mercoledì 7 settembre 2016

Un regalo da Oriente. Che cosa mi sta insegnando un monaco ortodosso

 


    

Per una circostanza che ritengo altamente provvidenziale in questi giorni mi è stato messo a disposizione l’insegnamento di un monaco ortodosso che mi sta fornendo una serie di osservazioni sulla vita di preghiera e di fede. È un’esperienza bellissima, sorprendente e stimolante, sotto diversi aspetti.

Ammetto di aver sempre avuto un debole per la spiritualità orientale, per molteplici motivi. Forse perché sono ambrosiano e dunque figlio di quell’Ambrogio che è santo anche per le Chiese d’Oriente e ha permesso di conservare nel rito che porta il suo nome influssi provenienti dall’universo bizantino. Forse perché gli orientali non hanno perso per strada, o l’hanno persa meno di noi cattolici, quella dimensione contemplativa che mi sembra così importante e che noi cristiani occidentali rischiamo spesso di considerare invece un po’ secondaria rispetto a quella operativa. Forse perché i riti orientali sono impregnati di una sacralità e di un senso del mistero (e di conseguenza di una bellezza) che fra i cattolici sono andati stemperandosi.

Sia come sia, sto vivendo questa opportunità di confrontarmi con un religioso ortodosso come un autentico dono del Cielo. Ed ecco che cosa mi ha colpito di più, finora.

Prima di tutto il fatto che, per loro, la divina liturgia (la nostra santa messa) è davvero azione sacra, per cui non va presa alla leggera, come semplice rappresentazione. Lì, in quel momento, non si mette in scena qualcosa, non va in onda qualcosa, non si fa una rievocazione, ma si celebra un mistero, la cui sacralità è massima. Ecco perché non è opportuno che alla divina liturgia prenda parte chi ha un altro credo.  Non è un’esclusione: è rispetto del mistero sacro in atto.  Certo, nessun uomo è in grado di vedere nel cuore di un altro uomo, per cui non ci sono, né potrebbero esserci, divieti. Il punto riguarda la considerazione che si ha per la liturgia.

È evidente che qui siamo dinnanzi a un’idea di sacro che da noi si è largamente persa o quanto meno appannata. Da noi la messa più che mistero sacro è diventata assemblea e incontro, e la chiesa, più che luogo reso sacro dalla presenza reale di Cristo e dal mistero eucaristico che lì si rinnova realmente, è diventata appunto il luogo dell’assemblea e dell’incontro. Ecco perché sentirmi dire che la divina liturgia merita il rispetto che si attribuisce alle cose più sacre mi ha lasciato dapprima stupito ma in un secondo tempo ammirato. Rispetto vuol dire anche cura dei dettagli. Vuol dire preservare quello spazio e quel tempo dalle brutture tipiche del mondo: la superficialità, il lasciar correre, il protagonismo, la maleducazione.

Sento già l’obiezione: ma questo è formalismo e, alla fine, fondamentalismo. Non lo so. A me sembra coerenza. Mi sembra giusta considerazione per il sacro e il mistero. Ma da noi è così difficile parlare di sacro e di mistero. Da noi, per esempio, nella liturgia tutto deve essere mostrato, spiegato, illustrato, compreso, digerito. Ma che cos’è l’azione liturgica senza mistero? A che cosa si riduce il sacro se tutto lo sforzo è didascalico? Il sacro non è in larga parte indicibile?

Sento già l’altra obiezione: ma questi sono discorsi preconciliari! Non lo so. A me sembra che da questo fratello d’Oriente mi stia arrivando una lezione salutare, sulla quale sto meditando seriamente.
In secondo luogo mi ha colpito il costante riferimento al giudizio del Signore. In una spiritualità come la nostra, ormai dominata dall’idea di misericordia come vaga consolazione, sentir parlare di nuovo del giudizio divino, e dunque del timor di Dio, è qualcosa che fa pensare. Da noi certe espressioni sono andate quasi perdute, perché la nostra spiritualità è impregnata di sentimentalismo: la fede come una terapia a scopo riabilitativo, il rito come un’esperienza emotiva, la preghiera, quando c’è, come esercizio utile al benessere psicofisico. Per cui l’idea di giudizio, così scomoda perché può anche inquietare e, sì, spaventare, è meglio emarginarla, offuscarla, lasciarla un po’ sullo sfondo, come il residuo di un passato dal quale ci si è finalmente liberati. E invece questo monaco ortodosso l’ha costantemente al centro della sua vita spirituale: tutto si fa in un certo modo, tutto si vive in un certo modo, tutto si pensa e si dice in un  certo modo perché si è giudicati già ora e perché saremo giudicati in via insindacabile e definitiva nell’aldilà. È spaventoso? Non lo so. A me sembra che sia grandioso. Che renda l’uomo grande e importante.

In terzo luogo mi ha colpito la richiesta di non restare sempre fanciulli nella fede. E anche qui il contrasto con la nostra spiritualità è forte. Da noi man mano che si è persa la dimensione del giudizio si è parallelamente incrementata quella della giustificazione, intesa come scusante, come discolpa, come difesa. Per ogni comportamento non in linea con la dottrina, morale o di altro tipo, ecco la scappatoia, ecco il tentativo di comprendere e, appunto, giustificare. Proprio come si fa (ma non si dovrebbe esagerare nemmeno con loro) quando si tratta con i bambini piccoli. Anzi, la dottrina stessa è piegata a questo fine: è bene che sia più flessibile, così da non impensierire nessuno, così da non turbare i nostri equilibri tanto fragili. Ma nella vita di fede non si può restare sempre piccoli nel senso di non sviluppati, di inconsapevoli, di incoscienti. Occorre crescere, proprio come nella vita fisica e affettiva. E per crescere ci vuole l’impegno, ci vuole lo studio, ci vuole l’applicazione, ci vuole la volontà. Altrimenti si resta fermi al sentimentalismo, altrimenti ci si costruisce una fede vaga, a propria misura.

E qui vengo all’ultimo punto: Dio come fine e misura, Gesù come via per la salvezza. Il monaco dice: concentra tutta la tua attenzione sul sacro nome di Cristo, perché è Lui la strada che porta a Dio e alla salvezza. Quindi ripeti spesso: Signore, abbi pietà di me, peccatore. Anche qui la misericordia divina è ben presente, ma non come gentile concessione che raggiunge, a pioggia, un po’ tutti, come elargizione vaga, benevola e comprensiva, bensì come dono, per la precisione dono di salvezza (il più grande, il più decisivo), per chi invoca pietà in quanto si riconosce peccatore! Il monaco suggerisce di esclamarlo a voce alta: Signore, Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me, peccatore. Ripeterlo non farà mai male.

In poche parole, mi sto confrontando con una spiritualità al cui centro c’è Dio, non l’uomo. E c’è l’anima, non lo stato psicofisico. Giusto? Sbagliato? Ognuno può fare le proprie valutazioni.
Per quanto mi riguarda, è come riscoprire un tesoro rimasto a lungo velato, in un angolo. Sapevo della sua esistenza, sapevo che da qualche parte qualcuno l’aveva conservato. Ed ecco che ora, attraverso una via d’Oriente, inaspettatamente e immeritatamente, con semplicità e umiltà, ricevo una parola che mi aiuta a svelarlo. Un miracolo. Nel senso etimologico del termine: qualcosa di cui  meravigliarsi. E quindi qualcosa per cui ringraziare.

Aldo Maria Valli







http://www.aldomariavalli.it/2016/09/05



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