venerdì 4 marzo 2016

LA STORIA INSEGNA: LE GRANDI CIVILTA' CADONO QUANDO NON SI FANNO PIU' FIGLI



 
   Domenico Bonvegna
  
Qualche anno fa è uscito in Francia un interessantissimo libro dello storico Michel De Jaeghere, “Gli ultimi giorni. La caduta dell'Impero romano d'Occidente” (Les Belles Lettres, Parigi 2014), un bel tomo di oltre seicento pagine che continua a far discutere negli ambienti più diversi, talora con toni molto accesi. Purtroppo in Italia ancora non è stato tradotto e pubblicato da nessuna casa editrice.
 
Ma perché appassionarsi tanto alla caduta dell'Impero romano? E' una domanda che si è posto in un editoriale il professore Massimo Introvigne, sociologo torinese, su LaNuovaBQ.It del 23 febbraio 2015. Certamente si tratta di uno degli eventi più importanti della storia universale. Ma in realtà il dibattito francese è divenuto attuale e rapidamente politico, perché le vicende finali dell'Impero romano ricordano da vicino - lo aveva del resto già notato Benedetto XVI - quelle di un'altra civiltà che sta morendo, la nostra.
 
Innanzitutto De Jaeghere ripete quello che è ovvio per gli storici accademici: l'Impero romano non è caduto per colpa del cristianesimo. Anzi i cristiani, che sono il dieci per cento all'inizio del quinto secolo, saranno loro che cercano di mantenere in vita Roma e la sua cultura, con vescovi e intellettuali come Ambrogio e Agostino ma anche con generali che si battono fino allo spasimo per difendere l'Impero, come Stilicone ed Ezio, e con tanti soldati cristiani protagonisti di fatti d'arme eroici.
 
Allora qual è il motivo della caduta dell'immenso impero? Ancora oggi gli storici discutono sulla sua caduta, si rileva qualche cautela sulla categoria di “decadenza”, ma sono molti quelli che attribuiscono la caduta dell'Impero a cause ideologiche. Tuttavia per De Jaeghere la caduta dell'impero è un “processo”. E anche senza citarlo, ha la stessa idea di Benedetto XVI,“[...]lo storico francese identifica come causa principale che sta all'origine del processo la denatalità. Il controllo delle nascite presso i romani non ha i mezzi tecnici di oggi, ma dilagano l'aborto e l'infanticidio, e aumenta il numero di maschi adulti che dichiarano di volere avere esclusivamente relazioni omosessuali. Il risultato è demograficamente disastroso: Roma passa dal milione di abitanti dei secoli d'oro dell'Impero ai ventimila della fine del quinto secolo, con una caduta del 98%.[...]le campagne sono meno sicure, ma dal trenta al cinquanta per cento degli insediamenti agricoli sono abbandonati negli ultimi due secoli dell'Impero, non perché non siano più redditizi ma perché non c'è più nessuno per coltivare la terra”.(M. Introvigne, “Denatalità, tasse, immigrazione. Ecco perché finiremo come l'Impero Romano”, 23.2.15, LaNuovaBQ.it)
 
In pratica “meno popolazione significa meno produttori e meno soggetti che pagano le tasse”. Così anche l'Impero romano fa quello che hanno o stanno facendo i nostri Stati moderni, compresa l'Italia:“ Aumenta le tasse, fino ad ammazzare l'economia”, ma così si ottiene l'effetto contrario, più aumentano le tasse e meno si incassa, “perché molti vanno in rovina e non pagano più nulla”.
 
Ad un certo punto si è cercato di risolvere la questione della denatalità accrescendo la natalità degli schiavi, ma “gli schiavi, però, non pagano tasse, lavorano in modo poco zelante e non hanno alcun interesse a difendere in armi i loro padroni attaccati”. Tuttavia se gli schiavi non risolvono i problemi, l'altra misura cui gli Stati e gli imperi ricorrono di solito per ripopolare i loro territori è la massiccia immigrazione. Infatti dal 376 al 411, facilitati dal sistema, un milione di barbari tra immigrati, rifugiati o deportati, entrano nei territori dell'impero.
 
Naturalmente anche l'esercito romano comincia a soffrire la penuria di uomini, a questo punto, fatalmente, si prende la decisione di reclutare gl'immigrati, snaturando la composizione delle legioni. Su un esercito di circa mezzo milioni, più della metà sono di origine germanica.
 
“È vero, - scrive Introvigne - sono «barbari» in maggioranza i legionari, ma sono romani i comandanti e romani gli imperatori da cui prendono ordini. Senonché a un certo punto i «barbari» si rendono conto appunto di essere la maggioranza dei soldati, la maggioranza di coloro che faticano e muoiono. Perché dovrebbero farsi comandare dai romani? Così, alla fine, uccidono i generali romani e li sostituiscono con uomini loro, si uniscono agli invasori etnicamente affini anziché respingerli e, nell'atto conclusivo, marciano su Roma e pongono fine all'Impero”.
 
E qui in pratica ha ragione lo storico accademico francese Renè Grousset, citato da De Jaeghere:“nessuna civiltà[...]viene distrutta dall'esterno senza essere prima caduta essa stessa, nessun impero viene conquistato dall'esterno se non si è prima suicidato. E una società, una civiltà, non si distrugge con le sue mani se non quando ha cessato di comprendere la sua ragion d'essere, quando l'idea dominante attorno a cui essa fu in origine organizzata diviene come estranea. Tale fu il caso del mondo antico”(p. 555).
 
Come non pensare alle due virtù della fides e della pietas, i due pilastri della cultura romana che avevano dato ai romani l'energia vitale per sopravvivere e perpetuarsi. “Fides e pietas: la caduta dell'impero non si deve forse al fatto che i romani si erano allontanati da entrambe le virtù fondatrici?”.  
 
Comunque sia le analisi  delle sequenze della caduta di Roma, che vanno dalla denatalità alla persecuzione fiscale dei cittadini, dallo statalismo dell'economia e all'immigrazione non governata, possono non piacere a qualcuno, perchè assomigliano molto al nostro presente, naturalmente con tutte le cautele necessarie.
Infatti,“ a De Jaeghere è stato opposto che l'immigrazione è una risorsa, che gli imperatori avrebbero dovuto valorizzare, e che il vero problema fu la loro incapacità di pensare l'Impero in termini nuovi e multiculturali, non l'aumento degli immigrati. È evidente che queste obiezioni «politicamente corrette» nascono dal timore del paragone con l'Europa di oggi, paragone cui lo stesso De Jaeghere non si sottrae, pur invitando alla cautela”.
Dunque a Roma è venuto meno il tasso di natalità che sosteneva l'Impero, con conseguenze a cascata sull'economia e la difesa.“Ma perché questo avvenne? Perché a un certo punto i romani scelsero la strada di quello che, con riferimento all'Europa dei giorni nostri, San Giovanni Paolo II avrebbe chiamato «suicidio demografico»?
 
E' andata proprio così, la nuova elite romana è più interessata ai piaceri che alla difesa dell'Impero, che considera comunque eterno e invincibile. E comincia a non fare figli: tutte le famiglie tradizionalmente aristocratiche dell'epoca di Gesù Cristo si estinguono prima del 300 d.C. tranne una, la gens Acilia, che si converte al cristianesimo. L'esempio delle classi dirigenti, come sempre accade, fa proseliti. La moda del figlio unico, o di nessun figlio, arriva fino alla plebe.
Infatti nota lo storico archeologo britannico Bryan Ward-Perkins,“i romani erano sicuri quanto lo siamo noi oggi che il loro mondo sarebbe continuato per sempre senza sostanziali mutamenti. Si sbagliavano. Noi saremmo saggi a non imitare la loro sicumera”.
 
Le lezioni che possiamo ricavare dallo studio del libro di De Jaeghere sono tante, per meglio comprendere è opportuno lasciare le conclusioni al professore Introvigne:

“Con tutte le cautele che richiede ogni paragone fra epoche diversissime, la caduta di Roma mostra come grandi civiltà possano finire, e che il modo della loro fine normalmente è demografico. Gli imperi cadono quando non fanno più figli, e la denatalità innesca una spirale diabolica di tasse insostenibili, statalismo dell'economia, immigrazione non governata ed eserciti imbelli. Per capire la pertinenza della parabola romana rispetto ai giorni nostri non servono troppi libri, basta aprire le finestre e guardarsi intorno”. Incalza Introvigne, Su un punto, peraltro, i critici di De Jaeghere hanno qualche ragione. Gli immigrati e gli invasori di Roma avevano un vantaggio rispetto a immigrati e «invasori» di oggi. In gran parte germanici, non erano portatori di una cultura forte. Riconoscevano la superiorità della cultura romana: cercarono di appropriarsene e finirono anche per convertirsi al cristianesimo. Attraverso secoli di sangue, sudore e fatica la caduta dell'Impero romano d'Occidente prepara così la cristianità del Medioevo. Oggi gli immigrati e gli «invasori» -invasori tramite l'economia, o aspiranti invasori in armi come il Califfo - sono portatori di un pensiero fortissimo, sia quello islamico o quello cinese: non pensano di dovere assimilare la nostra cultura ma vogliono convincerci della superiorità della loro. La crisi che potrebbe seguirne potrebbe essere ancora più letale di quanto fu per l'Europa la caduta di Roma. Per questo, discutere sulle ragioni della caduta dell'Impero romano d'Occidente non è un puro esercizio intellettuale”.


Quinto de Stampi MI, 27 febbraio 2016
S. Gabriele dell'Addolorata  
 
 
 
 
 
 
                                                                         
                                                                                                               

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