domenica 17 luglio 2016

Il ‘pastoralismo’, malattia infantile del catto-pietismo

 


di Gianfranco Amato

Nell’attuale desolante panorama del mondo cattolico è davvero raro, purtroppo, trovare voci coraggiose e intelligenti. Una di queste è senz’altro quelle di Stefano Fontana, direttore dell’Osservatorio internazionale Cardinale Van Thuan sulla Dottrina sociale della Chiesa.
Rileggevo qualche giorno fa un suo splendido intervento pubblicato sulla Nuova Bussola Quotidiana lo scorso gennaio, dal titolo “Il ‘pastoralismo’, malattia infantile del catto-pietismo”. Con malinconica tristezza ho dovuto rilevarne la drammatica verità e, soprattutto, la cocente attualità, a seguito dell’approvazione definitiva della legge sul simil-matrimonio omosessuale. Fontana ha avuto l’indubbio coraggio di dare un nome e cognome a quella grave patologia cui è affetta oggi la Chiesa italiana, e che rappresenta la causa principale della sua odierna paralisi. In questo, ha seguito l’insegnamento di San Giovanni Paolo II, per cui «occorre avere più che mai il coraggio di guardare in faccia alla verità e di chiamare le cose con il loro nome, senza cedere a compromessi di comodo o alla tentazione di autoinganno» (EV n.58). Sante parole, oggi quasi completamente dimenticate soprattutto “intra Ecclesiam”.
La malattia che Stefano Fontana denuncia si chiama “pastoralismo”.
Dieci sono i suoi effetti diretti e collaterali. Tutti devastanti.

  1. Il pastoralismo ha fatto dire a tanti vescovi e sacerdoti che le manifestazioni di piazza rompono il dialogo e non costruiscono.
  2. Il pastoralismo ha fatto pensare a molti che non bisogna più intervenire sulle leggi, ma solo sulle coscienze delle persone.
  3. Il pastoralismo ha fatto pensare che la Chiesa debba solo formare – chissà poi chi, dove e come –, per lasciare, poi, che ognuno possa entrare nella pubblica piazza con la propria coscienza.
  4. Il pastoralismo ha fatto ritenere a tanti preti che la Chiesa non debba dire mai di no, ma piuttosto accompagnare tutti e sempre.
  5. Il pastoralismo ha fatto credere che una presa di posizione contro l’omosessualità toglierebbe spazio alla pastorale delle situazioni di frontiera, tra cui quella delle persone con tendenze omosessuali. 
  6. Il pastorialismo ha fatto ritenere che scendendo sul terreno delle leggi civili la fede cattolica diventi ideologia.
  7. Il pastoralismo ha impedito a tante comunità cattoliche di trattare certi temi, perché troppo carichi di valenze politiche e quindi potenzialmente divisivi.
  8. Il pastoralismo ha indirizzato tante Diocesi a trattare certi temi, ma con l’intervento di tutte le opinioni in campo e senza prendere posizione.
  9. Il pastoralismo, col pretesto di non precludere la via dell’azione pastorale, ha bloccato ogni azione, rendendo, di fatto, la Chiesa molto pastorale, ma per questo afasica e aprassica.
  10. Il pastoralismo ha fatto credere che non solo noi, ma anche Dio debba astenersi dal giudicare le situazioni e i comportamenti, perché giudicando impedirebbe l’incontro pastorale con tutti. Al punto che – come giustamente sottolinea Fontana – nemmeno una legge si può giudicare, perché in questo caso la fede diventerebbe dottrina imposta e impedirebbe la pastorale: giudicata male una legge, ti tagli i rapporti con coloro che invece in quella legge credono. Ma in questo modo si evidenzia in maniera inequivocabile che «il pastoralismo è senza verità, perché senza giudizio non c’è più verità».
Senza alcuna possibilità di giudizio, – ha spiegato perfettamente Stefano Fontana – il pastoralismo si riduce ad «un sentimento, un atteggiamento agnostico, un prendere posizione senza prendere posizione», in ultima analisi ad «un inganno». Prosegue il direttore dell’Osservatorio Van Thuan: «La Chiesa italiana si sta spostando da una presenza strutturata, a partire da un bagaglio di visioni delle cose, con alle spalle un patrimonio dottrinale anche nella forma di dottrina sociale della Chiesa e con davanti un progetto culturale, ad una presenza destrutturata, immediata, priva di distinzioni di piani, fondata su un lodevole slancio di carità e di voglia di incontrare l’altro, ma priva ormai della volontà di incontrarlo all’interno di una costruzione del bene comune, complessa ed articolata».

E a questo punto non possiamo non fare nostra la domanda che si pone lo stesso Fontana: «Delle istituzioni ce ne occupiamo ancora? E delle leggi? E della politica? Trasformiamo tutta la Chiesa in una Caritas o ricominciamo a insegnare e ad apprendere la dottrina sociale della Chiesa, che ci dia una cultura del sociale e del politico, un quadro dottrinale e teorico in grado di orientare al bene la nostra presenza, non solo nella solidarietà dei bisogni dei senzatetto – vera ma corta - ma anche in quella lunga della vita, della famiglia e della scuola? La Chiesa italiana vuole solo andare tutta a portare le bevande calde a chi dorme all’addiaccio di notte? Vuole andare tutta a Lampedusa? O vuole ancora costruire una società secondo verità e per il bene dell’uomo?».

Mi chiedo come si possa non condividere una simile lucida, puntuale e ineccepibile considerazione. Lo chiedo, innanzitutto, a tanti parroci che conosco. Per andare a portare una bevanda calda e una coperta a chi dorme all’addiaccio di notte – riprendo le parole di Fontana – la Chiesa non serve, mentre essa serve, eccome, per prevenire quelle situazioni. E ciò significa – conclude Fontana – anche «occuparsi delle strutture, delle istituzioni, delle leggi ed avere una visione complessiva e coerente delle cose, mentre il pastoralismo odia le visioni complessive e coerenti delle cose e dice che non si addicono ai cattolici, sanno troppo di “sistema” che avrebbe così la prevalenza sulle persone». E questo perché «per il pastoralismo esistono solo casi unici e singolari, da affrontare uno per uno, con discernimento, come è in voga dire oggi».

Il pastoralismo denunciato da Fontana ricorda in modo impressionante la tragica esperienza della “scelta religiosa” dell’Azione Cattolica di Alberto Monticone negli anni ’80 del secolo scorso.
Quella scelta, che si rivelò presto sciagurata, fu duramente condannata e contrastata dal mio Maestro don Luigi Giussani. Ricordo ancora la sua magistrale lezione sul punto:

«Non possiamo essere nella società reagendo soltanto quando la contraddizione è troppo forte. È ciò a cui si è rassegnata molta cristianità italiana, essendoci nella società, cercando di esserci nella società soltanto quando è chiamata alle elezioni (ogni cinque anni). Certo cattolicesimo italiano non ha fatto nient’altro che questo - niente altro che questo! -, gestendo voti in modo scervellato, senza intelligenza e senza cuore, vale a dire senza una identità capace di progetto: tutto è stato sperperato e adesso si teorizza la scelta religiosa, per cui non dovremmo più interessarci della politica come cristiani». «D’altra parte», concludeva Giussani, «se noi reagiamo soltanto quando la contraddizione è troppo forte, se dovessimo aspettare a reagire quando, come dire, ci chiamassero tutti in tribunale per le nostre convinzioni religiose, se dovessimo aspettare solo quando la contraddizione è così forte, saremmo realmente indegni di respirare e di vivere».

Si sente davvero la mancanza, oggi, di Maestri così.






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