domenica 6 marzo 2016

La Domenica “Laetare”

           
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Mattia Rossi
 
La IV domenica di Quaresima, comunemente detta “Domenica Laetare” dalla prima parola dell’introito, negli antichi manoscritti era denominata “Dominica ad Hierusalem” o “Dominica statio ad Hieruslem” a motivo del fatto che la stazione di questa domenica era presso la basilica romana di Santa Croce in Gerusalemme.
 
Per comprendere il motivo di questa stazione, oltre alla citazione di Gerusalemme nell’introito, nel tratto e nel communio, bisogna risalire – come, del resto, siamo stati abituati a fare anche nelle domeniche precedenti – ai testi dell’Ufficio. Nel breviario di questa settimana, dopo Giacobbe (nella II domenica) e Giuseppe (nella III), si presenta la figura di Mosè che, dopo aver liberato il popolo d’Israele dalla schiavitù d’Egitto e avergli fatto attraversare illeso il Mar Rosso, dona ad essi la manna conducendolo verso la terra promessa dove un giorno sorgerà la Gerusalemme destinata ad accogliere “le tribù del Signore” (communio).
 
E’ in questa chiave ‘redentiva’ che va letto, dunque, il Proprium di questa domenica: come Mosè liberò il popolo di Dio dalla schiavitù dei carcerieri facendolo attraversare il Mare Rosso, lo nutrì con la manna del deserto e lo condusse a Gerusalemme, così il nuovo Mosè/Cristo ci libererà i suoi figli dalla schiavitù del peccato e della morte con la sua Risurrezione, ci farà rinascere nel lavacro battesimale e donandosi a noi come nuovo pane ci condurrà nella Gerusalemme celeste. Da qui deriva l’invito a rallegrarsi – Laetare – dell’introito e che colora tutta la liturgia della IV domenica di Quaresima.
 
E’ nella Gerusalemme, infatti, nella Chiesa di Cristo, e in vista della sua ‘conquista’, che è insita la gioia che contraddistingue questo giorno: dall’immediatezza cromatica dei paramenti non viola ma rosacei, fino a quella sonora del gioioso introito in V modo, quello definito dai teorici laetus, lieto: “Laetare, Ierusalem, et conventum facite omens qui diligitis eam: gaudete cum laetitia, qui in tristitia fuistis: ut exsultetis, et satiemini ab uberibus consolationis vestrae” (Rallegrati, Gerusalemme, accorrete voi tutti che l’amate: rallegratevi con letizia voi che eravate tristi, esultate e saziatevi alla fonte della vostra consolazione).
 
Una gioia, quella postulata dal canto gregoriano – anzi, una ‘lietezza’ – che prosegue nel tractus Qui confidunt: nella sua composizione musicale, infatti, segue precisamente il modello dei cantici della Veglia Pasquale di VIII modo. Di nuovo, un atteggiamento per nulla casuale e, anzi, retorico: il gregoriano instaura, attraverso un medesima melodia, un legame diretto tra la gioia pregustata della IV di Quaresima e incarnata dal nuovo Mosè/Cristo e la gioia piena e perfetta della Pasqua.
 
I richiami alla Pasqua, lo abbiamo visto, si sono spalmati nel corso delle precedenti domeniche, ma il ponte instaurato tra il tractus di questa domenica e quelli della Veglia, con sempre ben presenti sullo sfondo i simbolici paralleli tra Mosè e Cristo, è una chiara ed esplicita esegesi che, come ormai siamo abituati a notare, costituisce la primaria essenza e natura del canto gregoriano.
 
 
 
 
 

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