dalla lancia che gli colpì il costato.

Se prima ho fatto cenno all’ampio concorso di popolo che interveniva nell’occasione di questa cerimonia della basilica vaticana, non posso non ricordare che su questo rito l’attenzione di scrittori ed eruditi ha avuto più volte modo di soffermarsi. Solamente tra l’ultimo scorcio del XVII secolo e gli esordi del XVIII, tre furono le opere consacrate a questo uso liturgico (le elenco in ordine cronologico):

- I.M. SUARESIUS, Ritus qui observatur in Basilica Vaticana quotannis in Die Coenae Domini, Romae, Herculis, 1686;
- C. BATTELLO, Ritus annuae ablutionis altaris majoris Sacrosanctae Basilicae Vaticanae, Romae, Zenobii, 1702;
- F. ORLENDUS, Duplex lavacrum in Coenae Domini fidelibus exhibitum, Florentiae, Nestenus – Borghigiani, 1710.

Tra i testi più vetusti ove si trova contezza di questo peculiare rito merita menzione il De ecclesiasticis officiis di sant’Isidoro (+ 636), per il quale: “Hinc est quod eodem die altaria, templique parietes, et pavimenta laventur, vasaque purificantur quae sunt Domino consecrata”[8]

Sant’Eligio di Noyon parrebbe mettere in stretta relazione l’abluzione dell’altare – nonché dell’edificio ecclesiastico e dei vasi sacri – alla lavanda dei piedi di cui costituirebbe una sorta di particolare prolungamento o, se vogliamo, di sviluppo ulteriore. Così si esprime a proposito sant’Eligio: “Propter humilitatis formam commendandam ea die pedes eorum lavit, et hinc est quod eodem die altaria, tempique parietes, et vasa purificantur” [9]

L’autore citato di La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit., p. 6) poggiando il suo opinare sulla critica tardo Ottocentesca – in particolare facente capo al Vancard – avanza dubbi circa l’attribuzione di quel testo a sant’Eligio. Potrebbe trattarsi, più verosimilmente, di qualche autore riconducibile al X secolo, o solo a qualche decennio prima. Significativo appare però il fatto che – pur nella difficoltà di datare con precisione un’origine certa di tale rito e di trovare testimonianze precedenti sant’Isidoro – all’epoca del grande dottore ispanico, il rito si configurava già per essere tale, con tanto di tentativi di lettura in chiave simbolica, e non una mera - parafrasando qui il De Vert - attenzione di pulizia esteriore in vista dell’imminenza della principale festa cristiana. Sicuramente la circostanza di trovare l’altare spoglio ha favorito il formarsi di tale usanza, ma mi pare possa escludersi che questa spiegazione, specie se da sola, riesca ad essere non solo esaustiva ma anche solo convincente.

Due secoli più tardi, Rabano Mauro (+ 856) attesta l’uso germanico di effettuare una lavanda dell’altare nella Feria V della Settimana santa [10]. Martène fornisce altri interessanti ragguagli circa la diffusione di questo rito [11]. Quanto alla menzione di tale uso liturgico nell’ambito degli Ordines romani, è necessario soffermarsi al n. “L” (numerazione Andrieu). La redazione di tale Ordorimonta al X secolo: “Eodem die altaria templi et parietes sive pavimenta ecclesia laventur et vasa Domino sacrata purificentur” [12]. Anche in questo caso devo registrare che l’ablutio non si limita alle mense degli altari ma si estende alle pareti, il pavimento e – infine – ai vasi sacri. È proprio a decorrere da quest’epoca che le testimonianze si presentano meno rarefatte e, se vogliamo, sono all’insegna di una certa sistematicità e ricorrenza. Se ne trova traccia sia nei consuetudinarii diocesani che in quelli di ambito monastico, le tracce non sono tuttavia univoche. Anzi, proprio di pari passo alla diffusione, si va incontro a una diversificazione degli usi. In tal senso il rito dell’abluzione, in alcuni ambiti, lo si trova spostato il giorno dopo, nel venerdì in Parasceve, situato subito dopo il vespero o, anche, durante la refezione. Ma la variante temporale non è certo la sola: appare diversificato il tipo di paramenti e anche il colore che vengono adoperati per compiere tale ufficio. In alcuni luoghi esso si compiva in camice e stola, altrove si aggiungeva il manipolo, in altre località ancora si costumava indossare il piviale o – se interveniva il vescovo – questi indossava in capo la mitria. Altrove ancora si praticava a piedi nudi e differenti ancora erano i brani liturgici eseguiti durante l’azione propriamente detta. Diversità si riscontra anche nell’uso degli aspergilli: chi ne usava di confezionati con rami di ginepro e chi, invece, si avvaleva dei ramoscelli di ulivo benedetti la domenica precedente ecc. Quasi sempre la lavanda propriamente detta avveniva con vino allungato con acqua ma esistono esempi ove una prima lavanda avveniva semplicemente con acqua, il vino veniva poi versato – effondendolo in forma di croce – ai punti laddove, durante il rito di consacrazione dell’altare, la mensa era stata segnata con l’unzione da parte del vescovo. Tale uso è attestato in area germanica, la chiesa di Aquileia – che molti usi ebbe a mutuare da tali ambiti geografici – usava poi disporre sulla mensa mondata dei ceri in forma di croce [13]. Qui ho ricordato l’uso aquileiense per motivi geografici e di affetto.
 
Ancora una volta l’anonimo autore di La cérémonie de l’ablution de l’autel papal (cit. p. 19), ci dà contezza che tra il XV e il XVII secolo le testimonianze del rito di abluzione degli altari sono frequentissime: dai diversi consuetudinarii, ai messali diocesani, quelli monastici, i libri processionali ecc. Ma proprio a partire dal XVI secolo si assiste a una disaffezione verso tale costume liturgico che porta, inevitabilmente, alla desuetudine e all’abbandono. A questo processo di declino non si vide risparmiata neanche la basilica vaticana laddove pare che il rito sia stato ristabilito appena nel 1635 [14]; a titolo di curiosità ricordo che l’uso della basilica era attestato nel XIII secolo il Venerdì santo, l’abluzione avveniva con una provvista di vino greco fornito dal vescovo di Porto. 

Quasi a voler frenare questo decadimento credo si possa leggere la volontà del cardinale Orsini – il futuro Benedetto XIII – quando, essendo vescovo di Benevento, volle vedere introdotto tale uso nella sua cattedrale. A questo inesorabile declino sopravvisse l’uso della basilica vaticana e l’uso di alcuni ordini religiosi fra i quali i carmelitani dell’antica osservanza e dei domenicani[15].

Una brevissima conclusione.

Qui mi sono limitato – e spero almeno di essere parzialmente riuscito – a voler dare testimonianza di un uso liturgico romano: certo gli aspetti che meriterebbero una approfondita analisi non sono certamente pochi. La messe documentale da consultare, come ho già notato, sarebbe davvero molto copiosa. Raccoglierla e confrontarla in modo sistematico e serrato – unitamente anche all’analoga consuetudine della Chiesa greca, porterebbe a una auspicabile chiarezza. Certo questo non era negli scopi di questo mio semplice scritto che mi auguro servirà almeno alla preservazione della memoria ne pereat.

Tu autem in sancto habitas, laus Israel!

[1] La Cérémonie de l’ablution de l’autel papal à Saint Pierre au Vatican, Rome, Desclée – Lefebvre, s.d. [1908], p. 26.
[2] «La Tribuna illustrata della Domenica», anno VI, n. 15, 10 aprile 1898.
[3] Per il testo cfr.: Breviarium romanum ad usum Cleri Basilicae Vaticanae, Romae, Typis Vaticanis, pars verna,1925, pp. 260 e ss.. Su questo breviario v. J. NABUCO, Ius Pontificalium, Parisiis – Tornaci – Romae, Desclée, 1956, pp. 232 e ss.. Il salterio romano era utilizzato anche nella ducale basilica di S. Marco a Venezia.
[4] Cfr.: F. CANCELLIERI, Descrizioni delle Funzioni della Settimana Santa nella Cappella Pontificia, Roma, Bourliè, 1818 4, p.101.
[5] Idem, p. 100.
[6] R. HOSPINIANUS, De Festis christianorum, Genevae, De Tournes, 1674, p. 121.
[7] C. DE VERT, Cérémonies de l’Eglise, Paris Delaulne, 1720, II, pp. 389 e ss..
[8] De eccles. Officiis, Lib. I, cap. 29, De Coena Domini, in P.L., t. LXXXIII, col. 764.
[9] Homilia VIII, de Coena Domini, in P.L., t. LXXXVIII, col 623.
[10] De institutione clericorum, cap. XXXVI, De Coena Domini, in P.L., t. CVII, col. 347.
[11] Se ne trovano diverse menzioni, ad es. E. MARTÈNE, De antiquis Ecclesiae Ritibus, Anteperviae, Bry, 1737, IV, pp. 277 e ss.(Lib. IV, cap. XXII).
[12] M. ANDRIEU, Les ordines Romani du Haut Moyen Age, Louvain, Spicilegium Sacrum Lovaniense, 1961, V, p. 189.
[13] G. VALE, Gli antichi usi liturgici della Chiesa d’Aquileia dalla Domenica delle Palme alla Domenica di Pasqua, Padova, Tipografia del Seminario, 1907, p. 29.
[14] La cérémonie de l’ablution..., cit., p. 24.
[15] Per una compiuta descrizione dell’uso domenicano: Ecclesiasticum Officium juxta ritum Sacri Ordinis Praedicatorum, Romae, Hospitio Reverendissimi Magistri Ordinis, 1927, pp. 82 e ss. Vedi anche Caeremoniale juxta Ritum S. Ordinis Praedicatorum (ed. V. Jandel), Mechliniae, Dessain, 1869, pp. 425 e ss.., A. KING, Liturgies of Religious Orders, Bonn, Nova et Vetera, pp. 356 e s.. Sui carmelitani, debitori sia degli usi domenicani che di quelli gerosolimitani del santo Sepolcro, Idem, p. 266 e ss..
(Fonte RERUM LITURGICARUM)