lunedì 13 ottobre 2014

Il vero dilemma: indissolubilità o divorzio



Questo sinodo non è chiamato a decidere. Ma ormai l'ipotesi delle seconde nozze ha piena cittadinanza ai vertici della Chiesa. Il commento del cardinale Camillo Ruini




di Sandro Magister

ROMA, 13 ottobre 2014 – Dopo una settimana di sinodo una cosa risulta certa: il vero fuoco della discussione è l'ammissione o no del divorzio nel matrimonio cattolico.

Nel sinodo la parola divorzio è tabù. Nessuno dice di voler arrivare lì. Tutti proclamano a gran voce che la dottrina dell'indissolubilità deve rimanere intatta.

Quando però si vuole dare la comunione eucaristica ai divorziati risposati è come se di fatto, nel loro caso, il sacro vincolo coniugale originario non sussista più. Come già le Chiese ortodosse, anche la Chiesa cattolica ammetterebbe di fatto le seconde nozze.

È questa infatti la via battuta dai fautori dell'innovazione: non una irrealistica campagna per il divorzio cattolico, che solo alcuni teologi come Andrea Grillo o Hermann Häring reclamano esplicitamente, ma la proposta di un soccorso misericordioso a chi si vede negare la comunione perché risposatosi civilmente dopo lo scioglimento civile del proprio matrimonio sacramentale.

La proposta è allettante. Si presenta come medicina nei casi di sofferenza per un "diritto" sacramentale negato. Non importa che tali casi siano numericamente pochissimi. Bastano per far da leva a un cambiamento i cui effetti si prevedono enormemente più grandi.

La sociologia religiosa avrebbe molto da dire in proposito. Fino alla metà del Novecento, nelle parrocchie cattoliche, il divieto della comunione a chi era in una posizione matrimoniale irregolare non poneva problemi, perché restava praticamente invisibile. Anche dove la frequenza alla messa era alta, infatti, quelli che si comunicavano ogni domenica erano pochi. La comunione frequente era solo di chi si accostava frequentemente anche alla confessione. La riprova era il doppio precetto che la Chiesa rivolgeva alla gran massa dei fedeli: di confessarsi "una volta l'anno" e di comunicarsi "almeno a Pasqua".

Il non accedere alla comunione non era quindi uno stigma visibile di punizione o di emarginazione. Il motivo principale che tratteneva la gran parte dei fedeli dalla comunione frequente era l'altissimo rispetto per l'eucaristia, alla quale si doveva accedere solo dopo adeguata preparazione, e sempre con timore e tremore.

Tutto cambia negli anni del Concilio Vaticano II e del dopoconcilio. In breve la confessione va a picco mentre la comunione diventa un fenomeno di massa. Tutti o quasi vi accedono, sempre. Perché nel frattempo cambia l'idea corrente del sacramento eucaristico. La presenza reale del corpo e del sangue di Gesù nel pane e nel vino consacrati decade a presenza simbolica. La comunione diventa come il bacio di pace, un segno di amicizia, di condivisione, di fraternità, "della serie: tutti vanno avanti, allora lo faccio anch'io", come disse papa Benedetto XVI, che tentò di ripristinare il senso autentico dell'eucaristia tra l'altro facendo inginocchiare i fedeli a cui dava l'ostia in bocca.

In un simile contesto, era inevitabile che il divieto di comunicarsi fosse assunto tra i divorziati risposati come la negazione pubblica di un "diritto" di tutti al sacramento. La rivendicazione era ed è di pochi, perché la gran parte dei divorziati risposati è lontana dalla pratica religiosa, mentre tra i praticanti non mancano quelli che comprendono e rispettano la disciplina della Chiesa. Ma su questa tipologia ristrettissima di casi si è impostata, dagli anni Novanta e principalmente in alcune diocesi di lingua tedesca, una campagna per il cambiamento della disciplina della Chiesa cattolica in materia di matrimonio, che ha raggiunto l'acme nel pontificato di papa Francesco, col suo palese consenso.

Il concentrarsi del sinodo sulla questione dei divorziati risposati rischia inoltre di far perdere di vista situazioni molto più macroscopiche di crisi del matrimonio cattolico.

Poco prima del sinodo, ad esempio, è uscito nelle librerie italiane un reportage sull'azione pastorale impostata dall'allora cardinale Jorge Mario Bergoglio nelle periferie di Buenos Aires.

Da lì si apprende che la gran parte delle coppie, nella misura dell'80-85 per cento, non è sposata ma semplicemente convive, mentre tra gli sposati "la maggioranza dei matrimoni sono invalidi, perché la gente si sposa immatura", ma neppure ci prova poi a farne accertare la nullità dai tribunali diocesani.

Sono i "curas villeros", i preti inviati da Bergoglio nelle periferie, a fornire questi dati e a specificare con fierezza che si dà comunque la comunione a tutti, "senza alzare barricate".

Le periferie di Buenos Aires non sono un caso isolato, nell'America latina. E danno prova non di un successo ma semmai di un'assenza o di un fallimento della pastorale matrimoniale. In altri continenti il matrimonio cristiano è alle prese con sfide non meno gravi, dalla poligamia agli accoppiamenti forzati, dalle teorie del "gender" ai "matrimoni" omosessuali.

Di fronte a una sfida siffatta, questo sinodo e il successivo decideranno se la risposta adeguata sarà quella di aprire un varco al divorzio oppure di restituire al matrimonio cattolico indissolubile tutta la sua forza e bellezza alternativa, rivoluzionaria.

Quello che segue è l'intervento nella discussione non di un padre sinodale, ma di un cardinale di Santa Romana Chiesa che ha ritenuto doveroso non tacere.

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Il Vangelo della famiglia nell'Occidente secolarizzato





di Camillo Ruini


Quella cellula fondamentale della società che è la famiglia sta attraversando un periodo di straordinariamente rapida evoluzione.

Ormai appaiono ovvi i rapporti prematrimoniali e pressoché normali i divorzi, molto spesso come conseguenza della rottura della fedeltà coniugale. Ci allontaniamo così dalla fisionomia tradizionale della famiglia, nei paesi e nelle civiltà segnati dal cristianesimo.

Negli ultimi decenni poi, almeno in Occidente, siamo entrati in territori inesplorati. Si sono fatta strada, infatti, le idee del "gender" e dei “matrimoni omosessuali”.

Alla radice di tutto ciò vi è il primato, e quasi l’assolutizzazione, della libertà individuale e del sentimento personale. Perciò il legame familiare deve essere plasmabile a piacere e comunque non impegnativo, fino a scomparire o ad essere praticamente irrilevante.

Nella medesima logica questo legame deve essere accessibile a ogni tipo di coppia, sulla base della rivendicazione di una totale uguaglianza che non accetta le differenze, soprattutto quelle riconducibili a una volontà esterna, sia essa umana (le leggi civili) o divina (la legge naturale).

Rimane forte e diffuso, tuttavia, il desiderio di avere una famiglia e possibilmente una famiglia stabile: desiderio che si traduce nella realtà di tante famiglie “normali” e anche di numerose famiglie autenticamente cristiane. Queste ultime sono certo una minoranza, ma consistente e assai motivata.

La sensazione che la famiglia propriamente intesa stia scomparendo è dunque in buona parte frutto della distanza tra il mondo reale e il mondo virtuale costruito dai mezzi di comunicazione, sebbene non si debba dimenticare che questo mondo virtuale influisce potentemente sui comportamenti reali.

A uno sguardo sereno ed equilibrato appaiono quindi poco fondati, riguardo alla famiglia e al suo futuro, il pessimismo unilaterale e la rassegnazione. Vale piuttosto anche per la pastorale della famiglia l’atteggiamento del Concilio Vaticano II verso i tempi nuovi, atteggiamento che possiamo riassumere nel binomio accoglienza e riorientamento verso Cristo salvatore.

In concreto, nella "Gaudium et spes", nn. 47-52, abbiamo riguardo al matrimonio e alla famiglia un nuovo approccio, assai più personalistico ma senza rotture con la concezione tradizionale. Poi le catechesi sull’amore umano di san Giovanni Paolo II e l’esortazione apostolica "Familiaris consortio" hanno costituito un grande approfondimento, che apre prospettive nuove e affronta molti dei problemi attuali. Sebbene queste catechesi non potessero misurarsi esplicitamente con gli sviluppi più recenti e più radicali, come la teoria del "gender" e il matrimonio tra persone dello stesso sesso, hanno tuttavia già posto, in buona misura, le basi per affrontarli.

Indubbiamente la pratica pastorale non sempre è stata all’altezza di questi insegnamenti – e del resto non può mai esserlo compiutamente –, ma si è mossa nella loro linea con importanti risultati: sono anche suo frutto, infatti, le nostre giovani famiglie cristiane.

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Ora, con papa Francesco, abbiamo due sinodi riguardo alle sfide pastorali sulla famiglia nel contesto della nuova evangelizzazione, dopo il concistoro del febbraio scorso che è già entrato nell’argomento: una tappa ulteriore in questo cammino di accoglienza e riorientamento che tutta la Chiesa è chiamata a percorrere con fiducia.

L’ottica dei due sinodi deve essere chiaramente universale e nessuna area geografica o culturale può pretendere che i sinodi si concentrino solo sui propri problemi.

Ciò premesso, per l’Occidente le questioni più rilevanti sembrano essere quelle più radicali sorte negli ultimi decenni. Esse spingono a ripensare e rimotivare, alla luce del Vangelo della famiglia, il significato e il valore del matrimonio come alleanza di vita tra l’uomo e la donna, orientata al bene di entrambi e alla generazione ed educazione dei figli e dotata di una decisiva rilevanza anche sociale e pubblica.

Qui la fede cristiana deve mostrare una vera creatività culturale, che i ainodi non possono produrre automaticamente ma possono stimolare, nei credenti e in quanti si rendono conto che è in gioco una fondamentale dimensione umana.

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Continuano però ad interpellarci e sembrano diventare sempre più acute anche altre questioni, già ripetutamente affrontate dal magistero. Tra queste quella dei divorziati risposati.

La "Familiaris consortio", n. 84, ha già indicato l’atteggiamento da assumere: non abbandonare coloro che si trovano in questa situazione, ma al contrario averne speciale cura, impegnandosi a mettere a loro disposizione i mezzi di salvezza della Chiesa. Aiutarli quindi a non considerarsi affatto separati dalla Chiesa e a partecipare invece alla sua vita. Discernere bene, inoltre, le situazioni, specialmente quelle dei coniugi abbandonati ingiustamente rispetto a quelle di chi ha invece colpevolmente distrutto il proprio matrimonio.

La medesima "Familiaris consortio" ribadisce però la prassi della Chiesa, “fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati”. La ragione fondamentale è che “il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa che è significata e attuata dall’Eucaristia”.

Non è dunque in questione una loro colpa personale ma lo stato in cui oggettivamente si trovano. Perciò l’uomo e la donna che per seri motivi, come ad esempio l’educazione dei figli, non possono soddisfare l’obbligo della separazione, per ricevere l’assoluzione sacramentale e accostarsi all’Eucaristia devono assumere “l’impegno di vivere in piena castità, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi”.

Si tratta indubbiamente di un impegno molto difficile, che di fatto viene assunto da pochissime coppie, mentre sono purtroppo sempre più numerosi i divorziati risposati.

Si stanno cercando quindi, da tempo, altre soluzioni. Una di esse, pur mantenendo ferma l’indissolubilità del matrimonio rato e consumato, ritiene di poter consentire ai divorziati risposati di ricevere l’assoluzione sacramentale e di accostarsi all’Eucaristia, a precise condizioni ma senza doversi astenere dagli atti propri dei coniugi. Si tratterebbe di una seconda tavola di salvezza, offerta in base al criterio della "epicheia" per unire alla verità la misericordia.

Questa via non sembra però percorribile, principalmente perché implica un esercizio della sessualità extraconiugale, dato il perdurare del primo matrimonio, rato e consumato. In altre parole, il vincolo coniugale originario continuerebbe ad esistere ma nel comportamento dei fedeli e nella vita liturgica si potrebbe procedere come se esso non esistesse. Siamo quindi di fronte a una questione di coerenza tra la prassi e la dottrina, e non soltanto a un problema disciplinare.

Quanto alla "epicheia" e alla "aequitas" canonica, esse sono criteri molto importanti nell’ambito delle norme umane e puramente ecclesiali, ma non possono essere applicate alle norme di diritto divino, sulle quali la Chiesa non ha alcun potere discrezionale.

A sostegno dell’ipotesi predetta si possono certamente addurre soluzioni pastorali analoghe a quelle proposte da alcuni Padri della Chiesa ed entrate in qualche misura anche nella prassi, ma esse non ottennero mai il consenso dei Padri e non furono in alcun modo dottrina o disciplina comune della Chiesa (cfr. la lettera della congregazione per la dottrina della fede ai vescovi della Chiesa cattolica circa la recezione della comunione eucaristica da parte di fedeli divorziati risposati, 14 novembre 1994, n. 4). Nella nostra epoca, quando, per l’introduzione del matrimonio civile e del divorzio, il problema si è posto nei termini attuali, esiste invece, a partire dall'enciclica "Casti connubii" di Pio XI, una chiara e costante posizione comune del magistero, che va in senso contrario e che non appare modificabile.

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Si può obiettare che il Concilio Vaticano II, senza violare la tradizione dogmatica, ha proceduto a nuovi sviluppi su questioni, come quella della libertà religiosa, sulle quali esistevano encicliche e decisioni del Sant'Ufficio che sembravano precluderli.

Ma il paragone non convince perché sul diritto alla libertà religiosa si è prodotto un autentico approfondimento concettuale, riconducendo questo diritto alla persona come tale e alla sua intrinseca dignità, e non alla verità astrattamente concepita, come si faceva in precedenza.

La soluzione proposta sui divorziati risposati non si basa invece su un simile approfondimento. I problemi della famiglia e del matrimonio incidono inoltre sul vissuto quotidiano delle persone in maniera incomparabilmente più grande e concreta rispetto a quelli della fondazione della libertà religiosa, il cui esercizio nei paesi di tradizione cristiana già prima del Vaticano II era comunque in larga misura assicurato.

Dobbiamo quindi essere molto prudenti nel modificare, riguardo al matrimonio e alla famiglia, le posizioni che il magistero propone da gran tempo e in maniera tanto autorevole: in caso contrario sarebbero assai pesanti le conseguenze sulla credibilità della Chiesa.

Ciò non significa che ogni possibilità di sviluppo sia preclusa. Una strada che appare percorribile è quella della revisione dei processi di nullità del matrimonio: si tratta infatti di norme di diritto ecclesiale, e non divino.

Va quindi esaminata la possibilità di sostituire il processo giudiziale con una procedura amministrativa e pastorale, rivolta essenzialmente a chiarire la situazione della coppia davanti a Dio e alla Chiesa. È molto importante però che qualsiasi cambiamento di procedura non diventi un pretesto per concedere in maniera surrettizia quelli che in realtà sarebbero divorzi: un’ipocrisia di questo genere sarebbe un gravissimo danno per tutta la Chiesa.

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Una questione che va al di là degli aspetti procedurali è quella del rapporto tra la fede di coloro che si sposano e il sacramento del matrimonio.

La "Familiaris consortio", n. 68, mette giustamente l’accento sui motivi che inducono a ritenere che chi chiede il matrimonio canonico abbia fede, sia pure in grado debole e da riscoprire, rafforzare e far maturare. Sottolinea inoltre che delle ragioni sociali possono lecitamente entrare nella richiesta di questa forma di matrimonio. È sufficiente pertanto che i fidanzati “almeno implicitamente acconsentano a ciò che la Chiesa intende fare quando celebra il matrimonio”.

Voler stabilire ulteriori criteri di ammissione alla celebrazione, che riguardino il grado di fede dei nubendi, comporterebbe invece gravi rischi, a cominciare da quello di pronunciare giudizi infondati e discriminatori.

Di fatto, però, sono purtroppo molti oggi i battezzati che non hanno mai creduto o non credono più in Dio. Si pone dunque la questione se essi possano validamente contrarre un matrimonio sacramentale.

Su questo punto rimane di valore fondamentale l’introduzione del cardinale Ratzinger al volumetto "Sulla pastorale dei divorziati risposati" pubblicato nel 1998 dalla congregazione per la dottrina della fede.

Ratzinger (Introduzione, III, 4, pp. 27-28) ritiene che si debba chiarire “se veramente ogni matrimonio tra due battezzati è 'ipso facto' un matrimonio sacramentale”. Il Codice di diritto canonico lo afferma (can. 1055 § 2) ma, come osserva Ratzinger, il Codice stesso dice che ciò vale per un valido contratto matrimoniale, e in questo caso è precisamente la validità a essere in questione. Ratzinger aggiunge: “All’essenza del sacramento appartiene la fede; resta da chiarire la questione giuridica circa quale evidenza di 'non fede' abbia come conseguenza che un sacramento non si realizzi”.

Sembra pertanto accertato che, se veramente non c’è fede, non c’è nemmeno il sacramento del matrimonio.

Riguardo alla fede implicita la tradizione scolastica, con riferimento a Ebrei 11, 6 (“chi si avvicina a Dio deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano”), richiede almeno la fede in Dio rimuneratore e salvatore.

Mi sembra però che questa tradizione vada aggiornata alla luce dell’insegnamento del Vaticano II, in base al quale possono giungere alla salvezza che richiede la fede anche “tutti gli uomini di buona volontà, nel cui cuore lavora invisibilmente la grazia”, compresi coloro che si ritengono atei o comunque non sono giunti a una conoscenza esplicita di Dio (cfr. "Gaudium et spes", 22; "Lumen gentium", 16).

Ad ogni modo questo insegnamento del Concilio non implica affatto un automatismo della salvezza e uno svuotamento della necessità della fede: mette invece l’accento non su un astratto riconoscimento intellettuale di Dio bensì su una, per quanto implicita, adesione a lui come scelta fondamentale della nostra vita.

Alla luce di questo criterio, nella situazione attuale sono forse da ritenere ancora più numerosi i battezzati che di fatto non hanno fede e che pertanto non possono contrarre validamente il matrimonio sacramentale.

Sembra quindi davvero opportuno e urgente impegnarsi a chiarire la questione giuridica di quella “evidenza di non fede” che renderebbe non validi i matrimoni sacramentali e che impedirebbe per il futuro ai battezzati non credenti di contrarre un tale matrimonio.

Non dobbiamo nasconderci, d’altra parte, che si apre così la via a cambiamenti molto profondi e carichi di difficoltà, non solo per la pastorale della Chiesa ma anche per la situazione dei battezzati non credenti.

È chiaro infatti che essi hanno, come ogni persona, diritto al matrimonio, che contrarrebbero in forma civile. La difficoltà maggiore non sta nel pericolo di compromettere il rapporto tra ordinamento canonico e ordinamento civile: la loro sinergia è già diventata infatti molto debole e problematica, per il progressivo allontanarsi del matrimonio civile da quelli che sono i requisiti essenziali dello stesso matrimonio naturale.

L’impegno dei cristiani e di quanti siano consapevoli dell’importanza umana e sociale della famiglia fondata sul matrimonio dovrebbe piuttosto essere rivolto ad aiutare gli uomini e le donne di oggi a riscoprire il significato di quei requisiti. Essi si fondano nell’ordine della creazione e proprio per questo valgono per ogni tempo e possono concretizzarsi in forme adatte ai tempi più diversi.

Vorrei terminare richiamando l’intenzione comune che anima coloro che stanno intervenendo nel dibattito sinodale: tenere insieme, nella pastorale della famiglia, la verità di Dio e dell’uomo con l’amore misericordioso di Dio per noi, che è il cuore del Vangelo.











http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350894



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