giovedì 24 settembre 2015

Sinodo: per la correzione del paragrafo 137 dell’Instrumentum Laboris. La richiesta dei 50 Moralisti.



di Silvio Brachetta

C’è qualcosa che non va nel paragrafo n. 137 dell’Instrumentum Laboris, il documento che dovrebbe servire da guida, l’ottobre prossimo, alla XIV Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi, sul tema “La vocazione e la missione della famiglia nella Chiesa e nel mondo contemporaneo”. Se ne sono accorti David S. Crawford e Stephan Kampowski, professore associato, il primo, di teologia morale all’Istituto Pontificio Giovanni Paolo II di Washington e, il secondo, professore di antropologia filosofica all’Istituto Giovanni Paolo II di Roma.

Ne è uscito un Appello[1] firmato, per il momento, da una cinquantina di teologi e filosofi moralisti (studiosi di etica), in cui si chiede la rimozione del succitato paragrafo. Secondo Crawford e Kampowski, esso mette in opposizione le necessità soggettive della coscienza e l’oggettività della norma, generando il dubbio che i comandamenti di Dio siano un ostacolo alla perfezione e alla felicità umane, desiderate dalla coscienza.

Al paragrafo 137, che tratta il tema della contraccezione, si legge dunque:

«Tenendo presente la ricchezza di sapienza contenuta nella Humanae Vitae, in relazione alle questioni da essa trattate emergono due poli da coniugare costantemente. Da una parte, il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana. Quando prevale il riferimento al polo soggettivo, si rischiano facilmente scelte egoistiche; nell’altro caso, la norma morale viene avvertita come un peso insopportabile, non rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona. La coniugazione dei due aspetti, vissuta con l’accompagnamento di una guida spirituale competente, potrà aiutare i coniugi a fare scelte pienamente umanizzanti e conformi alla volontà del Signore».

Legge e coscienza: due «poli» discordi?

In effetti, le riserve di Crawford e Kampowski sembrano motivate. Il paragrafo 137 presenta la norma e la coscienza nella veste di «due poli», che devono essere coniugati costantemente e non, piuttosto, come agenti concordi della salvezza umana. Si parla di due parti, di due ruoli, di due indicazioni opposte: «Da una parte - si legge - il ruolo della coscienza intesa come voce di Dio, che risuona nel cuore umano educato ad ascoltarla; dall’altra, l’indicazione morale oggettiva, che impedisce di considerare la generatività una realtà su cui decidere arbitrariamente, prescindendo dal disegno divino sulla procreazione umana». Qua l’ambito della contraccezione e della generatività è secondario. Le riserve dell’Appello, piuttosto, sono legate alla contrapposizione tra norma e coscienza. È anche vero che il paragrafo sembra prendere le distanze dall’eccessivo soggettivismo - causa delle «scelte egoistiche» - e da un certo oggettivismo, causa di un «peso insopportabile», non «rispondente alle esigenze e alle possibilità della persona».

La strada per cui, tuttavia, la Croce da pesante si fa leggera non passa - osservano Crawford e Kampowski - nel cercare la «coniugazione dei due aspetti» (oggettivo e soggettivo) suggerita dal paragrafo, magari mediante una «guida spirituale competente». Passa, invece, secondo le indicazioni del Magistero, tramite l’obbediente ossequio della coscienza, che accoglie la legge di Dio scritta nel cuore e cerca di osservarla. Viceversa, il paragrafo 137 insinuerebbe la convinzione errata secondo la quale sussisterebbero in Dio due differenti modi di parlare all’uomo, contrastanti tra loro nei contenuti: da una parte Egli comunicherebbe direttamente con il cuore umano e, dall’altra, si rivelerebbe mediante le norme e i comandamenti contenuti nella legge sacra.

La coscienza non può creare il bene e il male

Eppure - notano gli estensori dell’Appello - la presunta opposizione tra coscienza e legge è stata più volte chiarita e scartata dai pronunciamenti magisteriali: ne parla, ad esempio, il Concilio di Trento (1545-1563), il Concilio Vaticano II (1962-1965), l’Enciclica Humanae Vitae di Paolo VI (1968) o l’Enciclica Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II (1993).

Quanto al Concilio di Trento, Crawford e Kampowski riportano l’insegnamento secondo cui l’osservanza dei comandamenti non è gravosa ed è alla portata dell’uomo giustificato: «Nessuno poi, benché giustificato, deve ritenersi libero dall’osservanza dei comandamenti; nessuno deve far propria quell’espressione temeraria e condannata con la scomunica dai Padri, secondo la quale è impossibile all’uomo giustificato osservare i comandamenti di Dio. Dio, infatti, non comanda ciò che è impossibile, ma nel comandare ti esorta a fare tutto quello che puoi, a chiedere ciò che non puoi e ti aiuta perché tu possa; infatti “i comandamenti di Dio non sono gravosi” (cf. 1 Gv 5:3) e “il suo giogo è soave e il suo peso è leggero” (cf. Mt 11:30)»[2].

Il Concilio di Trento, cioè, insegna che è del tutto errata la convinzione secondo cui si reputa il comandamento un peso, una zavorra, un fardello. E, a parte questo pronunciamento del Concilio, l’uomo vede spesso nel comandamento un intralcio alla felicità, da contrapporre all’amabilità del libero arbitrio, considerato per questo sganciato dal comandamento stesso.

Il Concilio Vaticano II è altrettanto esplicito e afferma che si deve obbedire alla legge, la quale risiede «nell’intimo della coscienza»: in essa «l’uomo scopre una legge che non è lui a darsi, ma alla quale invece deve obbedire. Questa voce, che lo chiama sempre ad amare, a fare il bene e a fuggire il male, al momento opportuno risuona nell’intimità del cuore: fa questo, evita quest’altro». E ancora: «L’uomo ha in realtà una legge scritta da Dio dentro al cuore; obbedire è la dignità stessa dell’uomo, e secondo questa egli sarà giudicato. La coscienza è il nucleo più segreto e il sacrario dell’uomo, dove egli è solo con Dio, la cui voce risuona nell’intimità»[3].

La sinderesi

Il Concilio Vaticano II, in tale pronunciamento, si riferisce chiaramente alla «sinderesi», che è il nome dato dagli scolastici medievali alla voce di Dio nella coscienza umana. C’è, infatti, una parte della nostra coscienza che non è stata colpita, ferita, dalle conseguenze del peccato originale: la «sinderesi», la voce di Dio, che comunica all’uomo la Legge eterna. Così intuiscono i teologi scolastici del basso Medioevo. Etimologicamente, «sinderesi» è una composizione di termini greco-bizantini: «synteréo», vedere, osservare se stessi. Ma anche «syneidesis», largamente usato da san Paolo, che indica la consapevolezza di qualcosa. Anzi, proprio da «syneidesis» - consapevolezza (con-sapere) - deriva il latino «con-scientia» e, dunque, coscienza.

L’insegnamento è stato accolto dal Magistero che, nel Catechismo della Chiesa Cattolica, afferma: «[…] La coscienza morale comprende la percezione dei principi della moralità (sinderesi) […]» (n. 1780). Così come la ragione pura (intelletto) riconosce intuitivamente e immediatamente, ad esempio, i principi postulati della geometria - punto, retta, ecc… - anche la ragione pratica (che determina la volontà) ha una capacità innata e immediata di riconoscere, per principio, il bene e il male.
San Girolamo - tra i primi - afferma che, nell’anima, vi è una «scintilla conscientiae» (luce della coscienza), in grado di operare una distinzione spontanea tra bene e male[4]. Molto tempo dopo san Tommaso d’Aquino specificherà che la sinderesi «è la prima regola dell’agire umano», non la coscienza[5], nel senso che la coscienza può errare, ma non la sinderesi[6]. Secondo san Tommaso la sinderesi è un abito della ragione e non si può estinguere[7].

«La sinderesi - scrive l’Aquinate - è quindi la custode della legge morale naturale […], mentre il compito della coscienza è quello di fare attenzione a questa legge applicandola ai diversi casi dell’agire umano». E perciò, «appare chiara la differenza fra sinderesi, legge naturale e coscienza: la legge naturale si riferisce ai principi universali del diritto [il cosiddetto “diritto naturale”], la sinderesi si riferisce al loro abito, o alla facoltà con l’abito [abito della ragion pratica], la coscienza invece dice applicazione della legge naturale all’azione sotto forma di una conclusione»[8].

C’è, allora, nell’anima qualcosa d’inestinguibile, che è la voce di Dio. Paradossalmente, tale voce è talmente connaturata nella nostra anima, che sussiste anche nello stato di dannazione eterna, per cui i dannati soffrono di un rimorso perenne e acutissimo proprio a causa della sinderesi[9].
L’insegnamento della Chiesa sulla coscienza è esposto nel succitato Catechismo della Chiesa Cattolica, nella terza parte, dal numero 1776 al numero 1802. La Chiesa raccomanda la «formazione della coscienza», affinché il giudizio morale sia illuminato dalla retta ragione e sostenuto dalla grazia. Difatti, «una coscienza ben formata è retta e veritiera. Essa formula i suoi giudizi seguendo la ragione, in conformità al vero bene voluto dalla sapienza del Creatore» (n. 1783).

È importante sapere pure che «l’educazione della coscienza è un compito di tutta la vita. Fin dai primi anni essa dischiude al bambino la conoscenza e la pratica della legge interiore, riconosciuta dalla coscienza morale. Un’educazione prudente insegna la virtù; preserva o guarisce dalla paura, dall’egoismo e dall’orgoglio, dai sensi di colpa e dai moti di compiacenza, che nascono dalla debolezza e dagli sbagli umani. L’educazione della coscienza garantisce la libertà e genera la pace del cuore» (n. 1784).

Se chiunque poi non obbedisce al «al giudizio certo della propria coscienza», ben formata e illuminata dalla grazia, il giudizio stesso sarebbe «erroneo» e, quindi, inclinato al male e all’errore (cf. nn. 1790-1794). Il problema, per chi non crede e non educa cristianamente la propria coscienza, è proprio questo: fallire nella valutazione del giusto agire e, dunque, rimanere nel peccato.

Altri pronunciamenti

Quanto all’Appello, vi si citano altri documenti magisteriali. Nella Humanae Vitae di Paolo VI, poi, il paragrafo 137 - scrivono Crawford e Kampowski - ammette una «ricchezza di sapienza», ma nei fatti «mina lo scopo centrale dell’Enciclica stessa», che è quello di «offrire nulla di meno che un’interpretazione normativa della legge morale naturale». Norma che, va ricordato, l’uomo è tenuto ad osservare, proprio a partire dal grido intimo della coscienza, del tutto concorde con la norma stessa.

Se l’Humanae Vitae fu pesantemente criticata e osteggiata già dopo la pubblicazione, stessa sorte capitò alla Veritatis Splendor di Giovanni Paolo II, redatta proprio per confutare tanto l’assunto sul conflitto che esisterebbe tra la libertà umana e la legge di Dio, quanto per arginare molti degli errori moderni in seno alla teologia e alla filosofia morale. In nessun caso la coscienza può essere «creatrice», afferma l’Enciclica: non può cioè stabilire arbitrariamente, a capriccio, cosa sia bene e male.

L’Appello informa di quanto Giovanni Paolo II prendesse le distanze da certa «pastorale», troppo blanda nell’accettare l’opposizione tra legge e coscienza, e troppo favorevole rispetto alla prassi «creatrice» della coscienza, che spesso è portata a decidere in autonomia cosa sia bene e cosa sia male.


[1] http://www.firstthings.com/web-exclusives/2015/09/an-appeal
[2] cf. Decreto sulla giustificazione, s. VI c. XI.
[3] Concilio Ecumenico Vaticano II, Gaudium et Spes, n. 16.
[4] San Girolamo, Commentariorum in Ezechielem prophetam, I, c. I.
[5] San Tommaso d’Aquino, De ver., q. 17, a. 2, 7m.
[6] San Tommaso d’Aquino, cf. II Sent., d. 24, q. 2, a. 4.
[7] Cf. ibid., d. 39, q. 3, a. 1, - d. 24, q. 2, a. 3.
[8] Ibid., d. 24, q. 2, a. 4.
[9] Cf. ibid., d. 39, q. 3, a. 3.







24-09-2015

http://www.vanthuanobservatory.org/notizie-dsc/notizia-dsc.php?lang=it&id=2213


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