mercoledì 21 ottobre 2015

Padre Rosario Stroscio, ultimo missionario dell’India: «Ho confessato Madre Teresa per 50 anni»

    

Madre  Teresa di Calcutta (Ansa)
 



di Aldo Cazzullo

Calcutta
 
Ma quali peccati aveva mai da confessare madre Teresa? «Siamo tutti peccatori. Don Bosco, padre di noi salesiani, che era un santo potentissimo, capace di guarire i moribondi e - se avesse voluto - di far morire i sani, si confessava ogni settimana. Madre Teresa avvertiva questa necessità più di rado, e mi confidava cose che ovviamente conosce e conoscerà solo il Signore. Parlavamo in inglese, perché lei non ha mai imparato l’italiano. Posso raccontare questo: quando madre Teresa si sentì prossima alla fine, e l’arcivescovo di Calcutta mi mandò a chiamare perché le impartissi l’estrema unzione, anche lei aveva timore di morire. E tremava. La morte è terribile per tutti. Anche lei che era una santa, che aveva visto morire migliaia di derelitti, che era certa della vita ultraterrena così come era certa che il sole sorge e tramonta, anche lei aveva timore. Non paura; trepidazione, ecco. Trepidazione di presentarsi davanti a Dio. Il bello fu che quella volta non morì...».

In un Paese un po’ più consapevole di se stesso di quanto non sia l’Italia di oggi, padre Rosario Stroscio sarebbe un eroe nazionale. L’ultimo, o uno degli ultimi, missionari cattolici ancora vivi e attivi in India, che da tempo ai missionari ha chiuso le frontiere. Le suore ne parlano come di un santo. Anche l’erede di madre Teresa, Mechthild Pierick, tedesca di Munster che qui a Calcutta ha assunto il nome indiano di Prema, Amata, dice che dobbiamo assolutamente andare a trovarlo, finché siamo in tempo: «Ha quasi 94 anni, e una storia straordinaria da raccontare. Abita qui vicino, nella chiesa che lui stesso ha costruito, dopo aver prosciugato una palude».
Padre Rosario Stroscio è un siciliano di Furnari, alle pendici dell’Etna. E’ quasi cieco da un occhio ma non ha perso un capello. Ha un abbraccio vigoroso e uno spiccato senso dell’umorismo. Oltre alla chiesa ha fatto erigere due statue ai santi della sua vita: don Bosco e madre Teresa, di cui è stato amico e confessore per oltre mezzo secolo. Ha anche costruito un campo da calcio, l’unico del quartiere dove i bambini giocano a piedi nudi sull’erba anziché sui sassi.

«Sono arrivato in India nel 1939, a 17 anni. In Sicilia vidi i missionari che avevano portato il vangelo nelle terre degli infedeli, sulle orme di san Tommaso: storie di malattie tropicali, conversioni, persecuzioni. I missionari erano gli eroi della mia giovinezza. Decisi che sarei stato uno di loro. Mia madre capì che non mi avrebbe più rivisto, e si disperò: stava per perdere un altro figlio maschio; il primogenito, Giuseppe, era morto, e dopo erano nate quattro bambine. Salpammo da Napoli sul Conte Biancamano, che in dieci giorni ci portò a Bombay attraverso il canale di Suez, il Mar Rosso e l’oceano. Eravamo poverissimi e allegri».




«Gli inglesi tenevano l’India con poche migliaia di soldati, quasi tutti indiani. Un capolavoro politico. Siccome convertire gli indù era difficile, ci mettemmo in cammino per i villaggi degli Adivasi, le popolazioni tribali animiste. Bisognava fare attenzione a uscire la sera perché c’erano ancora le tigri».
 
Il cristianesimo è una religione complessa: la trinità, la resurrezione della carne... come la spiegava agli indigeni?
 
«Il cristianesimo è difficile solo per quelli che hanno studiato troppo. E poi la resurrezione, l’immortalità dell’anima, la presenza stessa di Dio, che a noi appaiono così ostiche, qui sono considerate ovvietà. Il primo mese in venti chiesero il battesimo. Risposi che a Gesù si arriva poco per volta».

«Il 10 giugno 1940 il duce dichiarò guerra agli inglesi. Il giorno stesso mi portarono in campo di prigionia, vicino a Darjeeling. Il 4 dicembre 1942 fummo trasferiti presso Deoli, in Rajastan. Ci trattarono sempre con molto rispetto, ma a marzo nel deserto del Rajastan ci sono già quasi 50 gradi, e quando i prigionieri cominciarono a morire ci spostarono a Dehradun, ai piedi dell’Himalaya. Ci liberarono solo alla fine del novembre 1944, e potemmo riprendere la nostra missione. Ricordo la notte del ferragosto 1947: l’indipendenza, la divisione tra India e Pakistan, i massacri tra indù e musulmani; la gente festeggiava e intanto scorreva il sangue. Ricordo quando arrivò la notizia della morte di Gandhi. Il Paese fu travolto da un’ondata di dolore. Devo dire però che madre Teresa non aveva il mito di Gandhi; del resto non fu lui a liberare l’India, furono gli inglesi ad andarsene. Non dico che lo considerasse un fachiro seminudo, come lo definiva Churchill; ma lei non si interessava di politica».

«La vidi per la prima volta nella cattedrale di Calcutta, nel 1948. Aveva ottenuto di lasciare il convento per trasferirsi tra le baracche. Il suo direttore spirituale, il gesuita belga Van Exem, quel giorno la trattò quasi con disprezzo, e lei con umiltà non si ribellò. Andavo a predicare per le suore. Madre Teresa era molto intelligente, aveva un grande dono per le lingue. Ma era anche molto semplice. E poi aveva un bellissimo sorriso. Eravamo un’anima e un cuore solo: lei capì che io l’avevo capita; e io capii che lei aveva capito me. Andavo a trovarla nella sua celletta: una branda, un tavolo, una panca, e crocefissi dappertutto. Cercava il volto di Gesù negli altri, e lo trovava nei morenti, negli handicappati, negli orfani, nelle donne rese folli dal carcere o dalle violenze. Sulla sua tomba ha voluto che fosse scritto, con i petali dei fiori: “Io non faccio nulla, fa tutto Lui”».

«Fu attaccata per la sua condanna dell’aborto. In molti la criticavano; ma era impossibile restare indifferenti di fronte a lei. Una volta venne a intervistarla una giornalista americana, prevenuta, altera. Rifiutò di mettersi a piedi nudi. Il suono dei suoi tacchi a spillo risuonava per il convento. Madre Teresa la ricevette mentre toglieva i vermi dal corpo di un moribondo, raccolto all’angolo della strada. Alzò lo sguardo, la vide, le disse: “Abbia pazienza, alla mia età non vedo più bene. Mi aiuterebbe?”. La giornalista si buttò ai suoi piedi in lacrime. Madre Teresa le aveva toccato il cuore. Era davvero una santa».

«Ora per noi cattolici è sempre più dura. Da molto tempo non arriva nessun confratello, e devo farmi rinnovare il permesso ogni anno. Indira Gandhi, che ho incontrato, era autoritaria ma tollerante. Sua nuora Sonia ha tentato di far dimenticare di essere italiana. Ora il premier, Modi, è un induista radicale, e ci detesta».
 
Cosa prevede per il futuro?
 
«Nulla di buono. Come ha detto la Madonna, il mondo oggi è peggio che ai tempi di Noè e del diluvio, è peggio di Sodoma e Gomorra».
 
Ma abbiamo Papa Francesco.
 
«Non mi convince del tutto. Ha passato la vita in Argentina, una terra che conosco: dopo il mio addio mia madre ebbe un altro figlio, lo chiamò Giuseppe come quello che aveva perduto, e lui si trasferì in Argentina, dove andai a trovarlo. Il Paese è quasi sempre stato governato dalla massoneria. E il dio della massoneria è Lucifero».
 
Sa cosa dice Wikipedia di lei, padre?
 
«Wiky che?».
 
Un’enciclopedia digitale sostiene che lei è un esorcista. E che quando l’arcivescovo la mandò a chiamare lei forse praticò un esorcismo su madre Teresa, che come altre sante poteva essere visitata dal demonio...
 
«Io le ho impartito l’estrema unzione, e ho pregato con lei, per lei. Erano le 6 di sera. Madre Teresa si sentì un po’ meglio, e prodigiosamente si ristabilì. Era il 1997, aveva già 87 anni. Morì pochi mesi dopo. Quella volta non feci in tempo a giungere al suo capezzale».

«Raccogliemmo 133 testimonianze per la causa di beatificazione. Non fu difficile trovare il miracolo: almeno cinque donne sostenevano, confermate dai medici, di essere state guarite da lei in una sola notte».
 
Ogni tanto padre Rosario preferisce esprimersi in inglese: «Ormai non parlo più italiano con nessuno. Solo con il mio angelo custode, che però non mi risponde...In Italia non tornerò più. Ci sono stato l’ultima volta nel 2003, per la beatificazione di madre Teresa. E’ diventata una terra senza moralità. Accogliere tutti questi maomettani mi pare poco lungimirante: verrà il giorno in cui abbevereranno i loro cavalli a San Pietro. Ma sa cosa mi ha colpito di più? Vedere tante donne girare con il gatto in braccio, come se fossero figli. La Sicilia in cui sono cresciuto era di una povertà medievale, però le donne avevano molti figli. Un Paese che ha sostituito i bambini con i gatti è un Paese senza domani. Ma io il domani non lo vedrò, e questo mi conforta. Sono felice di aver alimentato la fiamma della fede in queste terre lontane. Presto lascerò il mio corpo e vedrò Dio. Lo vedrò faccia a faccia».
 
 
 


21 ottobre 2015
© Corriere della Sera



 

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