lunedì 4 aprile 2016

A proposito di gesuiti




 
Padre Giovanni Scalese
 2 aprile 2016

Nei giorni scorsi il Padre Giovanni Cavalcoli ha pubblicato sulla rivista telematica L’Isola di Patmos un interessantissimo articolo su “La Compagnia di Gesú nella Chiesa d’oggi: ascesa e caduta di un grande Ordine”. Padre Cavalcoli si riallaccia alle conclusioni di un libro del gesuita Antonio Caruso, che individua l’origine della crisi della Compagnia nell’influsso che hanno esercitato su di essa il marxismo, la massoneria e il modernismo. Secondo il Domenicano, a questi influssi ne va aggiunto un altro, piú insidioso, il pensiero di Karl Rahner:


«Cosí è successo che, mentre, tutto sommato, la Compagnia nel suo insieme, dopo l’infelice superiorato del Padre Pedro Arrupe, è riuscita a frenare o sta frenando la tentazione marxista, massonica, luterana e modernista, il rahnerismo, purtroppo, l’ha invasa, sicché attualmente esso si presenta come il maggior fattore di disordine e di indisciplina all’interno della Compagnia, di tradimento del carisma ignaziano, di disobbedienza alla Chiesa, di falso progresso e di grave danno per le anime» (pp. 7-8).


Devo dire che non ci avevo mai pensato; Padre Cavalcoli, che di Rahner è profondo conoscitore (nel 2009 ha pubblicato per Fede & Cultura il volume Karl Rahner. Il Concilio tradito), non ha avuto difficoltà a individuare questo virus che ha infettato l’organismo della Compagnia. Io non potevo accorgermene semplicemente perché — non ho vergogna ad ammetterlo — non conosco Rahner. Ricordo che durante i miei studi teologici (fatti alla scuola dei Domenicani, dove Rahner era pressoché ignorato), un giorno decisi di comperare il suo Corso fondamentale sulla fede. Beh, vi sembra normale che in una pagina non ci sia un punto? Ma, a parte questo aspetto — su cui, se il discorso risultasse scorrevole e chiaro, si potrebbe soprassedere — il problema era che si trattava di un testo pressoché incomprensibile. Io ho sempre seguito nei miei studi una norma pratica che si è rivelata molto utile: quando leggo un testo e non lo comprendo immediatamente, mi dico: “Eri distratto”. Lo leggo quindi una seconda volta, con piú attenzione; se non lo capisco ancora, mi dico: “Evidentemente è un po’ difficile”. Lo leggo perciò una terza volta; se anche questa volta non riesco a comprenderlo, concludo: “Il problema non è mio, ma dell’autore, che è incapace di farsi comprendere”. A questo punto chiudo il libro senza complessi, per passare a qualcosa di piú interessante.


Vorrei qui condividere con i lettori la mia personale esperienza della Compagnia di Gesú. Dopo gli studi filosofici e teologici del corso istituzionale, svolti all’Angelicum, per la licenza (in teologia biblica) passai alla Gregoriana, perché in tal modo avrei avuto la possibilità di frequentare anche i corsi del Biblico. Tra i due ambienti, quello domenicano e quello gesuitico, preferivo mille volte il primo, sia perché piú familiare, sia soprattutto perché caratterizzato da una precisa identità intellettuale (all’Angelicum si insegnano la filosofia e la teologia di San Tommaso). Però non mi sono mai pentito della mia scelta, perché alla Gregoriana e al Biblico ho avuto modo di incontrare docenti di eccezionale levatura (Lyonnet, Vanhoye, Alonso-Schökel, Vanni, ecc.). Nel 1981, quando Giovanni Paolo II “commissariò” l’Ordine con la nomina di Padre Dezza come Delegato pontificio, io ero lí: rimasi impressionato dallo spirito di leale sottomissione con cui i gesuiti accettarono la decisione papale; non udii mai una sola parola di critica.


In quello stesso anno, in preparazione all’ordinazione sacerdotale, feci la mia prima esperienza di esercizi ignaziani; fu un’esperienza “scioccante”, ma decisiva: capii che quelli, e non altri, erano i veri esercizi spirituali; da allora in poi, per quanto è dipeso da me, ho scelto sempre e solo esercizi ignaziani, anche perché sono del parere che ciascuno debba fare il suo mestiere. Nel 1993 ebbi anche la grazia di fare l’intero “mese” a Galloro: una di quelle esperienze che lasciano il segno. In questi ultimi anni però, pur dovendo riconoscere una persistente serietà dei predicatori, ho riscontrato un certo scadimento della loro preparazione. D’altra parte, la cosa non deve meravigliare piú di tanto: un tempo si diventava gesuiti dopo un lungo tirocinio e svariati anni di studio, oggi molti entrano nella Compagnia a età inoltrata ed è inevitabile che gli studi, per quanto seri, siano necessariamente abbreviati.


La situazione attuale della Compagnia è drammatica: i numeri, riportati anche da Padre Cavalcoli, sono di per sé eloquenti (36.000 nel 1964; meno di 17.000 nel 2015); ma non danno una visione completa, trattandosi di valori assoluti: se si va a considerare la situazione localmente, essa apparirà ancora piú grave. Si pensi all’Italia: i grandi collegi che avevano un tempo i gesuiti e che hanno formato generazioni di VIP, che fine hanno fatto? Se non erro, fra quelli rimasti, solo due (Roma e Palermo) hanno ancora un Rettore gesuita; tutti gli altri sono ormai gestiti direttamente da laici, con la supervisione di un unico religioso a livello nazionale. Le stesse case di esercizi (la predicazione degli esercizi spirituali dovrebbe essere la missione specifica della Compagnia) sono ormai in mano ai laici; i religiosi ci vanno solo per tenere il loro corso. Le chiese resistono (non dappertutto: a Firenze non c’è piú alcuna presenza gesuitica) e continuano a offrire il prezioso servizio delle confessioni; ma questo avviene grazie a religiosi di età notevolmente avanzata.


In questi anni, la mia consuetudine con i gesuiti mi ha portato a fare una personale riflessione sulla Compagnia, che potrebbe in qualche modo aiutare a comprendere anche la sua attuale crisi. La condivido con voi, senza alcuna pretesa di esaustività, pienamente consapevole che chiunque potrebbe criticarla, integrarla o smentirla. All’origine della Compagnia di Gesú c’è l’esperienza mistica di Sant’Ignazio di Loyola. Un’esperienza straordinaria, ma che, come tutte le esperienze spirituali, è soggettiva. Tale esperienza è confluita negli Esercizi spirituali, perché ciascuno potesse a sua volta ripeterla. Che cos’è che ha garantito l’autenticità dell’esperienza ignaziana e che cos’è che permette a chiunque faccia gli esercizi spirituali di non cadere nel soggettivismo? La sottomissione a quella che Ignazio chiama la “santa madre Chiesa gerarchica”. Non vorrei essere categorico, ma mi sembra che il capitolo piú importante degli Esercizi spirituali siano le diciotto “Regole per sentire con la Chiesa”, che si trovano alla fine dell’aureo libretto (nn. 352-370). Basti qui ricordare un paio di regole di carattere generale (le altre sono tutte su punti specifici):


«Prima regola. Messo da parte ogni giudizio proprio, dobbiamo avere l’animo disposto e pronto a obbedire in tutto alla vera sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa madre Chiesa gerarchica» (n. 352);


«Tredicesima regola. Per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro che diede i dieci comandamenti» (n. 365).


Si tenga presente che per i gesuiti questa sottomissione alla “santa madre Chiesa gerarchica” si traduceva poi concretamente nel quarto voto di totale obbedienza al Papa. Da una parte l’esperienza mistica (non solo quella di Ignazio, ma quella di ciascun gesuita) e dall’altra la sottomissione alla Chiesa hanno permesso per quattro secoli alla Compagnia di Gesú di svolgere con grande frutto il suo servizio ecclesiale, pur con i limiti che qualsiasi attività umana inevitabilmente comporta. È ovvio che nel momento in cui uno dei due elementi (la sottomissione alla Chiesa) si è affievolito, l’altro elemento (l’esperienza mistica), abbandonato alla sua soggettività, ha preso il sopravvento, con le conseguenze disastrose che sono sotto gli occhi di tutti.


La Chiesa ha sempre raccomandato, specialmente alle persone consacrate, la riflessione sulla parola di Dio, dapprima attraverso la lectio divina, successivamente attraverso l’orazione mentale. Ma ha sempre pure ammonito di interpretare la Scrittura alla luce della tradizione della Chiesa. Basti pensare all’Officium lectionis della Liturgia delle Ore: dopo la prima lettura, biblica, c’è sempre una seconda lettura, patristica, come a dire: medita pure liberamente sulla parola di Dio, ma fallo tenendo conto della comprensione che ne ha avuto attraverso i secoli la Chiesa. Se cosí non fosse, se si slegasse la Scrittura dalla tradizione, si cadrebbe nel “libero esame” di luterana memoria. Ed è esattamente ciò che è avvenuto negli ultimi anni a molti gesuiti, i quali pensano che, per conoscere la volontà di Dio, sia sufficiente fare orazione su un brano della Scrittura e “sentire” che cosa ci suggerisce lo Spirito.


Per terminare, permettetemi di fare una postilla alla pregevole trattazione di Padre Cavalcoli. Verso la fine del suo articolo, per far emergere le radici filosofiche del pensiero di Karl Rahner, fa riferimento al tentativo di Padre Joseph Maréchal di conciliare San Tommaso con Kant (pp. 15-17). Fa questo riferimento dopo aver accennato brevemente alla “rinascita tomista” del XIX secolo (pp. 14-15), quando la Chiesa, soprattutto attraverso l’opera di Leone XIII, ridiede impulso al tomismo, dopo secoli di oblio. Padre Cavalcoli riassume cosí, in maniera schematica ma efficace, la situazione:


«Con la fine del XIX secolo appariva sempre piú evidente la necessità che la Chiesa non si limitasse a riaffermare i valori essenziali e perenni, ma affrontasse coraggiosamente anche il mondo moderno, resosi assai ostile alla Chiesa … Il Concilio Vaticano I aveva riaffermato e difeso i valori [cristiani] e condannati gli errori della modernità. Ma adesso occorreva anche fare attenzione ai valori della modernità, che erano maturati dopo la fine del Medioevo. E fu cosí che nacque il modernismo. L’istanza era giusta. Ma purtroppo i modernisti si lasciarono ingannare dagli errori della modernità per la mancanza di un adeguato criterio di discernimento, che avrebbe dovuto essere il tomismo. Ma pensarono che San Tommaso fosse superato. Cosí, per valutare la modernità, utilizzarono gli stessi criteri errati che erano offerti dalla modernità» (p. 15).


Ebbene, personalmente ritengo che proprio allora furono commessi gli errori di cui ancora oggi stiamo pagando le conseguenze. E non mi riferisco solo agli errori dei modernisti, ma anche a quelli della Chiesa. Quale fu l’errore della Chiesa? Esattamente quello di riproporre un tomismo incapace di dialogare con la modernità. Giustamente, Padre Cavalcoli fa notare che «il dibattito era soprattutto attorno a Kant» (p. 15). Ma San Tommaso non poteva rispondere a Kant, semplicemente perché vissuto cinque secoli prima. Perciò si comprende il tentativo, fallito, di Padre Maréchal di conciliare San Tommaso con Kant. Non ci si rese conto allora — ma forse molti non si rendono conto neppure oggi — che quel tentativo era già stato fatto, con ben altri risultati, dal Beato Antonio Rosmini. Il filosofo roveretano aveva studiato l’Aquinate, quando ancora le sue opere giacevano coperte di polvere nelle biblioteche, e tenendo conto dei contributi della filosofia moderna, aveva sviluppato la philosophia perennis per renderla atta al confronto con la modernità. Rosmini aveva offerto alla Chiesa gli strumenti intellettuali per dialogare col mondo moderno; ma la Chiesa non colse quella opportunità: soprattutto attraverso i gesuiti ricordati da Padre Cavalcoli nel suo articolo (p. 14), perseguitò e condannò l’uomo che la Provvidenza le aveva donato e preferí proporre una filosofia di laboratorio (il “neotomismo” o la “neoscolastica”), incapace di affrontare le sfide della modernità. E cosí abbiamo avuto il modernismo, Maréchal, Rahner… e oggi, dopo un secolo e mezzo, la Chiesa, priva com’è ancora di un “pensiero forte” da contrapporre al “pensiero debole” dominante, rischia di soccombere definitivamente alla modernità.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

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