sabato 31 maggio 2014

Il Rosario salva le anime




Meditazione per chiudere devotamente questo Mese Mariano




di Padre Stefano M. Manelli FI

A Lourdes e a Fatima la Madonna è apparsa per raccomandarci particolarmente il Santo Rosario.

A Lourdes Ella sgranava la splendida corona, mentre santa Bernadetta recitava le Ave Maria. A Fatima, in ogni apparizione, la Madonna raccomandò la recita del Rosario. In più, nell'ultima apparizione, Ella si presentò come la «Madonna del Rosario».

È veramente grande l'importanza che la Madonna ha dato al Rosario.

Quando a Fatima ha parlato della salvezza dei peccatori, della rovina di molte anime all'inferno, delle guerre e dei destini della nostra epoca, la Madonna ha indicato come preghiera salvatrice il Rosario.

Lucia di Fatima dirà in sintesi che «da quando la Vergine Santissima ha dato grande efficacia al Santo Rosario, non c'è problema né materiale né spirituale, nazionale o internazionale, che non si possa risolvere con il Santo Rosario e con i nostri sacrifici».


Salva e santifica

Un episodio di grazia.

San Giuseppe Cafasso una mattina, molto per tempo, passando per le vie di Torino, incontrò una povera vecchia, che camminava tutta ricurva sgranando piano piano la corona del Santo Rosario. «Come mai così presto, buona donna?», chiese il Santo.
«Oh, reverendo, passo a ripulire le strade!».
«A ripulire le strade?... che vuol dire?».

«Veda: questa notte c'è stato il carnevale, e la gente ha fatto tanti peccati. Io passo, ora, recitando delle Ave Maria, perché profumino i luoghi appestati dal peccato...».

Il Rosario purifica le anime dalle colpe e le profuma di grazia. Il Rosario salva le anime.

San Massimiliano M. Kolbe scriveva nella sua agendina: «Quante corone, tante anime salve!». Ci pensiamo? Potremmo tutti salvare anime recitando corone del Rosario. Quale carità di inestimabile valore sarebbe questa!

Che dire delle conversioni dei peccatori ottenute con il Santo Rosario? Dovrebbero parlare san Domenico, san Luigi di Montfort, il santo Curato d'Ars, san Giuseppe Cafasso, san Pio da Pietrelcina...
Il Rosario fa bene a tutti, ai peccatori, ai buoni, ai santi.

Quando a san Filippo Neri si chiedeva una preghiera da scegliere, egli rispondeva senza indugi: «Recitate il Rosario e recitatelo spesso».

Anche a san Pio da Pietrelcina un figlio spirituale chiese quale preghiera preferire per tutta la vita. Padre Pio rispose di scatto: «Il Rosario».

Soprattutto i Santi hanno dimostrato l'efficacia di grazia del Rosario. Quanti Santi sono stati veri «apostoli del Rosario»? San Pietro Canisio, san Carlo Borromeo, san Camillo de Lellis, sant'Antonio M. Gianelli, san Giovanni Bosco...

Forse tra i più grandi spicca l'altissimo san Pio da Pietrelcina. Il suo esempio ha del prestigioso in grado tutto sovrumano.

Per più anni egli arrivò a recitare ogni giorno oltre cento corone del Rosario! Un modello gigante che ha garantito la fecondità del Rosario per la sua santificazione e per la salvezza delle anime.

Quanti milioni di anime non sono state attratte misteriosamente da quel frate che per ore e ore, di giorno e di notte, sgranava la corona ai piedi della Madonna, fra quelle mani piagate e sanguinanti?... Egli ha dimostrato davvero che «il Rosario è catena di salvezza che pende dalle mani del Salvatore e della sua Beatissima Madre e che indica donde scende a noi ogni grazia e per dove deve da noi salire ogni speranza» (Paolo VI).


Ogni giorno la corona

Tutta la preghiera, tutta la scienza e tutto l'amore di santa Bernadetta sembra che consistessero nel Rosario. Sua sorella Tonietta diceva: «Bernadetta non fa altro che pregare; non sa fare altro che scorrere i grani del Rosario...».

Il Rosario è preghiera evangelica, preghiera cristologica, preghiera contemplativa in compagnia della Madonna (Marialis cultus, 44-47). Lode e implorazione riempiono le Ave Maria sospingendo la mente verso il mistero presente nella meditazione.

Che questo avvenga ai piedi dell'altare o per la strada, non è un ostacolo per il Rosario. Quando la mente si raccoglie volgendosi a Maria, poco importa se si sta in chiesa o su un treno, se si sta camminando o si sta volando su un aereo.

Questa facilità che il Rosario offre a chi voglia recitarlo, aumenta la nostra responsabilità: possibile che non si possa trovare ogni giorno un quarto d'ora di tempo per offrire una coroncina alla Madonna? In qualsiasi luogo, a qualsiasi ora, con qualsiasi persona, senza libri né cerimonie, ad alta voce o a fior di labbra...

Pensiamo ai Rosari recitati nelle corsie degli ospedali da san Camillo de Lellis e da santa Bertilla Boscardin; per le vie di Roma da san Vincenzo Pallotti; sui treni e sulle navi da santa Francesca Cabrini; nel deserto del Sahara da fratel Carlo De Foucauld; nei palazzi reali dalla venerabile Maria Cristina di Savoia; nei campi di concentramento e nel bunker della morte da san Massimiliano M. Kolbe; soprattutto nelle famiglie, dalla beata Anna Maria Taigi, dai genitori di santa Teresina, dalla mamma di santa Maria Goretti... Non perdiamo il tempo in cose vane e nocive, quando abbiamo un tesoro da valorizzare come il Rosario! Diciamolo e promettiamo alla Madonna, a conclusione del mese mariano: ogni giorno una corona del Rosario per Te, o Maria!


Nel Cuore Immacolato

A Fatima il Rosario è stato il dono del Cuore Immacolato di Maria. E noi vogliamo concludere il mese mariano deponendo il nostro Rosario nel Cuore dell'Immacolata, con l'impegno di recitarlo ogni giorno. Il Santo Rosario sia la nostra «preghiera preferita» come lo era per il Papa Giovanni Paolo II.

Il Rosario e il Cuore Immacolato di Maria segneranno il trionfo finale del Regno di Dio per questa epoca.

La devozione al Rosario e la devozione al Cuore Immacolato di Maria sono garanzie di salvezza. Anzi, la Madonna dice che le anime devote del Rosario e del suo Cuore Immacolato: «saranno predilette da Dio e, come fiori, saranno collocate da me dinanzi al Suo trono».

Voglia Ella stessa accendere e tenere acceso in noi l'amore al Rosario e al suo Cuore Immacolato.


Fioretti

- Recitate un Rosario di ringraziamento.
- Offrire Messa e Comunione in ringraziamento.
- Consacrarsi al Cuore Immacolato di Maria.










Chiesa e Postconcilio



La sindrome del coniglio






Pubblicato da Berlicche

Ho sentito, poco fa, qualcuno affermare che il divorzio breve in via di approvazione dal parlamento è una cosa ottima.

Certamente questo è un provvedimento portato avanti, da qualcuno almeno, con le migliori intenzioni. Perché perdere tempo ad aspettare chissà cosa se un amore è finito?

Da un certo punto di vista il ragionamento è corretto. Se il punto di vista è che ogni cosa è in balia del nostro impulso, del nostro desiderio, tutto torna. Ogni cosa che potrebbe ostacolare il trionfo dell’istinto è da eliminare. Il guaio è che, così facendo, l’istinto più forte che rimane è la paura.

Si ama con la paura che si potrebbe smettere di amare. E quindi non si ama sul serio, ma con il freno a mano tirato. Mai del tutto. Conservandosi sempre una via d’uscita.

Si ama con la valigia in mano, senza capire che per amare davvero occorre che quella valigia la si butti via. In maniera che quando arriveranno i tempi grami, ed arriveranno, non si abbia l’impulso di prendere e scappare. Si combatte meglio se si sa di non avere una via di fuga.

Se si sa di averla, invece, quanti resistono alla tentazione di prenderla? Se l’hanno messa è perché serve, dice il ragionamento. Dimenticando che se hai progettato bene un’uscita d’emergenza non dovrebbe servire mai.

Le migliori intenzioni fanno sì che si ama frustrati, infelici, rabbiosi, perché non si ama mai del tutto. Pur potendo divorziare, non ci si sposa; pur potendo avere figli, non li si fanno. Per paura di perdere quello che si ha, di non farcela. Creando uno sfacelo delle vite nostre e degli altri. Non è una novità. La realtà, ciò che accade, è lì, basta osservare.

Si scappa come conigli, spaventati di tutto.

Non ci si sposa. Non ci sono più figli. Quelli restanti viziati oltre ogni limite, perché ci si stringe a quello che si pensa proprio. L’insicurezza si spinge fino a dubitare del proprio sesso, a teorizzare che anche questo sia opinabile. Con sprezzo totale del reale.

Siccome ci hanno spiegato che costruire sulla sabbia i palazzi crollano, si preferisce vivere da baraccati. Una baracca piena di gadget, ma pur sempre una baracca. Visto che la realtà è invincibile, si finisce per fuggire in mondi artificiali, chimici o virtuali. Migliaia di amici sui social network, nessun amico vero; nessuno di cui fidarsi. Neanche chi abbiamo giurato di amare.

Dato che abbiamo dimenticato che siamo fatti per l’eterno. Che solo cercando l’eterno possiamo trovare quella gioia che dura, oltre ogni caso amaro della vita.

Così togliamo ogni barriera alla nostra fuga: ogni tempo di riflessione sui nostri errori, ogni barriera a mortiferi sogni artificiali. Come conigli spaventati che scattano ad ogni rumore. Scappando.

Dalla vita.





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Madre Speranza è Beata







di Lorenzo Bertocchi

Oggi, a Collevalenza di Todi (Pg), il Cardinale Angelo Amato proclama Beata la Venerabile Madre Speranza (1893-1983), fondatrice della Congregazione religiosa della Famiglia dell’Amore Misericordioso. Qui si trova il famosissimo santuario, meta di centinaia di migliaia di pellegrini, e qui riposano le spoglie mortali della Beata. Il Cardinale Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia, ha ricordato che nell’epoca attuale, “in cui gli uomini si allontanano sempre più dalla pratica religiosa e vivono come se Dio non esistesse, Madre Speranza diventa segno profetico di annuncio e di testimonianza che Dio ci ama.”

Madre Speranza, al secolo Giuseppa Alhama Valera, nasce a Santomera in Spagna nel 1893, maggiore di nove fratelli di una famiglia molto povera. A ventuno anni decide di realizzare il sogno della sua vita: consacrarsi a Dio. Il 15 ottobre, festa di S. Teresa d’Avila, “ ... lasciai la casa paterna con la grande aspirazione di essere santa, di assomigliare un poco a Santa Teresa”. Da quel giorno seguiranno una serie ininterrotta di prove e segni straordinari, tra cui malattie gravissime e guarigioni inspiegabili, testimonianza della particolare predilezione del Signore. I suoi direttori e confessori la guideranno verso la comprensione della particolare chiamata a lei riservata: diffondere nel mondo la devozione all'Amore Misericordioso. Come tante altre anime sante non mancano diffidenze, anche da parte della Chiesa. Nel 1930 a Madrid emette i voti per la nascente congregazione delle Ancelle dell’Amore Misericordioso, ma vive l'ostruzionismo del Vescovo della città che ordina e comanda che nessuno l’aiuti o collabori con lei. Madre Speranza va avanti, nell'obbedienza, ma prosegue il cammino. Nel giro di pochi anni apre in Spagna dodici case per bambini poveri e bisognosi, per anziani e malati assistiti anche a domicilio.

Nel 1936, in piena guerra civile spagnola, fa i suoi primi viaggi a Roma dove opererà fra i poveri della periferia romana, sulla via Casilina. Contemporaneamente deve difendersi davanti al Sant’Ufficio per accuse e diffamazioni sulla sua persona e sulla Congregazione appena nata. Intanto scoppia la Seconda Guerra Mondiale e la sua attività caritativa a Roma assume dimensioni fuori dal comune. Tra i bombardamenti e le minacce dei tedeschi, insieme alle suore accoglie bambini, nasconde profughi senza badare alle loro ideologie, cura i feriti dei bombardamenti, dà da mangiare a migliaia di operai e bisognosi in mense improvvisate, consola tutti.

Nel 1950 è completata la casa generalizia di Roma e si aprono diverse realtà in Italia; il 15 agosto del 1951, su divina ispirazione, fonda i Figli dell'Amore misericordioso. Saranno in tre ad emettere i voti e tre giorni dopo, il 18 agosto, Madre Speranza si stabilisce con loro e alcune Suore a Collevalenza, paesino dell’Umbria. Era un borgo di nemmeno mille abitanti sparsi nella campagna, famoso nei dintorni per un boschetto di lecci detto il “Roccolo”, dove i cacciatori si divertivano a prendere gli uccelli con le reti. Gesù le spiegò: “Speranza, trasformeremo questo “roccolo” in un luogo di conquista delle anime. Verranno a stormi più numerosi di questi passerotti”. Proprio sul terreno del Roccolo sorgerà il santuario di Collevalenza, una rete che ha rapito migliaia di anime.

I Figli dell'Amore Misericordioso ricevono, tra le altre, una particolare missione. Nel verbale di riunione della comunità dei Padri di Collevalenza del 21 Marzo 1955 si legge: "Comunica poi la Madre un incarico avuto dal Signore. I religiosi esercitino un atto di carità eroica consistente nell’offerta totale di ogni azione per la santità del Clero e delle anime a Lui consacrate. (…) Questo, prosegue la Madre, è il secolo di più santi, ma è pure il secolo in cui il Clero e le anime consacrate offendono di più il Signore perché è il secolo che dà più occasione di peccato. Chi rimane in piedi, conclude la Madre, disarmi il Signore".

Madre Speranza ben sapeva che l'amore di Dio non ha limiti, ma la sua via è quella del sacrificio, dell'offerta di sé, non un sentimento qualsiasi. “Mi dici, Gesù mio, che l’amore se non soffre e non si sacrifica non è amore. - scrive nel 1941 - Che insegnamento, Dio mio! Adesso mi rendo conto perché il tuo amore è così forte ed è fuoco che brucia e consuma”.

Quel fuoco era quello che ha scaldato Madre Speranza, e la sua vita è un unico interminabile tentativo di portare ad esso più anime possibile. Per far bruciare il peccato. “Care figlie – ha scritto - è necessario riconoscere e confessare che la Legge divina, naturale e positiva è giusta e pertanto che la sua infrazione è peccato, è lesione della giustizia, è iniquità, male gravissimo e sopra ogni altro detestabile. È necessario che il peccatore confuso e pentito esclami davanti a Dio misericordioso: Signore, ho peccato contro di te! Ho fatto il male ai tuoi occhi. Perdonami, Gesù mio”.





La nuova Bussola Quotidiana 31-05-2014 


venerdì 30 maggio 2014

Divorzio breve. Partiti uniti per dividere la famiglia






di Alfredo Mantovano

E due! Dopo il lungometraggio “droghiamoci meglio droghiamoci tutti”, proiettato a inizio mese con l’approvazione del decreto sugli stupefacenti, la multisala Parlamento 68 ha sfornato ieri un nuovo film, quello del “divorzio sprint”. La versione definitiva sarà proiettata a breve sugli schermi del Senato: se però i numeri della Camera hanno un senso, la circostanza che la nuova legge sia passata con 381 a favore, 14 astenuti e 30 contrari non lascia dubbi sul seguito a Palazzo Madama. La vicenda esige considerazioni di merito, e poi nel comportamento tenuto dalle varie forze politiche, e infine quanto alle prospettive per ciò che interessa la famiglia.

Nel merito. Il sistema in vigore finora prevede che la domanda di divorzio possa essere proposta purché siano decorsi tre anni dalla comparizione delle parti davanti al presidente del tribunale per il giudizio di separazione personale; col nuovo testo sarà sufficiente un anno dalla notifica del ricorso per il giudizio di separazione. Dunque, la riduzione di tempo disposta dalle nuove norme supera i due anni rispetto al sistema attuale. Se la separazione è consensuale, il nuovo testo riduce l’anno a sei mesi; il tutto prescinde dalla esistenza e dalla età dei figli. È evidente che una così drastica riduzione dei termini ha come effetto immediato quello di rendere più difficili ripensamenti o ricomposizioni, e che il giudizio di separazione non è più – come secondo la logica originaria della prima legge sul divorzio, la c.d. Fortuna-Baslini, del 1970 – l’occasione per prendere le distanze da una situazione di difficile convivenza/coabitazione: un tempo non lunghissimo, ma neanche di poche settimane, che lasciava aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune insieme (poco probabile, ma non impossibile), derivante anche da una congrua esperienza di vita per conto proprio. Con la nuova legge, la separazione, o meglio la richiesta di separazione – non si attende la sentenza di separazione – diventa il semplice formale passaggio verso il divorzio; varrebbe la pena eliminare ogni residua ipocrisia e unificare separazione e divorzio in un unico procedimento, visto che l’obiettivo è arrivare il prima possibile al divorzio. Altrettanto evidente è che i figli non contano nulla: una mamma di bambini nati da poco può trovarsi nel giro di poco più di un anno nella condizione di “divorziata” senza volerlo, e probabilmente, vista la fretta, senza che le disposizioni relative ai piccoli siano sufficientemente ponderate; peggio, può trovarsi nella debolezza di accettare “questa minestra” per non “uscire dalla finestra”, alla faccia della parità e della tutela dei minori.

I voti. Due giorni fa l’Istat ha certificato che nel 2013 l’Italia ha toccato il limite negativo di nuove nascite; dipende da tante ragioni, non ultima la scarsa stabilità dei nuclei familiari: le più accurate ricerche attestano che le famiglie fondate sul matrimonio hanno una più elevata propensione a mettere al mondo figli rispetto a situazioni differenti (convivenze o single). Qualche ora prima i rappresentanti dei partiti che alle elezioni europee hanno perso, o hanno conseguito un minor numero di voti rispetto alle previsioni, hanno espresso il proposito di rivolgersi per il futuro al 42% di astenuti, per raccogliere le istanze che quegli elettori. Poiché fra le istanze rimaste senza risposta ci sono certamente quelle – non soltanto – del silenzioso popolo delle famiglie, alla prima occasione utile si è pensato bene di dare ragione al partito del non-voto, e si è mostrato sovrano disinteresse per il futuro demografico della Nazione. Ncd, non pago della splendida performance elettorale, né del contributo determinante fornito all’approvazione della legge sulla droga, ha ufficialmente dichiarato il proprio favore al divorzio-sprint, con le eccezioni, manifestate in motivati dissensi e in voti contrari di Eugenia Roccella, Alessandro Pagano e Raffaele Calabrò. La Lega ha lasciato libertà di coscienza ai suoi deputati, con toni molto critici sul provvedimento: il che è come dire che su un tema così cruciale non ha posizione; Massimiliano Fedriga ha però motivato il suo voto contrario. Forza Italia ha avuto un proprio deputato correlatore della legge, Luca D’Alessandro, dunque non l’ha solo votata, ma ha concorso a formarla, e di questo si è reso interprete in modo trionfale Giancarlo Galan: chi in FI ha manifestato dissenso sono stati Antonio Palmieri e Luca Squeri. Scelta civica ha entusiasticamente approvato il divorzio sprint, dopo avere – in poco più di un anno, quindi nei termini della legge – divorziato dal proprio elettorato. Fratelli d’Italia, con La Russa, si è associato, dissociandosi anch’egli da larga parte dell’elettorato del suo partito. Il solo gruppo che ha votato contro è stato quello dei Popolari per l’Italia: Paola Binetti e Mario Sberna hanno espresso la loro opposizione. È da segnalare, nel Pd, l’astensione di Beppe Fioroni. Ovviamente non c’è neanche da dire di Pd, Sel e M5S.

Prospettive. La programmazione della multisala Parlamento 68 è intensa, ed è ancora in corso. Mancano all’appello le unioni civili – si chiamano così, ma sono un paramatrimonio fra persone dello stesso sesso –, in Commissione Giustizia al Senato, il d.d.l. Scalfarotto, sempre nella stessa Commissione, e l’ultimo provvedimento pervenuto all’esame: il doppio cognome, che ha fatto il suo esordio due giorni fa in Commissione Giustizia alla Camera, con la relazione di Michela Marzano. Il popolo della famiglia può decidere di continuare a restare a casa: visti i comportamenti dei partiti dai quali poteva attendersi qualcosa di più, potrebbe convincersi che una parte di esso ha fatto bene a non andare a votare. È evidente, però, che se l’Aventino prosegue nelle piazze, e se vicende come la droga o il divorzio sprint passano senza alcun tipo di reazione, poi dovrà astenersi anche dal protestare, non avendone più alcuna legittimazione. Se invece decidesse che è l’ora di smetterla, e comunicasse le proprie opinioni con un nuovo Family day, potrebbero accorgersene perfino dentro al Palazzo.





La nuova Bussola Quotidiana 30-05-2014 


Mito e realtà delle seconde nozze tra gli ortodossi




È opinione diffusa che le Chiese orientali ammettano un nuovo matrimonio dopo il divorzio e diano la comunione ai risposati. Ma non è così, spiega Nicola Bux. Solo il primo matrimonio è celebrato come un vero sacramento 




di Sandro Magister

ROMA, 30 maggio 2014 – Sull'aereo di ritorno dalla Terra Santa, a papa Francesco è stato chiesto se "la Chiesa cattolica potrà imparare qualcosa dalle Chiese ortodosse" riguardo ai preti sposati e all'accettazione delle seconde nozze per i divorziati.

Sull'uno e sull'altro di questi punti il papa ha risposto in modo elusivo. Tutti però ricordano che cosa disse a proposito delle seconde nozze in una precedente intervista in aereo, nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro:

"Una parentesi: gli ortodossi seguono la teologia dell’economia, come la chiamano, e danno una seconda possibilità [di matrimonio], lo permettono. Credo che questo problema – chiudo la parentesi – si debba studiare nella cornice della pastorale matrimoniale".

A questa prassi delle Chiese d'oriente ha fatto riferimento anche il cardinale Walter Kasper nella sua relazione introduttiva al concistoro dello scorso febbraio, nella quale focalizzò la discussione in vista del sinodo sulla famiglia sulla questione della comunione ai divorziati risposati.

L'idea corrente è che nelle Chiese ortodosse si celebrino sacramentalmente le seconde e anche le terze nozze e si dia la comunione ai divorziati risposati.

Quando in realtà le cose non stanno affatto così. Tra la celebrazione delle prime e delle seconde nozze l'ortodossia ha sempre posto una differenza non solo cerimoniale ma di sostanza, come ben mostra l'intonazione fortemente penitenziale delle preghiere per le seconde nozze.

Basti vedere, in proposito, la ricognizione storica che Basilio Petrà – sacerdote cattolico di rito latino, ma di origine greca e studioso della materia, professore al Pontificio Istituto Orientale  – ha pubblicato due mesi fa:

B. Petrà, "Divorzio e seconde nozze nella tradizione greca. Un'altra via", Cittadella Editrice, Assisi, 2014, pp. 212, euro 15,90.


Quella che segue è una chiarificazione di ciò che sono in realtà le seconde nozze nella teologia e nella prassi delle Chiese ortodosse.

L'autore, Nicola Bux, esperto di liturgia e docente alla facoltà teologica di Bari, è consultore delle congregazioni per la dottrina della fede e per le cause dei santi e ha preso parte al sinodo del 2005 sull'eucaristia, del quale riferisce qui un interessante episodio.

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CHIESA ORTODOSSA E SECONDE NOZZE


di Nicola Bux



Recentemente, il cardinale Walter Kasper si è riferito alla prassi ortodossa delle seconde nozze per sostenere che anche i cattolici che fossero divorziati e risposati dovrebbero essere ammessi alla comunione.

Forse, però, non ha badato al fatto che gli ortodossi non fanno la comunione nel rito delle seconde nozze, in quanto nel rito bizantino del matrimonio non è prevista la comunione, ma solo lo scambio della coppa comune di vino, che non è quello consacrato.

Inoltre, tra i cattolici si suol dire che gli ortodossi permettono le seconde nozze, quindi tollerano il divorzio dal primo coniuge.

In verità non è proprio così, perché non si tratta dell'istituzione giuridica moderna. La Chiesa ortodossa è disposta a tollerare le seconde nozze di persone il cui vincolo matrimoniale sia stato sciolto da essa, non dallo Stato, in base al potere dato da Gesù alla Chiesa di “sciogliere e legare”, e concedendo una seconda opportunità in alcuni casi particolari (tipicamente, i casi di adulterio continuato, ma per estensione anche certi casi nei quali il vincolo matrimoniale sia divenuto una finzione). È prevista, per quanto scoraggiata, anche la possibilità di un terzo matrimonio. Inoltre, la possibilità di accedere alle seconde nozze, nei casi di scioglimento del matrimonio, viene concessa solo al coniuge innocente.

Le seconde e terze nozze, a differenza del primo matrimonio, sono celebrate tra gli ortodossi con un rito speciale, definito “di tipo penitenziale”. Poiché nel rito delle seconde nozze mancava in antico il momento dell'incoronazione degli sposi – che la teologia ortodossa ritiene il momento essenziale del matrimonio –  le seconde nozze non sono un vero sacramento, ma, per usare la terminologia latina, un "sacramentale", che consente ai nuovi sposi di considerare la propria unione come pienamente accettata dalla comunità ecclesiale. Il rito delle seconde nozze si applica anche nel caso di sposi rimasti vedovi.

La non sacramentalità delle seconde nozze trova conferma nella  scomparsa della comunione eucaristica dai riti matrimoniali bizantini, sostituita dalla coppa intesa come simbolo della vita comune. Ciò appare come un tentativo di "desacramentalizzare" il matrimonio, forse per l'imbarazzo crescente che le seconde e terze nozze inducevano, a motivo della deroga al principio dell'indissolubilità del vincolo, che è direttamente proporzionale al sacramento dell'unità: l'eucaristia.

A tal proposito, il teologo ortodosso Alexander Schmemann ha scritto che proprio la coppa, elevata a simbolo della vita comune, “mostra la desacramentalizzazione del matrimonio ridotto ad una felicità naturale. In passato, questa era raggiunta con la comunione, la condivisione dell'eucaristia, sigillo ultimo del compimento del matrimonio in Cristo. Cristo deve essere la vera essenza della vita insieme”. Come rimarrebbe in piedi questa "essenza"?

Dunque, si tratta di un “qui pro quo” imputabile in ambito cattolico alla scarsa o nulla considerazione per la dottrina, per cui si è affermata l'opinione, meglio l'eresia, che la messa senza la comunione non sia valida. Tutta la preoccupazione della comunione per i divorziati risposati, che poco ha a che fare con la visione e la prassi orientale, è una conseguenza di ciò.

Una decina d'anni fa, collaborando alla preparazione del sinodo sull'eucaristia, a cui partecipai poi come esperto nel 2005, tale "opinione" fu avanzata dal cardinale Cláudio Hummes, membro del consiglio della segreteria del sinodo. Invitato dal cardinale Jan Peter Schotte, allora segretario generale, dovetti ricordare a Hummes che i catecumeni e i penitenti – tra i quali c'erano i dìgami –, nei diversi gradi penitenziali, partecipavano alla celebrazione della messa o a parti di essa, senza accostarsi alla comunione. 

L'erronea "opinione" è oggi diffusa tra chierici e fedeli, per cui, come osservò Joseph Ratzinger: “Si deve nuovamente prendere molto più chiara coscienza del fatto che la celebrazione eucaristica non è priva di valore per chi non si comunica. [...] Siccome l'eucaristia non è un convito rituale, ma la preghiera comunitaria della Chiesa, in cui il Signore prega con noi e a noi si partecipa, essa rimane preziosa e grande, un vero dono, anche se non possiamo comunicarci. Se riacquistassimo una conoscenza migliore di questo fatto e rivedessimo così l'eucaristia stessa in modo più corretto,vari problemi pastorali, come per esempio quello della posizione dei divorziati risposati, perderebbero automaticamente molto del loro peso opprimente.”

Quanto descritto è un effetto della divaricazione ed anche dell'opposizione tra dogma e liturgia. L'apostolo Paolo ha chiesto l'auto-esame  di coloro che intendono comunicarsi, onde non mangiare e bere la propria condanna (1 Corinti 11, 29). Ciò significa: “Chi vuole il cristianesimo soltanto come lieto annuncio, in cui non deve esserci la minaccia del giudizio, lo falsifica”.

Ci si chiede come si sia giunti a questo punto. Da diversi autori, nella seconda metà del secolo scorso, si è sostenuta la teoria – ricorda Ratzinger – che “fa derivare l'eucaristia più o meno esclusivamente dai pasti che Gesù consumava con i peccatori. […] Ma da ciò segue poi un'idea dell'eucaristia che non ha nulla in comune con la consuetudine della Chiesa primitiva”. Sebbene Paolo protegga con l'anatema la comunione  dall'abuso (1 Corinti 16, 22), la teoria suddetta propone “come essenza dell'eucaristia che essa venga offerta a tutti senza alcuna distinzione e condizione preliminare, […] anche ai peccatori, anzi, anche ai non credenti”.

No, scrive ancora Ratzinger: sin dalle origini l'eucaristia non è stata compresa come un pasto con i peccatori, ma con i riconciliati: “Esistevano anche per l'eucaristia fin dall'inizio condizioni di accesso ben definite [...] e in questo modo ha costruito la Chiesa”.

L'eucaristia, pertanto, resta “il banchetto dei riconciliati”, cosa che viene ricordata dalla liturgia bizantina, al momento della comunione, con l'invito "Sancta sanctis", le cose sante ai santi.    

Ma nonostante ciò la teoria dell'invalidità della messa senza la comunione continua ad influenzare la liturgia odierna.

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Questo testo di Nicola Bux è tratto dalla postfazione che egli ha scritto per l'ultima opera di Antonio Livi, teologo e filosofo della Pontificia Università Lateranense, di prossima uscita, dedicata agli scritti e discorsi del cardinale Giuseppe Siri (1906-1989):

A. Livi, "Dogma e liturgia. Istruzioni dottrinali e norme pastorali sul culto eucaristico e sulla riforma liturgica promossa dal Vaticano II", Casa Editrice Leonardo da Vinci, Roma, 2014.








SETTIMO CIELO


giovedì 29 maggio 2014

NOVENA DI PENTECOSTE






Deus, in adjutorium meum intende.
Domine, ad adjuvandum me festina.


Gloria Patri, et Filio, et Spiritui Sancto.
Sicut erat in principio, et nunc, et semper,
et in saecula saeculorum. Amen. Alleluja.


INVITATORIO
Cantori: Spiritum Paraclitum, qui venturus est in mundum, venite, ad oremus, alleluja.
Coro: Spiritum Paraclitum, qui venturus est in mundum, venite, adoremus, alleluja.


1. Cantori: Ecce ego rogabo Patrem, et alium Paraclitum dabit vobis, ut maneat vobiscum in aeternum, Spiritum veritatis, alleluja (Joa. 14, 16). Coro: Spiritum Paraclitum, ….


2. Cantori: Vos autem cognoscetis Eum, quia apud vos manebit, et in vobis erit, alleluja (Joa. 14, 17). Coro: Spiritum Paraclitum, ...


3. Cantori: Si quis diligit me, sermonem meum servabit, et Pater meus diliget eum, et ad eum veniemus, et mansionem apud eum faciemus, alleluja (Joa. 14, 23). Coro:Spiritum Paraclitum, ….


4. Cantori: Paraclitus Spiritus Sanctus, quem mittet Pater in nomine meo, ille vos docebit omnia, et suggeret vobis omnia, quaecumque dixero vobis, alleluja (Joa. 14, 26).Coro: Spiritum Paraclitum, ….


5. Cantori: Cum venerit Paraclitus, quem ego mittam vobis a Patre, Spiritum veritatis, qui a Patri procedit, ille testimonium perhibebit de me, alleluja (Joa. 15, 26). Coro: Spiritum Paraclitum, ….


6. Cantori: Ille, cum venerit, arguet mundum de peccato, et de justitia, et de judicio, alleluja (Joa. 16, 7). Coro: Spiritum Paraclitum, ….


7. Cantori: Cum venerit ille Spiritus veritatis, docebit vos omnem veritatem. Ille me clarificabit, alleluja (Joa. 16, 13-14). Coro: Spiritum Paraclitum,….


Subito i Cantori intonano l'Antifona seguente e poi cantano alternativamente col coro il Cantico responsoriale.


CANTICO RESPONSORIALE


Ant. Repleatur os meum laude tua, ut possim cantare;
gaudebunt labia mea dum cantavero tibi, alleluja.


1. Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum: *
ita desiderat anima mea ad te, Deus.
2. Deus virtutum, convertere: *
respice de caelo, et vide, et visita vineam istam.
3. Et perfice eam, quam plantavit dextera tua: *
et super fllium hominis, quem confirmasti tibi.
4. Veni, Domine, visitare nos in pace, *
ut laetemur coram te corde perfecto.
5. Emitte manum tuam de alto, eripe me, et libera me de aquis multis: *
de manu filiorum alienorum.
6. Emitte lucem tuam et veritatem tuam; *
ipsa me deduxerunt, et adduxerunt in montem sanctum tuum, et in tabernacula tua.
7. Manda, Deus, virtuti tuae; *
confirma hoc, Deus, quod operatus es in nobis.
8. A templo tuo in Jerusalem, *
tibi offerent reges munera.
9. Emitte Spiritum tuum, et creabuntur, *
et renovabis faciem terrae.
10. Spiritus tuus bonus deducet me in terram rectam: *
propter nomen tuum, Domine, vivificabis me, in aequitate tua.
11. Cor mundum crea in me, Deus, *
et Spiritum rectum innova in visceribus meis.
12. Ne projicias me a facie tua, *
et Spiritum Sanctum tuum ne auferas a me.
13. Redde mihi laetitiam salutaris tui, *
et Spiritu principali confirma me.
14. Emitte Spiritum Sanctum tuum de altissimis, *
et sic correctae erunt semitae eorum qui sunt in terris.
15. Gloria Patri...
16. Sicut erat...


Ant. Repleatur os meum laude tua, ut possim cantare;
gaudebunt labia mea dum cantavero tibi, alleluja.


CAPITOLO (Ez., 36, 23, 25, 26) Cum sanctificatus fuero in vobis, congregabo vos de universis terris: * et effundam super vos aquam mundam, et mundabimini ab omnibus inquinamentis vestris; * et dabo vobis spiritum novum. Deo gratias.







INNO
Durante il canto della prima strofa, tutti si inginocchiano.

Veni, Creator Spiritus,
Mentes tuorum visita;
Imple superna gratia
Quae tu creasti pectora.

Qui diceris Paraclitus,
Altissimi donum Dei,
Fons vivus, ignis caritas,
Et spiritalis unctio.


Tu septiformis munere,
Digitus Paternae dexterae,
Tu rite promissum Patris,
Sermone ditans guttura.


Accende lumen sensibus,
Infunde amorem cordibus,
Infirma nostri corporis
Virtute firmans perpeti.


Hostem repellas longius,
Pacemque dones protinus:
Ductore sic te praevio,
Vitemus omne noxium.


Per te sciamus da Patrem,
Noscamus atque Filium,
Teque utriusque Spiritum
Credamus omni tempore. Amen.


Emitte Spiritum tuum, Domine, et creabuntur, alleluja.
Et renovabis faciem terrae, alleluja.


ANTIFONE E OREMUS distribuiti in ciascun giorno della Novena con il canto del Magnificat


1. - VENERDI dopo l'Ascensione. Antiphona: O Sancte Spiritus, ex Patre procedens, qui cum Patre et Filio simul adoraris et conglorificaris, veni, et tui amoris in nobis ignem accende, alleluja.


OREMUS Illo nos igne, quaesumus, Domine, Spiritus Sanctus inflammet: quem Dominus noster Jesus Christus misit in terram, et voluit vehementer accendi: Qui tecum vivit et regnat in unitate ejusdem Spiritus Sancti, Deus...


2. - SABATO dopo l'Ascensione. Antiphona: O Pater Pauperum, qui curam habes tua Providentia omnium creaturarum, cunctas replens, cunctas fovens, veni, et ad amorem supernorum trahe desiderium, alleluja.


OREMUS Mentibus nostris, quaesumus, Domine, Spiritum Sanctum benignus infunde: cujus et sapientia conditi sumus, et providentia gubernamur. Per Dominum nostrum Jesum Christum Filium tuum: Qui tecum vivit et regnat in unitate ejusdem Spiritus Sancti, Deus...


3. - DOMENICA dopo l'Ascensione. Antiphona: O Dator Munerum, amor Patris et Filii, qui esurientes semper reples bonis, veni ad donandum nobis sacrum septenarium, alleluja.


OREMUS Sancti Spiritus gratia, quaesumus, Domine, corda nostra illuminet: et perfectae caritatis dulcedine abundanter reficiat. Per Dominum nostrum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti...


4. - LUNEDI dopo l'Ascensione. Antiphona: O Lumen Cordium, et flamma indeficiens caritatis, qui peccatorum tenebras ac ignorantiae repellis, veni, et tui luminis claritatem nobis infunde, alleluja.


OREMUS Adsit nobis, quaesumus, Domine, virtus Spiritus Sancti: quae et corda nostra clementer expurget, et ab omnibus tueatur adversis. Per Dominum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti...


5. - MARTEDI dopo l'Ascensione. Antiphona: O Consolator Optime, ac beatitudinis donator, qui reddis innocentiam lapsis et moestis laetitiam, veni ad adjuvandum nos, jam noli tardare, alleluja.


OREMUS Gratiam Spiritus Sancti, Domine Deus, cordibus nostris clementer infunde: quae nos gemitibus lacrimarum efficiat maculas nostrorum diluere peccatorum atque optatae nobis, te largiente, indulgentiae praestet effectum. Per Dominum nostrum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti...


6. - MERCOLEDI dopo l'Ascensione. Antiphona: O Dulcis Hospes animae, qui corda nostra tibi facis habitaculum, formans affectum firmansque provectum, veni, et reple cordis intima tuorum fidelium, alleluja.


OREMUS Praesta, quaesumus, omnipotens et misericors Deus: ut Spiritus Sanctus adveniens, templum nos gloriae suae dignanter inhabitando perficiat. Per Dominum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti...


7. - GIOVEDI dopo l'Ascensione. Antiphona: O Dulce Refrigerium, et fons aquae salientis in vitam aeternam, qui unda purificans, omnes regeneras, veni, et tui roris nos intima aspersione fecunda, alleluja.


OREMUS Sancti Spiritus, Domine, corda nostra mundet infusio: et sui roris intima aspersione fecundet. Per Dominum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti…


8. - VENERDI antivigilia di Pentecoste. Antiphona: O Lux Beatissima in fllios adoptionis effusa, per quam totus in orbe terrarum mundus exsultat, veni, et illumina sedentes in tenebris et umbra mortis, alleluia.


OREMUS Mentes nostras, quaesumus, Domine, Paraclitus, qui a te procedit, illuminet et inducat in omnem, sicut tuus promisit Filius, veritatem: Qui tecum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti.


9. - SABATO Primi Vespri di Pentecoste. Antiphona: Non vos relinquam orphanos, alleluja, vado et venio ad vos, alleluia: et gaudebit cor vestrum, alleluja.


OREMUS Deus, qui hodierna die corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti: da nobis in eodem Spiritu recta sapere; et de ejus semper consolatione gaudere. Per Dominum nostrum... in unitate ejusdem Spiritus Sancti...






Magnificat ….
Si ripete l'Antifona propria del giorno,
dopo la quale il celebrante canta:


Dominus vobiscum.
Et cum sipritu tuo.


Qui il celebrante canta in tono solenne l' Oremus proprio del giorno, poi aggiunge :
Dominus vobiscum.
Et cum spiritu tuo.


Benedicamus Domino.
Deo gratias.


Celebrante in tono retto:
Spiritus Sancti gratia illuminet sensus et corda nostra. Amen.










La stampa di sinistra dà una visione distorta del Papa. Lo dice il cardinale George Pell




George Pell, membro del consiglio degli otto cardinali 
consiglieri di Bergoglio e nuovo segretario per l’Economia del vaticano (foto Olycom) 


 “Il Papa vive in modo molto semplice, pratica la povertà e predica per la gente in modo molto accessibile. La stampa di sinistra non parla mai dei suoi insegnamenti, per esempio, quando parla del demonio, del denaro, della opposizione all’aborto o dell’importanza della famiglia. Non li interessa. Danno una visione distorta del suo pontificato perché non entrano in quello che è realmente il suo magistero e la sua dottrina”. Così il cardinale australiano George Pell, membro del consiglio degli otto cardinali consiglieri di Jorge Mario Bergoglio (C8) e nuovo segretario per l’Economia del vaticano.

“Francesco è realmente un uomo di Gesù Cristo e del Vangelo, dall’annuncio del kerigma”, spiega Pell in un’intervista al giornale spagnolo La Razon. “Inoltre bisogna ricordarsi che è un gesuita alla vecchia manifera e questa è una delle chiavi per capirlo. Non si prende nessun giorno libero alla settimane, né vacanze. E’ un uomo semplice”. L’arcivescovo uscente di Sidney sottolinea che tutti i cardinali del C8 sono “completamente a favore delle riforme” del Vaticano, “uno dei grandi temi di cui abbiamo parlato tutti noi cardinali prima del Conclave”. Quanto alla nuova segreteria per l’Economia, composta da otto cardinali e sette laici, ognuno dei 15 con stesso diritto di voto, “è la prima volta che dei laici hanno voce a questo livello”. La “principale missione” di questo dicastero che “deve supervisionare la gestione economica e vigilare sulle sturtture e le attività amministrative e finanziarie” vaticane è “la trasparenza” e lavorare affinché “il Vaticano si adegui agli standard internazionali”. Ci sono molte difficoltà? “Sto incontrando alcune difficoltà ma non troppe. Il Santo Padre ha bisogno della banca vaticana (Ior, ndr.) per aiutare le missioni con il denaro, senza il permesso di altri paesi. Ne ha bisogno per poterlo fare in modo indipendente”. 



TMNews, 29 maggio 2014


I due Papi della Chiesa





Ratzinger non si è ritirato a vita privata. Ecco perché abbiamo davvero due Papi


Vittorio Messori

«Carissimi Fratelli, vi ho oggi convocati anche per comunicarvi una decisione di grande importanza per la vita della Chiesa. Dopo aver a lungo esaminato la mia coscienza davanti a Dio, ben consapevole della gravità dell’atto, in piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di vescovo di Roma, successore di San Pietro…».

Del tutto impreviste, dette in latino, a voce bassa, quelle parole furono come una frustata che fece in pochi minuti il giro del globo. E questo anche in Paesi non a maggioranza cattolica e nemmeno cristiana, ma dove si comprese subito la novità storica dell’evento. Non si dimentichi che — stando anche solo alle parole recenti del protestante Obama, dell’ortodosso Putin, dell’anglicano Cameron — il Pontefice romano sarebbe oggi la più alta autorità morale del pianeta.

Per tornare a quell’11 febbraio, ricorrenza di Nostra Signora di Lourdes, chi conosce il mondo cattolico sa che ancora ci si interroga e ci si confronta, anche duramente. Gli schieramenti sembrano essere due: da un lato i custodi della Tradizione, per i quali la «rinuncia» (non dimissione, non avendo il Papa alcuno in terra cui presentarla), malgrado sia prevista dal Codice Canonico, avrebbe costituito una sorta di defezione, quasi che Benedetto XVI considerasse il suo ufficio come quello di presidente di una multinazionale o di uno Stato. E, dunque, fosse necessario ritirarsi a vita privata al declinare dell’età, in nome di considerazioni efficientiste, respinte, invece, dalla lunga agonia in pubblico scelta da Giovanni Paolo II. Dall’altro lato, ecco lo schieramento di coloro che si rallegrano: la rinuncia sarebbe la fine della sacralità del Pontefice, dell’aura mistica attorno alla sua persona e quindi l’adeguamento del vescovo di Roma alla norma comune a tutti i vescovi, voluta da Paolo VI. Rinunciare, cioè, al governo di una diocesi e ad incarichi ufficiali nella Curia romana al raggiungimento dei 75 anni.

Sullo sfondo, comunque, restavano domande che sembravano non avere risposta adeguata: perché non scegliere di chiamarsi «vescovo emerito di Roma» (come suggeriva la stessa Civiltà Cattolica ) bensì «Papa emerito»? Perché non rinunciare all’abito bianco , pur avendo tolto la mantellina e l’anulus piscatorius al dito, segno della autorità di governo? Perché non ritirarsi nel silenzio di un monastero di clausura, invece di restare nei confini della Città del Vaticano, accanto a San Pietro, confrontandosi spesso — seppur privatamente — con il successore, ricevendo ospiti e partecipando a cerimonie e a canonizzazioni come quella recente di Roncalli e di Wojtyla? Confesso che io stesso mi ero posto simili interrogativi, restando perplesso.

Una risposta a quelle domande viene ora da uno studio di Stefano Violi, stimato docente di diritto canonico presso le facoltà di Teologia di Bologna e di Lugano. Vale la pena di esaminare quelle fitte pagine, poiché con la decisione di Benedetto XVI si sono aperte per la Chiesa scenari inediti e in qualche modo sconcertanti. È prevedibile che le conclusioni del professore Violi susciteranno dibattito tra i colleghi, visto che questo canonista ipotizza che l’atto di Ratzinger innovi profondamente e che i Papi viventi siano ora davvero due. Anche se uno di loro volontariamente «dimezzato», per dirla in maniera un po’ semplicista ma, ci pare, non errata. Per capire, vanno sgombrati innanzitutto tutto i deliri di dietrologi e complottisti, prendendo sul serio Benedetto XVI che ha parlato del peso crescente della vecchiaia come motivo primo e unico della sua decisione: «In questi ultimi mesi ho sentito che le mie forze erano diminuite… Le mie risorse, fisiche e intellettuali, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero…».

Ma, studiando in modo approfondito il controllatissimo latino con il quale Joseph Ratzinger ha accompagnato la sua decisione, l’occhio del canonista scopre che essa va ben al di là dei pochi antecedenti storici e anche al di là della disciplina prevista per la «rinuncia» dal Codice attuale della Chiesa. Si scopre, cioè, che Benedetto XVI non ha inteso rinunciare al munus petrinus , all’ufficio, al compito, cioè, che il Cristo stesso attribuì al capo degli apostoli e che è stato tramandato ai suoi successori. Il Papa ha inteso rinunciare solo al ministerium , cioè all’esercizio, all’amministrazione concreta di quell’ufficio. Nella formula impiegata da Benedetto, si distingue innanzitutto tra il munus, l’ufficio papale, e la executio, cioè l’esercizio attivo dell’ufficio stesso. Ma l’executio è duplice: c’è l’aspetto di governo che si esercita agendo et loquendo, lavorando ed insegnando. Ma c’è anche l’aspetto spirituale, non meno importante, che si esercita orando et patendo, pregando e soffrendo. È ciò che starebbe dietro le parole di Benedetto XVI: «Non ritorno alla vita privata… Non porto più la potestà di guida nella Chiesa ma, per il bene della Chiesa stessa e nel servizio della preghiera, resto nel recinto di San Pietro». Dove «recinto» non andrebbe inteso solo nel senso di un luogo geografico dove vivere ma anche di un «luogo» teologico.

Ecco, dunque, il perché della scelta, inattesa e inedita, di farsi chiamare «Papa emerito». Un vescovo resta vescovo quando l’età o la malattia gli impongono di lasciare il governo della sua diocesi e si ritira a pregare per essa. Tanto più il vescovo di Roma, al quale il munus, l’ufficio, il compito di Pietro, è stato conferito una volta per tutte, per l’eternità intera, dallo Spirito Santo, servendosi dei cardinali in conclave solo come strumenti. Ecco anche il perché della decisione di non abbandonare l’abito bianco, pur privato dei segni del governo attivo. Ecco il perché della volontà di stare accanto alle reliquie del Capo degli apostoli, venerate nella grande basilica. Per dirla con il professor Violi : «Benedetto XVI si è spogliato di tutte le potestà di governo e di comando inerenti il suo ufficio, senza però abbandonare il servizio alla Chiesa: questo continua, mediante l’esercizio della dimensione spirituale del munus pontificale affidatogli. A questo, non ha inteso rinunciare. Ha rinunciato non al compito, che non è revocabile, bensì alla sua esecuzione concreta». Forse anche per questo Francesco non sembra amare il definirsi «Papa», consapevole com’è di condividere il munus pontificale, almeno nella dimensione spirituale, con Benedetto? Ciò che invece ha ereditato interamente da Benedetto XVI è l’ufficio di vescovo di Roma. È per ciò che questa, come si sa, è la sua autodefinizione preferita, sin dalle prime parole di saluto al popolo dopo l’elezione? Tanto che molti, sorpresi, si chiesero perché non avesse mai usato la parola «Papa» o «Pontefice» in un’occasione tanto solenne, davanti alle tv del mondo intero, e avesse solo parlato del suo ruolo di successore all’episcopato romano.

Per la prima volta, dunque, la Chiesa avrebbe davvero due Papi, il regnante e l’emerito? Pare proprio che questa sia stata la volontà di Joseph Ratzinger stesso, con quella rinuncia al solo servizio attivo che è stato «un atto solenne del suo magistero», per dirla con il canonista. Se davvero è cosi, tanto meglio per la Chiesa: è un dono che ci sia, uno accanto all’altro anche fisicamente, chi dirige e insegna e chi prega e soffre , per tutti, ma anzitutto per sorreggere il confratello nell’ufficio pontificale quotidiano.









Corriere della Sera 28 maggio 2014

Papa Francesco ha scomunicato “Noi siamo Chiesa”






La redazione di UCCR

Una pesante scure si è abbattuta sui promotori di una Chiesa opinionista, ovvero simile ad un’associazione che si regge sulle opinioni dei propri associati per determinare la strada da seguire. Papa Francesco ha spezzato con un singolo gesto i tentativi maldestri degli appartenenti del partito de “la Chiesa dovrebbe fare”, “la Chiesa dovrebbe dire”, “la Chiesa ha bisogno di”, “la Chiesa si adegui…” ecc.

Cosa è successo? Molto semplice, Papa Francesco ha scomunicato ed escluso dai sacramenti Martha Heizer e il marito Gert, fondatori e presidenti di “Wir sind Kirche” (“Noi siamo Chiesa”), una delle organizzazioni “cattoliche” più critiche verso la Chiesa e il suo magistero.

“Noi siamo Chiesa” esiste anche in Italia, vicina all’agenzia “Adista” e galvanizzata dalle opinioni del teologo Vito Mancuso, spesso presente ai loro incontri come relatore. E’ sopratutto nota ai lettori de “Il Manifesto” dato che il “vatikanista” Luca Kocci ha una particolare attenzione per loro. Infatti, proprio sul giornale comunista, Kocci si è scagliato contro questa decisione parlando di «durissimo provvedimento della Santa sede contro i gruppi cattolici di base». Soltanto nel finale ha citato Papa Francesco, riconoscendo che «la sco­mu­nica alla pre­si­dente è un duro colpo al dia­logo con il mondo cat­to­lico di base, che sem­brava essersi ria­perto con papa Fran­ce­sco, il quale però era sicu­ra­mente infor­mato del provvedimento». Curioso e significativo il fatto che sul suo blog personale, invece, lo stesso articolo appaia privato di questo riconoscimento finale.

Ricordiamo che l’associazione “Noi siamo Chiesa” combatte apertamente da anni il magistero della Chiesa chiedendo sopratutto -l’ossessione, alla fine, è sempre nel sesso- l’adeguamento della dottrina cattolica ai costumi sessuali moderni. La Chiesa è indietro di 200 anni, deve adeguarsi al mondo, è il mondo che indica la strada maestra e la Chiesa deve imparare, obbedire ed adeguarsi. Questo per loro si chiama “dialogare”. Papa Francesco li ha scomunicati, assegnando loro la massima sanzione ecclesiastica. Collaboratore di “Noi siamo Chiesa” è stato anche don Domenico Pezzini, il cosiddetto “prete dei gay”, condannato a dieci anni di carcere per violenza (omo)sessuale su un minorenne, consumata in oltre tre anni. Secondo Giacomo Galeazzi il prete è stato “scaricato” dall’associazione al momento dell’arresto.

Il caso Heizer era scoppiato nel 2011, quando la donna, insegnante di religione a Innsbruck, in Austria, decise di sfidare il Vaticano sulla questione del sacerdozio femminile annunciando la sua intenzione (poi attuata) di celebrare l’Eucarestia nella sua casa di Absam, piccolo comune nei pressi del capoluogo tirolese, senza la presenza di un sacerdote. Il portavoce di “Noi Siamo Chiesa” ha aggiunto che «Martha Heizer e il marito Gerd, si riuniscono in casa per celebrare insieme l’Eucaristia con altre poche persone con modalità simili a quelle che da tempo sono praticate dalle comunità di base cioè senza un prete canonicamente accreditato». Lo ritengono più coerente con il Vangelo. Appunto, la propria effimera opinione vince su tutto, dall’”utero è mio” alla “Chiesa è mia e decido io”: frutti marci del ’68.

Concordiamo comunque con il vescovo diocesano di Innsbruk, Manfred Scheuer, il quale ha ricordato che la scomunica non rappresenta «una vittoria, ma sempre una sconfitta per la Chiesa. Con grande rammarico vedo che, finora le persone interessate non ci hanno ripensato». Certamente, aggiungiamo, dovrebbe aiutare nel far desistere dai tentativi di voler modellare una Chiesa a propria immagine e somiglianza, sentirsi padri al posto che figli, voler insegnare al posto che imparare ad obbedire.

Con questa scelta Papa Francesco e la Chiesa hanno chiuso la porta all’arroganza e alla superbia, aprendola alla gioia dell’umiltà, dell’essere e del sentirsi figli. D’altra parte il Pontefice lo ha ripetuto più volte: «è una dicotomia assurda amare Cristo senza la Chiesa; ascoltare Cristo ma non la Chiesa; stare con Cristo al margine della Chiesa. Non si può. E’ una dicotomia assurda. Il messaggio evangelico noi lo riceviamo nella Chiesa e la nostra santità la facciamo nella Chiesa, la nostra strada nella Chiesa. L’altro è una fantasia o una dicotomia assurda».






UNIONE CRISTIANI CATTOLICI RAZIONALI  28 maggio 2014

mercoledì 28 maggio 2014

L’intervista proibita e perduta di Vittorio Messori ad Hans Urs von Balthasar



Quanto segue è la versione di un libro-intervista scomparso e messo al bando trent’anni fa: il controverso colloquio di Vittorio Messori e Hans Urs von Balthasar, é stato pubblicato da pochi giorni dal sito Papale Papale ed integralmente ricopiata dal suo direttore, Antonio Margheriti Mastino. Il quale racconta -e fa raccontare a Vittorio Messori- nella succosissima prefazione al testo dell’intervista i retroscena ed i postscena di questo caso editoriale che non potè diventarlo. Un racconto che potrete leggere direttamente qui. Ringraziamo PapalePapale.com e Antonio Margheriti Mastino per il contributo di questo prezioso (ed attualissimo ) testo a questo nostro archivio messoriano. 
 
***
“Mi raccomando – dice congedandoci dopo un lungo colloquio –. Non fate di me una vedette. Ciò che importa sono i problemi, non la mia persona”. Deve partire, l’abbiamo trattenuto più del previsto, ma con un tocco che rivela la sua attenzione alle persone, si informa del nostro programma, vuole darci alcune indicazioni concrete. “Tenete presente il buffet della stazione: il prezzo è buono e non si sta male”.
Alto, asciutto, vestito austeramente di scuro, lucidissimo: a 80 anni il “grande vecchio di Basilea”,“l’uomo più colto del secolo”, l’autore di quasi settanta libri che hanno segnato a fondo il nostro tempo (e il recente Premio Paolo VI lo ha riconfermato), Hans Urs von Balthasar, insomma, è più attivo e presente che mai.
Per molti, quest’uomo sembra rappresentare la sintesi vivente di ciò che dovrebbe essere il teologo secondo lo spirito del Vaticano II. Eppure, fu escluso dai lavori di quel Concilio per il quale aveva profondamente contribuito a creare un clima propizio.
Anche nella Roma di Papa Giovanni si diffidava dì lui e delle sue aperture, della sua attenzione ai sogni del tempo. Soltanto nel 1969 finiva il suo lungo esilio “ufficiale”, con la chiamata — fattagli da Paolo VI — alla Commissione teologica internazionale che affianca la Congregazione per la Dottrina della Fede.  Pensatore tra i più moderni, e insieme incrollabilmente radicato nella grande tradizione della Chiesa, il destino di von Balthasar è stato quello di altri grandi vecchi della teologia cattolica, da Maritain al suo amico e maestro De Lubac in odore di “progressismo” prima del Vaticano II,  in sospetto di “moderatismo”  dopo,  stando almeno alle lobbies che controllano e manipolano gran parte dell’attuale informazione ecclesiale. Nessuno però, né prima né dopo, ha mai messo in discussione la sua straordinaria statura teologica e, quel che più conta, spirituale. I molti volumi di Gloria, la sua opera maggiore, sono già tra i classici: ma è ben noto anche il suo coinvolgimento nella teoria e nella pratica della mistica in cui vede il vertice dell’esperienza religiosa.
Lo studio è dominato da una grande statua in legno della Vergine mentre, proprio sopra la porta, è collocata quella tragica Crocifissione di Grunewald davanti alla quale Dostoewskij cadde nel delirio epilettico: forse l’immagine pittorica più consona a illustrare il “Gesù sarà  in agonia sino alla fine del mondo” di cui parlò quell’altro grande, Blaise Pascal, carissimo a von Balthasar. Assieme alla Trinità, a Maria, alla Chiesa, al centro della sua riflessione vi è da sempre“il caso serio”  della Croce che giudica ogni ottimismo umano troppo facile e superficiale.
Sulla scrivania, sotto una piccola foto di Giovanni Paolo II, è aperta la Basel Zeitung, uno dei tanti giornali del mondo che hanno pubblicato l’ultima, furibonda aggressione di Hans Kung al Papa e ai suoi diretti collaboratori.
Iniziando il colloquio, viene spontaneo chiedergli se ha già letto il testo di quel suo collega nato, come lui, nel cantone di Lucerna. Scuote il capo, come rattristato, parla a voce bassa, guardando fisso negli occhi:
***

Kung non è più cristiano da un pezzo

“Sono almeno dieci anni che quest’uomo ripete sempre le stesse cose. Il solo fatto nuovo è il crescere del tono polemico. In realtà, sin dai tempi del suo libro ‘Essere cristiani’, Hans Kung non è più cristiano”.
Vorrà dire non più cattolico.
No, non è più cristiano. Basta leggere i suoi ultimi libri, anche quello recentissimo sulle altre religioni: Kung non è più cristiano. Per lui, Gesù non è altro che un profeta; il problema, dunque, si riduce a una discussione se sia stato o no un profeta maggiore di Budda, di Confucio, di Maometto. Non a caso è stato invitato da Khomeini in Iran per delle conferenze, dove ha ribadito che c’è un solo Dio e tanti profeti. Ormai, per lui — lo dice chiaro, appunto, in quel suo libro non ancora tradotto in italiano — il cristianesimo è una via di salvezza tra le tante.
Se davvero è così, è inutile attardarsi in quel “dialogo” che pur pretende con toni tanto urlati dalla gerarchia cattolica.
“Kung si situa ormai fuori per sua scelta, dalla Chiesa: dunque, non ha più nulla da dire ai vescovi. In realtà, non ha più nulla da dire neanche ad altri, a cominciare dai protestanti. In effetti, da quando il suo Istituto di teologia ecumenica non è più riconosciuto come cattolico, Kung rappresenta solo sé stesso. Forse, anche per questa situazione in cui si è trovato, ha spostato il discorso dall’ecumenismo tra cristiani a quello con le religioni non cristiane”.
Eppure, si ha l’impressione che continui ad esercitare una notevole influenza: tutti i grandi quotidiani borghesi del mondo opulento hanno dedicato pagine e pagine alla sua requisitoria contro il Papa e Ratzinger.
 “Il settore che rappresenta è quello di una certa intelligencija, ma con sempre minor peso: in Germania ha perso influenza ed è di rado invitato per conferenze, soprattutto nelle università. Così, viaggia all’estero: è conosciuto come un buon oratore e, soprattutto, come un nemico di Roma. Questo gli attira molte simpatie, in certi ambienti”.
La virulenza dell’attacco all’attuale prefetto della Congregazione per la Fede ha stupito anche coloro che conoscevano i suoi rapporti tesi con il professor Ratzinger, quando entrambi insegnavano a Tubinga.
“Credo che sia esasperato anche dalla progressiva perdita di ascolto. Tra l’altro, è una menzogna l’accusa a Ratzinger di essere cambiato da quando ‘ha fatto carriera’, come dice lui. Io conosco Ratzinger da sempre e sempre è stato così, sempre l’ha pensata così. In ogni caso, non è Ratzinger ma Kung che attacca il Vaticano II giudicandolo ancora ‘clericale’, angusto, insufficiente, chiedendo dunque un Vaticano III. Ratzinger è fedele al Concilio e il suo ‘Rapporto sulla fede’ lo dimostra”.

Ratzinger ha ragione su tutto

L’edizione tedesca è uscita da poche settimane. L’ha già letta?
“Certo che l’ho letta. Che ne penso? C’è poco da dire: Ratzinger ha ragione. Qualcuno chiama pessimismo quello che non è che realismo: chi ha il coraggio della verità deve riconoscerlo. Nessuno parla di questa immensa, spaventosa defezione di preti e di suore: se ne sono andati, e continuano ad andarsene a migliaia”.
Dunque, Lei si riconosce nella lettura data da Ratzinger di questi ultimi vent’anni?
“Ci si può chiedere se la colpa di ciò che è successo è del Concilio (e Ratzinger l’esclude) o se c’erano già prima le condizioni che avrebbero provocato lo scatenarsi della crisi. È certo che Giovanni XXIII (quello autentico, non quello di un certo mito creato dopo la sua morte) non si aspettava che le cose sarebbero andate in questo modo”.
Eppure, Lei è tra coloro che prepararono il clima che avrebbe portato al Concilio. Il suo libro “Abbattere i bastioni”  è del 1952 e le procurò grossi problemi con Roma.
“C’è stato un equivoco attorno a quel libro. Io volevo che si ‘abbattessero i bastioni’ non certo perché si scappasse dalla Chiesa, ma per permettere alla Chiesa stessa di essere sempre più missionaria, di annunciare con ancor maggiore efficacia il Vangelo”.
Anche l’intenzione primaria dei Padri conciliari era missionaria ma si ha l’impressione che, invece di proiettarsi ad extra, ci si sia ripiegati ad intra, in una interminabile discussione tra noi a uso interna.
“Ma sì, tutti questi documenti che nessuno legge, questa carta che io stesso sono costretto ogni giorno a cestinare, tutte queste strutture, questi uffici delle nostre conferenze episcopali e delle nostre diocesi! Gli stessi che chiedevano lo snellimento della Curia romana hanno contribuito a creare una miriade di mini-curie alla periferia della Chiesa”.

La burocrazia clericale che soffoca la missione cristiana

Dunque, lei concorda anche con le denunce del pericolo che la Chiesa  con lo sviluppo ipertrofico delle strutture clericali si trasformi in un’enorme burocrazia fine a sé stessa.
“Certo. Rileggiamoci anche qui il Vangelo: Gesù ha sempre designato a un servizio delle persone, mai delle istituzioni. Della struttura fondante della Chiesa fanno parte le persone dei vescovi, non gli uffici burocratici. Niente di più grottesco che pensare a un Cristo che volesse istituire delle commissioni! Dobbiamo riscoprire una verità cattolica: nella Chiesa, tutto è personale, niente deve essere anonimo. Sono invece delle strutture anonime quelle dietro le quali si nascondono ora tanti vescovi. Commissioni, sottocommissioni, gruppi e uffici di ogni tipo… Si lamenta [sic!] che mancano i preti, ed è vero; ma migliaia di ecclesiastici sono addetti alla burocrazia clericale. Documenti, carte che non sono lette e che comunque non hanno alcuna importanza per la Chiesa viva. La fede è ben più semplice di tutto questo”.
Ma perché, a suo avviso, questo avviene?
“Forse, hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer”.
Secondo molti il problema più urgente oggi è quello della crisi del concetto autenticamente cattolico di Chiesa. Dicono che occorrerebbe parlarne al Sinodo.
“Forse, il Vaticano II si è fermato troppo a parlare della struttura della Chiesa. La Lumen gentium  di cui parla la Costituzione conciliare non è la Chiesa, è Cristo. È certo che, con una lettura parziale del Vaticano II, si è fatta della Chiesa più un gruppo sociale che non misterico, sacramentale. Vediamo invece che sin dagli inizi la comunità cristiana ha una struttura, una gerarchia, volute dal Cristo e basate sul collegio apostolico. Certa, quello che la gente d’oggi cerca è il Cristo non la Chiesa, che nel suo volto visibile non sembra credibile a molti che ne sono all’esterno. Nella nostra predicazione,  occorre mettere più che mai in rilevo l’unicità di Gesù, la sua persona: è Lui che attira gli uomini di sempre. Ma poi come ricorda giustamente il Vaticano II, non dobbiamo dimenticare che non c’è Cristo senza la Chiesa e quindi dobbiamo mostrarne l’assoluta necessità”.
Oltre a questo tema dell’ecclesiologia, quale argomento vedrebbe volentieri al centro dei lavori del prossimo Sinodo straordinario?
“Ci si potrebbe ricordare di quanto diceva il mio amico Karl Barth, il grande teologo protestante che, in una conferenza alla radio nei suoi ultimi anni ammonì: ‘Cattolici, non fate le betises, le sciocchezze, che noi protestanti abbiamo fatto a partire da un secolo fa!’”
Scegliendo tra queste betises, quale, secondo Lei, la più urgente da sottoporre all’attenzione del Sinodo?
“Forse, è il problema di cui si è parlato molto al recente convegno romano su Adrienne von Speyr. Il problema cioè dello studio della Bibbia, dell’esegesi cosiddetta ‘scientifica’.  Questi specialisti hanno fatto molto lavoro, ma è un lavoro che non nutre la fede dei credenti. Bisogna riscoprire una lettura più semplice della Scrittura, mettere l’esegesi ‘scientifica’ in equilibrio con quella ‘spirituale’, non tecnica, della grande tradizione patristica. Non credo che il Sinodo potrebbe risolvere questo problema: potrebbe però fare un auspicio in tal senso”.

Rifare catechismo

Non si può, peraltro, impedire con un decreto il lavoro degli esegeti.
“Infatti non dico questo. C’è però il dramma degli stessi specialisti, spesso cristiani buoni e pii, che devono però fare un lavoro al livello di quelle università in cui sono inseriti. E’ una condizione non sempre facile da vivere. C’è infatti il diritto degli studiosi a guardare la Scrittura come a un vecchio libro tra tanti e quindi da studiare con le stesse tecniche impiegate per gli altri testi. Ma la Scrittura che conta per la fede non è questa: ciò che conta è la Bibbia vista come il luogo dove lo Spirito Santo parla del Cristo, in modo nuovo, a ciascuna generazione”.
L’approccio “scientifico” alla Scrittura sembra avere un fall-out, una ricaduta sconcertante nella pastorale quotidiana.
“In effetti le ipotesi degli specialisti giungono diluite se non deformate ai preti, ai laici, e fanno dei guasti. Anche di recente ho ascoltato un’omelia dove un parroco spiegava l’incontro dei discepoli col Cristo, sulla via di Emmaus, sentendosi in dovere di avvertire i suoi ascoltatori che non si tratta di un episodio ‘storico’. Questo dubbio coinvolge persino la realtà, la materialità della radice stessa della fede: il racconto della Risurrezione”.
Forse, questo sconcerto tra la gente comune è aggravato dal fatto che molti non sono più raggiunti dalla catechesi. C’è qualche insegnante che segnala come molti laici affollino i suoi corsi di teologia senza però conoscere la base. E cioè, il catechismo.
“Sì, bisogna tornare a dei catechismi seri, autentici. Anche qui Ratzinger ha ragione, dobbiamo ritrovare la struttura ineliminabile di ogni vera catechesi: il Credo, il Pater, i Sacramenti, il Dio creatore, il Dio redentore, lo Spirito che vive nella Chiesa. Non è più ammissibile che ciascuno si faccia un testo a suo gusto: da noi, nell’area germanica, ne circolano a centinaia. Spesso non sono neppure autenticati dai. vescovi”.

TdL. Gesù per loro non è che un profeta fallito

Ma ci sono catechismi ufficiali (come Pierres Vivantes in Francia) che sono stati approvati da tutta intera la Conferenza episcopale nazionale. Eppure sono stati criticati da Roma e si è dovuto rivederli.
“Torniamo qui al discorso sulle strutture anonime: spesso sono delle anonimità, degli uffici, delle commissioni. non dei vescovi con nome e cognome che danno quelle approvazioni. E poi, temo proprio che presso certi vescovi vi sia come paura per certe minoranze aggressive. Si dice che quattro o cinque persone padroneggino intere conferenze episcopali, e tra le più importanti e numerose”.
Occorre pur riconoscere che i problemi di fronte ai quali si trovano certe Conferenze sona talmente spinosi da rendere difficile l’unanimità. La Conferenza episcopale brasiliana, per esempio, deve gestire un caso complicato come quello di Leonardo Boff.
“Leonardo Boff, come Hans Kung, non è più cristiano”.
Quello che lei dice è grave.      ‘
“Non lo dico io, Io dice lui. Nel suo libro, ‘Passione di Cristo, passione del cristiano’, decima edizione, ammette di non credere alla divinità di Gesù. Sostiene quanto già sosteneva, agli inizi del secolo, Albert Schweitzer. Come lui, Boff dà per scontato che la divinizzazione di Gesù sia stata fatta dai discepoli dopo la Passione. Dunque, Gesù non era che un profeta che predicava il Regno imminente. Il Regno non è venuto, lo scacco è stato totale. In questa luce, il grido sulla croce (‘Dio mio, perché mi hai abbandonato?’) esprime la disperazione di un uomo che ha fallito”.
Anche questo revival di vecchie tesi del liberalismo della Belle Époque europea potrebbe confermare il sospetto di molti: certe teologie della liberazione come esportazione verso il Terzo Mondo di prodotti ormai démodés di intellettuali occidentali.
“C’è del vero. Il nocciolo di quelle teologie della liberazione viene dall’Europa ma certa elaborazione in senso violento è poi stata concepita sul posto. Uno dei padri della teologia della liberazione, il tedesco J.B. Metz, ha fatto conferenze in America latina, ma a molti, laggiù, è sembrato troppo astratto: le sue teorie volevano trasformarle in rivoluzione armata. Credo che il documento della Congregazione per la Fede abbia ragione: non ci si può servire delle analisi marxiste solo come una sorta di ‘strumento’ tecnico”.
Si discute anche del vero influsso sul popolo di certe teologie della liberazione: alcuni affermano che si tratta ancora di un fenomeno elitario.
“Molti pensavano che la rivoluzione marxista si sarebbe realizzata in pochi anni. Questo non è avvenuto, ma ora si indottrina il popolo, ‘coscientizzandolo’ con delle pubblicazioni al cui centro c’è il Cristo libertadòr, il ‘sovversivo nazareno’. Ratzinger ha dato la precedenza a questo fenomeno perché qui si toccano i punti decisivi della fede. É urgente che laggiù si faccia qualcosa. I teologi non devono più improvvisarsi sociologi ed economisti. Mi sembra che tutte le teologie della liberazione dimentichino che l’essenziale del Nuovo Testamento è la carità: non occorre altro, basta viverla”.
Ma molti le obietterebbero che carità è proprio aiutare i poveri a fare la rivoluzione.
“Anche il Papa ha detto che bisogna privilegiare i poveri (questo è Vangelo), ma a Puebla ha ribadito anche chiaramente che il cristiano deve rifuggire dalla violenza, che il clero non deve in alcun modo mescolarsi con una politica di parte. I ‘poveri di Jahvè’ della Bibbia non sono affatto il proletariato di Marx”.
I problemi sono tali e tanti che qualcuno, basandosi anche su quanto avviene in questi mesi, teme che la Chiesa possa divenire ingovernabile da Roma.
“Il Vaticano II impiega il termine di ‘comunione gerarchica’ per indicare la comunione di tutti i vescovi con Roma, simbolo visibile dell’unità. C’è da chiedersi se certi episcopati abbiano ancora con il Papa quella ‘comunione nell’amore’ di cui parla, ad esempio, un san Cipriano”.

Lefebvre e i suoi non sono i “veri cattolici”

Il suo discorso ritorna così alle Conferenze episcopali.
“Ad esse, il Concilio dedica una piccola frase. Alcuni ne hanno fatto invece il centro di tutto. Quando la struttura diventa troppo pesante, il vescovo finisce con l’essere paralizzato“.
Qual è il suo giudizio sullo stato attuale della liturgia?
“Se giudico dall’area germanica, ho l’impressione che sia sobria e che, se fatta bene, (cioè in modo davvero pio rispettosa del sacro [sic!] ) sia ben accetta alla maggioranza di quelli che vanno ancora in chiesa.
Una risposta che conforta perché replica a certi ambienti integristi che della riforma liturgica hanno fatto il loro cavallo di battaglia. E il centro del movimento lefebvriano è proprio qui, in Svizzera. Si dimentica troppo spesso che attacchi durissimi al Papa e a Ratzinger continuano a giungere proprio da quella direzione.
“Monsignor Lefebvre e i suoi non sono i veri cattolici. L’integrismo di destra mi sembra ancor più incorreggibile del liberalismo di sinistra. Credono di sapere già tutto, di non avere nulla da imparare. D’altro canto è contraddittoria la loro conclamata fedeltà ai Papi, ma solo a quelli che gli danno ragione. Ma questo attacco a tenaglia, su due fronti, è tipico di ogni fase dopo un Concilio“.

La Chiesa è femmina: Maria viene prima di Pietro

Girando tra Europa e America del Nord si ha l’impressione che le religiose, le suore, siano tra le più sconcertate da certa predicazione, magari le più sofferenti davanti alla crisi
“Per una giusta risposta ai problemi della donna nella Chiesa bisogna ridare il posto che merita a una mariologia molto sobria e insieme molto buona. Bisognerebbe ricordare a tutti i cattolici – a cominciare dalle donne – che, nella Chiesa, Maria ha un posto ancor più alto che quello di Pietro. La Chiesa è una realtà femminile ed è posta davanti ai successori, maschi, degli apostoli: il principio-Maria (dunque, il principio femminile) è più importante di quello gerarchico stesso, affidato alla componente maschile. Alcune suore – spinte spesso da certa teologia di uomini – non vedono che i curés, i preti, pensano cosi che l’ordinazione sacerdotale rappresenti il massimo del potere nella Chiesa. Ma questo è clericalismo. Maria – e non si tratta di fare del sentimentalismo – è il cuore della Chiesa. Un cuore femminile, che dobbiamo rivalutare come merita, in equilibrio con il servizio di Pietro. Questo non è devozionismo: questa è teologia della grande tradizione cattolica.
Dunque, la devozione mariana così singolare di  Giovanni Paolo II ha anche un significato teologico preciso?                                                
 “È così. Il Papa sa che il perno nascosto della Chiesa non è lui, è Maria; non è a caso che abbia voluto ‘Totus Tuus’ come motto del suo pontificato. Non c’è bisogno, forse, di proclamare nuovi dogmi mariani, ma dobbiamo riscoprire la ricchezza di quelli che già ci sono e che sono essenziali all’equilibrio delia fede autentica”.

Tornare al modello tridentino di seminario

Le suore sono spesso in crisi. Ma anche il disagio dei preti non è stato e non è da poco. Quali sono le cause principali?
“È spesso estremamente duro essere inviati in parrocchie scristianizzate, dove il curato non conta più nulla. Una volta era il centro di tutto, ora deve correre dietro a qualcuno per cercare di trattenerlo. Ma per fronteggiare e sopportare questa situazione occorrerebbe un’altra formazione dei preti.
Che intende dire?
Bisogna tornare al modello tradizionale, direi ‘tridentino’, seppur prudentemente aggiornato, di seminario. Io sarei d’accordo di non permettere alla maggior parte dei giovani seminaristi di studiare nelle università, come attualmente avviene. Devono studiare in seminari autentici, che siano seri, ‘clericali’: che li formino, cioè, ad essere ‘clero’, che li preparino al loro sempre più duro servizio. Le università esterne non possono fare questo. Il vescovo deve avere la possibilità di ricreare i seminari secondo le indicazioni date da Roma e nominarvi professori di sua fiducia. Ma spesso, anche se volesse farlo, ne è impedito da tutte le strutture che gli sono state create intorno”.
Il suo bilancio del post-Concilio sembra a chiazze: zone di luce e zone di ombra. Come, in effetti, sembra essere in realtà.
“Dopo ogni Concilio c’è stato il caos. Bisogna mettere nel bilancio anche certe cose che stanno nascendo e che sono come pianticelle; piccole per ora ma già vigorose, i cui semi sono stati piantati dal Vaticano II. Oggi, sulle cattedre di teologia, giunge una generazione che aveva 18-20 anni nel ’68 e che spesso porta nel suo insegnamento uno spirito liberale, di contestazione. Intanto, i grandi teologi di un tempo non ci sono più. Ma c’è anche una generazione nuova che si sta formando, giovani che si ribellano a certo conformismo, che intendono fare una teologia che sia insieme aperta alla Scrittura e alla grande tradizione cattolica. Anche tra i teologi già in cattedra, ci sono persone solide che stanno ripensando in modo nuovo l’intera fede. Un buon lavoro in questo senso è stato fatto anche dal teologo Ratzinger. Lasciamo che Io Spirito lavori: ci sono dei virgulti che ‘spingono’, che stanno nascendo e che non sono certo contro il Concilio autentico, anzi sono nati da esso”.

Non bisogna ragionare troppo di Chiesa, ma viverla

Tra questi segni di speranza, il prefetto della Congregazione per la Fede mette anche i nuovi movimenti ecclesiali.
“E ha ragione. Essi sono, tra l’altro, la possibilità per la Chiesa di fare una teologia vivente. Ma in alcuni, a uno slancio magnifico fa riscontro una tentazione di chiusura. Il pericolo, per alcuni, è di divenire quasi delle sètte, di chiudersi in se stessi, mentre occorre più che mai ‘abbattere i bastioni’: essere, cioè, proiettati nella missione, verso il mondo”.
Non è, forse, un chiudersi istintivo per cercare di salvaguardare un’identità cattolica che sentono minacciata?
“Io cerco di costruire un istituto secolare al quale intendo comunicare uno spirito molto cattolico, un’identità precisa di Chiesa. Ma, posta questa base, desidero che sia aperto al massimo, a tutti. La casa va sorvegliata e tenuta in ordine, ma le porte devono restare spalancate a chiunque voglia entrare”.
Lei si è formato e ha lavorato per molti decenni nella Chiesa pre-conciliare. Ha poi vissuto, sempre come teologo, questo ventennio di post-Concilio. Che differenze avverte tra le due fasi?
‘Ha ragione il mio amico e maestro De Lubac e ha ragione Ratzinger quando rifiutano di parlare di Chiesa ‘pre’ o ‘post’ conciliare. C’è una sola chiesa. Vedo i pregi e i difetti del prima e del dopo ma ciò che mi è sempre importato è vivere il centro della Chiesa: questo non cambia e non cambierà mai. Non bisogna ragionare troppo sulla Chiesa: bisogna innanzitutto viverla. Essendo al contempo consapevoli che essa sempre è stata — e sempre sarà — un piccolo gregge”.
Sul suo tavolo c’è una foto del Papa. Questo mi conferma quanto è ben noto: la sua amicizia, la sua stima profonda per Giovanni Paolo II. E si sa che i suoi sentimenti sono ricambiati.
“Sì, amo molto questo Papa. Ma in fondo, non è questo che importa. Importante per tutta la Chiesa è piuttosto il fatto che quest’uomo vive di preghiera. Quando torna da quei suoi viaggi massacranti, tutto il suo seguito — dai prelati ai giornalisti — è stordito dalla fatica. Lui no, lui è raggiante: è la preghiera che Io nutre. Quando è venuto qui in Svizzera, qualcuno a Einsiedeln lo ha ingiuriato. Lui ha taciuto e poi, non si sa come, è sparito. Dopo un po’ Io hanno ritrovato: era in una cappella, prosternato davanti al tabernacolo. Al suo ritorno l’ho visto a Roma: era più che mai fresco, riposato. ‘Santità – gli ho chiesto – come fa a non essere mai stanco?’. Mi ha risposto ridendo: ‘Questo viaggio in Svizzera non è stato che un allenamento per prepararmi alla visita in Olanda’ [dove infatti la contestazione clerico-progressista arrivò al paradosso dei domenicani che lanciavano sassi contro il papa. Ndr]. Il suo segreto è l’orazione in cui è continuamente immerso”.

Il cristianesimo non è “anonimo”, come vorrebbe Rahner

Tra le cose che sembrano più preoccupare il Papa, nei suoi viaggi al di fuori dell’Europa, sembra esservi soprattutto la caduta della tensione missionaria verso i non cristiani.
“Sì, e di questa caduta è responsabile anche una certa versione, diluita e forse mal digerita, della teologia di Karl Rahner, con la sua teoria del ‘cristianesimo anonimo’. Rahner ha forse fornito l’occasione a certi teologi di esprimere ciò che essi avevano latente: secondo loro, in ogni uomo, qualunque sia la sua credenza (o la sua non credenza) c’è già la grazia, compito del cristiano sarebbe solo quello di fortificarlo nelle sue convinzioni. Poi, c’è stata un’attenzione esclusiva, in ogni caso eccessiva, per la promozione socioeconomica: è il Vangelo, in realtà, la prima ricchezza che dobbiamo donare ai poveri. Non si può rimandare l’annuncio del Cristo morto e risorto a quando saranno stati risolti i problemi economici”.

Dialogare, senza illusioni

Come svizzero di lingua tedesca, lei è da sempre molto attento ai problemi dei rapporti tra le varie confessioni cristiane. Che giudizio dà dell’attuale momento ecumenico?
“Purtroppo, il dialogo si è rivelato un fantasma, una chimera. Non è possibile dialogare con le Chiese che non hanno quel centro di unità visibile, concreto, che è il Papato. Le Chiese protestanti sono talmente frantumate in tante denominazioni e divise poi al loro stesso interno, che ci si può intendere con una persona, con un teologo; ma tutto si ferma lì perché certamente altri verranno a dire che non la pensano allo stesso modo. Ne ho avuto esperienza personale con Karl Barth: con molti incontri, con molto lavoro ci sembrava di essere giunti a una possibile base di accordo. Ma quando l’abbiamo resa pubblica, ecco insorgere subito un altro professore di teologia di Zurigo, e poi un altro e un altro ancora, anch’essi protestanti ma in completo disaccordo con quanto diceva Barth. E ciò vale per tutto il mondo nato dalla Riforma; nessuno, ad esempio, potrà mai far sì che l’anglicanesimo sia una Chiesa, diviso com’è da sempre in vari tronconi”.
Una situazione deludente. Ma che, ci si augura, non vale però per le Chiese delI’Oriente ortodosso.
“Purtroppo vale anche per loro. Hai un bell’abbracciare Atenagora: ci sarà sempre un altro metropolita, un altro archimandrita, un altro vescovo che non è d’accordo. Anche nel discorso ecumenico, dunque, occorre realismo: la situazione (lo abbiamo visto di recente con il documento di Lima su Battesimo, Eucaristia, Matrimonio costato molto lavoro e respinto da molte Chiese) non permette di farsi illusioni”.











http://www.vittoriomessori.it/blog/2014/05/25/lintervista-proibita-e-perduta/maggio 25, 2014