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a cura di Luisella Scrosati

 “Nessun uomo è un’isola”, scriveva circa quattro secoli fa John Donne. Ed aveva ragione: non esiste scelta o comportamento che, per quanto possa sembrare “privato” e “personale”, non abbia delle conseguenze benefiche o malefiche sull’intera società, naturale e soprannaturale.
Il concetto di “scandalo” – di cui parla Gesù nel Vangelo e che l’insegnamento della Chiesa ha ripreso abbondantemente nella sua riflessione lungo i secoli -  è fortemente correlata alla visione dell’umanità come “corpo”. Anche la disciplina dei sacramenti, particolarmente quella che riguarda la Comunione ai divorziati-risposati, rientra in questa prospettiva e non può essere trattata come una questione personale delle persone direttamente coinvolte. (prosegue la pubblicazione di estratti commentati dallo studio comparso nell’agosto 2014 sulla rivista “Nova et Vetera”)

Ammettere i divorziati risposati alla Comunione provocherebbe grave scandalo
«Lo scandalo è l’atteggiamento o il comportamento che induce altri a compiere il male. Chi scandalizza si fa tentatore del suo prossimo» (1) . Il cattivo esempio di una persona fornisce informazioni sbagliate all’intelletto di un’altra o ne indebolisce la volontà, inducendola a peccare.
La Chiesa ha costantemente ribadito che risposarsi dopo un divorzio causa grave scandalo. Il Vaticano II ha definito il divorzio una «piaga» e denunciato «l’effetto oscurante» che esso esercita sulla «dignità» del «matrimonio e della famiglia» (2). Come spiega il Catechismo: «Il divorzio è immorale» poiché «esso introduce disordine nella cellula familiare e nella società. Tale disordine genera gravi danni: per il coniuge, che si trova abbandonato; per i figli, traumatizzati dalla separazione dei genitori, e sovente contesi tra questi; per il suo effetto contagioso, che lo rende una vera piaga sociale» (3). Risposarsi dopo il divorzio amplifica tale scandalo (4) .

Qualcuno potrebbe obiettare che la maggiore frequenza dei casi di divorzio oggigiorno, nonché la diffusione globale di tale fenomeno, riducano di fatto ogni scandalo e questa sarebbe una ragione per ammettere i divorziati risposati alla Comunione. “Chi mai potrebbe scandalizzarsene oggi?”.
Questo atteggiamento trae in inganno circa il male insito nello scandalo, che non è semplicemente un turbamento psicologico, bensì l’indurre altri a peccare. Chi provoca lo scandalo può anche non avere l’intenzione di tentare il suo prossimo; la tentazione, però, è un effetto del peccato in sé. Quando infatti il peccato diviene socialmente accettato, lo scandalo aumenta invece di diminuire. Ogni persona che cede al peccato mette in pericolo la volontà di altri di resistere ad esso e fa crescere la pressione sociale ad accettarlo. Infatti, la Chiesa insegna che l’accettazione diffusa di un comportamento peccaminoso crea una struttura sociale di peccato, un’istituzionalizzazione dello scandalo (5) . Il cristiano trova quindi sempre più difficile vivere in una società del genere senza cooperare con il comportamento peccaminoso o tollerandolo. La Chiesa, dunque, esorta i fedeli a resistere a tali strutture di peccato.

Nella Familiaris Consortio, Giovanni Paolo II ha indicato lo scandalo come una ragione per cui i divorziati risposati non possono ricevere la Santa Comunione: «se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio» (6) . Allontanarsi da questa tradizionale proibizione indurrebbe i fedeli a credere, almeno implicitamente, che divorziare e risposarsi sono cose accettabili. In più, farebbe sorgere la questione del perché altre persone che vivono in peccato grave non possano anch’esse ricevere la Comunione. Lo scandalo dunque crescerebbe.

Ricevere la Santa Comunione è, oggettivamente, un segno di comunione con Cristo e quindi con la Chiesa; significa, infatti, proclamare pubblicamente che chi si accosta a questo sacramento vive nel rispetto della fede e della morale cristiana. Ammettere all’Eucaristia coloro che si trovano in una condizione pubblica di peccato porterebbe altri a concludere che gli insegnamenti della Chiesa su quel determinato peccato non sono di fondamentale importanza e che il peccato si può tollerare. Questo è il senso dello scandalo.


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(1) CCC n°2284
(2) Gaudium et Spes n°47
(3) CCC n°2385
(4) CCC n°2384
(5) Gaudium et Spes n°25 ; Giovanni Paolo II, Reconciliatio et Poenitentia (1984), n°16, e Sollecitudo Rei Socialis (1987), n°36. Su tali strutture e su matrimonio cristiano e famiglia vedi Familiaris Consortio, n°81
(6) Familiaris Consortio, n°84











Pubblicato il  in sinodo2015.