mercoledì 10 settembre 2014

Iraq. Il coraggio di Sako, patriarca dei cristiani perseguitati: «Bene il dialogo con i musulmani, ma bisogna dire le cose come stanno»



Louis Sako
Ritratto del patriarca di Babilonia dei caldei, che guida i cristiani iracheni perseguitati
senza paura di criticare l’Occidente e l’islam, dando ragione della sua speranza:
 «Per noi la fede non è ideologia, ma un legame personale con Cristo»



 Leone Grotti

«Noi cristiani d’Iraq, in quanto minoranza perennemente costretta alle difficoltà e al sacrificio, sappiamo bene cosa significhi essere perseguitati, sequestrati, uccisi. Sappiamo per certo cosa vuol dire sentirsi impotenti! Ho detto talvolta che coloro che vogliono vedere l’inferno devono venire in Iraq!». Così scriveva il patriarca della Chiesa caldea Louis Raphael I Sako nella prefazione al libro dell’inviato di Tempi Rodolfo Casadei dal titolo: Tribolati ma non schiacciati (Lindau).


Louis Sako


SACERDOTE, VESCOVO, PATRIARCA. Era il 2012 e la comunità di cui non era ancora diventato patriarca (al tempo era arcivescovo di Kirkuk) non aveva già subito le umiliazioni e le immani sofferenze che in questi mesi i terroristi dello Stato islamico le stanno infliggendo. Conosceva già molto bene, però, per averlo vissuto sulla pelle, il significato delle parole “persecuzione”, “martirio”, “terrorismo”, “odium fidei”.
Nato il 4 luglio 1949 in un piccolo villaggio presso la città di Zakho, nel nord dell’Iraq, è stato ordinato sacerdote il 1 giugno 1974. Dopo aver studiato a Roma e a Parigi, specializzandosi in storia, studi cristiani orientali e studi islamici, è tornato a Mosul per prestare il proprio servizio sacerdotale dal 1986 al 1997. Fino al 2002 ha poi ricoperto la carica di rettore del seminario maggiore di Baghdad, nel 2003 è stato ordinato arcivescovo di Kirkuk e l’anno scorso nuovo patriarca di Babilonia dei caldei.

CRISTIANI, CITTADINI DI SERIE B. Questi dati, più che a informare sul curriculum ecclesiastico di Sako, servono a capire quanto il patriarca conosca bene il suo paese, insieme al significato e alle implicazioni che comportano essere un cristiano in Iraq: «Gli uomini di potere musulmani sunniti e sciiti hanno come unico punto di riferimento per la loro azione politica la loro religione, e pensano che i cristiani, che lo accettino oppure no, siano cittadini di seconda categoria che dovrebbero lasciare il paese se non sono contenti della tolleranza loro riservata», scriveva nella prefazione al libro di Casadei.
E ancora: «Le nostre Chiese in Oriente sono Chiese apostoliche perché sono martiri. La fede infatti non è né una questione ideologica, né un’utopia, quanto piuttosto un legame personale, a volte esistenziale con la persona di Cristo, che amiamo e al quale doniamo l’intera nostra vita. Per Lui, bisogna ogni giorno andare un po’ più lontano, fino al sacrificio. Tale è l’espressione assoluta della fedeltà a questo amore: oggi più che mai, in Iraq noi siamo consapevoli che credere significa amare e amare significa donarsi».


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«L’OCCIDENTE FACILITA LA FUGA». Il sacrificio chiesto agli iracheni si è fatto sempre più grande negli anni. Sako ha visto dal 2003, dall’instabilità seguita all’invasione americana, una comunità di 1,5 milioni di cristiani ridursi anno dopo anno fino a circa 300 mila fedeli e non si è mai tirato indietro quando c’era da analizzare la situazione e da indicare all’Occidente la via per aiutare i cristiani iracheni: «A volte l’Occidente facilita la fuga dei cristiani», affermava in un’intervista a tempi.it già nel 2012. «Molti comprano un visto con migliaia e migliaia di dollari, vanno via ad abitare in terra straniera dimenticandosi della loro tradizione, della loro terra, perdendo gli amici, la famiglia e anche la fede. È molto brutto. La comunità internazionale invece di spendere soldi per fornire loro abitazioni all’estero, dovrebbe investirli qui per fare progetti educativi e migliorare la vita di chi vive nella miseria. Ci servono infrastrutture, alloggi, scuole. Noi non vogliamo andarcene dall’Iraq, non vogliamo restare in pochi per essere una presenza simbolica».


LEZIONI DI DIALOGO. A un anno dalla sua elezione a patriarca, pochi mesi prima che lo Stato islamico conquistasse Mosul aprendo una nuova stagione di persecuzione per i cristiani, ha dato all’Occidente una importante lezione di dialogo e non solo: «L’Occidente è cieco perché non ha religione, non se ne preoccupa più, anzi accoglie i musulmani, permette loro di costruire moschee e centri religiosi mentre i paesi arabi non permettono ai cristiani neanche di tenere in casa la Bibbia. Ci deve essere reciprocità ma l’Occidente non la richiede. I paesi occidentali devono aiutare i cristiani non in quanto cristiani, ma in quanto minoranze. Si parla dei diritti dell’uomo, ma dove sono questi diritti? L’Occidente cerca solo interessi, basta guardare che risultato hanno avuto le guerre in Medio Oriente. Dove sono la democrazia e la libertà in Libia? Dove sono in Siria?».


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VICINO AI PERSEGUITATI. In questi mesi, anche per colpa dell’indifferenza della comunità internazionale, la comunità cristiana guidata da Sako si è trovata di fronte a un terribile aut aut imposto dai terroristi islamici: rinnegare la fede in Gesù e convertirsi all’islam, perdere tutto o essere uccisi. Migliaia di persone, impartendo una lezione a noi cristiani tiepidi d’Occidente, hanno scelto di farsi profughi e di lasciare la propria casa a Mosul o nella piana di Ninive per dormire per strada in Kurdistan. E ancora Sako è rimasto loro vicino chiedendo alle «superpotenze» di smettere di «sostenere a livello economico e militare» i terroristi per «tagliare alla radice le fonti di violenza e radicalizzazione».


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DOTE DEL REALISMO. La schiettezza e il realismo sono sicuramente tra le più grandi qualità del patriarca caldeo. Anche in questi giorni, a margine dell’incontro per favorire la pace promosso dalla Comunità di Sant’Egidio ad Anversa, ha aiutato a leggere la difficile situazione in cui l’Iraq è piombato: «Quando parliamo della pace noi capiamo che cosa sono pace e dialogo. Ma anche l’altro deve sapere, deve essere cosciente di cosa significano dialogo e pace; deve impegnarsi non solo con le parole, ma nel concreto. (…) Penso che il mondo musulmano stia vivendo una crisi. Il mondo musulmano che qui chiede l’incontro e ripudia la violenza non è realista. Devono avere il coraggio di dire le cose come stanno e cercare soluzioni. Loro devono imparare dalla nostra esperienza: se l’Islam vuole essere accettato e avere un avvenire, deve essere aggiornato. Oggi, con questa mentalità, con questa ideologia che combatte la vita e la cultura, il realismo dov’è?».


L’ORIGINE DELLA SPERANZA. E ancora: per proteggere i cristiani «ci vuole un intervento militare internazionale, prima di tutto. Il governo centrale è incapace, perché adesso non controlla che la metà del Paese: controlla Baghdad e il sud; ma Mosul, Ramadi, il Kurdistan? C’è un esercito di professionisti, ci sono tante milizie… Tutto è settario. L’Is è uno Stato molto forte, ben preparato e hanno le armi… Non possiamo riuscire da soli».
In mezzo a questo dramma è quasi incredibile che Sako riesca a conservare la speranza, di cui spiega sempre l’origine ai cronisti di tutto il mondo: «Noi siamo forti, perché per noi la fede, il credere non è una ideologia, non è una speculazione. Credere è amare», è «un legame personale, a volte esistenziale con la persona di Cristo, che amiamo e al quale doniamo l’intera nostra vita».





TEMPI 10 settembre 2014



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