martedì 2 settembre 2014

Così il governo seppellisce il matrimonio





Continua il processo di corrosione rivoluzionaria degli italiani iniziata nel 1861, o ancor prima con l'invasione napoleonica. Creare individui senza storia, senza famiglia, senza una cultura che non siano i dogmi imposti dalla scuola (o squola?) pubblica e dai mass media. Degli ebeti che ormai non sanno più chi è Dante o San Tommaso e sanno solo accumulare denaro per andare un mese in vacanza. Gli italiani finiscono non solo per il calo demografico ma anche per la distruzione dell'italianità, di ciò che ci accomuna e ci rende veri uomini: la Cristianità.
Per fortuna la crisi economica fermerà tutto questo e quando mancherà il pane si ritornerà alla realtà e ai veri valori.
Per ora lo Stato vuol formare l'uomo egoista che sfoga solo istinti senza responsabilità eccetto quella di pagare le tasse.
La responsabilità nostra invece è quella di formare il nostro prossimo all'amore per la sana dottrina e per la Verità. Io consiglio tramite la vicinanza personale.
Per questo stiamo costruendo una rete di formazione "vicina", che oltre ad incontri e conferenze aperti al pubblico faccia anche incontri nei singoli gruppi e nelle varie comunità parrocchiali.

Per informazioni 3665278823
santignaziodiloyolapistoia@gmail.com

Ricordiamo che ci è stato promesso "alla fine il mio Cuore Immacolato vincerà", non dobbiamo piantare tende come voleva fare Pietro sul Tabor, ma assaporare le buone cose per combattere il mondo, amare il prossimo e affrontare le croci per raggiungere nella gloria Chi ha già vinto per noi.

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di Alfredo Mantovano

E due! Per il divorzio il governo Renzi segue il “metodo-droga”. Fra marzo e maggio, cogliendo l’occasione di una sentenza della Consulta e mentre l’attenzione relativa ai temi eticamente sensibili era concentrata sul “d.d.l. Scalfarotto”, esso varò un decreto legge che, come su questo giornale abbiamo ripetutamente documentato, fa tornare indietro di trent’anni, depenalizzando di fatto la detenzione e lo spaccio di strada: i tempi ristretti di conversione del decreto hanno impedito l’approfondimento che sarebbe stato indispensabile; il doppio voto di fiducia in entrambi i rami del Parlamento hanno precluso il confronto sull’essenziale.

Ci risiamo sul divorzio: il Consiglio dei ministri di venerdì scorso ha licenziato un decreto legge e sei disegni di legge in materia di giustizia. Il decreto legge, non ancora uscito sulla Gazzetta Ufficiale, le cui norme avranno vigore dal momento dalla pubblicazione, è stato enfaticamente denominato “taglia-liti” e punta a snellire i ruoli dei giudici civili, introducendo forme alternative – non del tutto nuove – di risoluzione delle controversie. Il meccanismo prevede che, prima di avviare una causa davanti al giudice, le parti, con l’aiuto dei propri avvocati, tentino la soluzione amichevole della lite con un accordo denominato “convenzione di negoziazione assistita”; il tentativo di accordo è obbligatorio per alcune controversie, come i danni da circolazione stradale, facoltativo per altre, ed è invece vietato quando il contenzioso riguardi “diritti indisponibili”. L’articolo 6 del decreto estende questa procedura anche ai “coniugi al fine di raggiungere una soluzione consensuale di separazione personale”, di divorzio, “di modifica della condizioni di separazione o di divorzio”, purché non vi siano figli minori o figli di maggiore età non autosufficienti.

Per cogliere la portata della modifica va ricordato che la legge ancora in vigore prevede quale presupposto più diffuso per il divorzio la pronuncia di una sentenza definitiva di separazione fra i coniugi, o di omologa della consensuale; prevede altresì che siano trascorsi almeno tre anni dalla comparizione di marito e moglie davanti al presidente del tribunale per l’udienza di separazione. La separazione precede il divorzio e il tempo fissato dalla legge ha lo scopo di favorire ripensamenti o ricomposizioni: il giudizio di separazione è l’occasione per prendere le distanze da una situazione di difficile convivenza/coabitazione, lasciando aperta la prospettiva di un ritorno alla vita comune insieme (poco probabile, ma non impossibile), derivante da una congrua esperienza di vita per conto proprio.

La legge stabilisce poi che il giudice che incontra la coppia ai fini della separazione e del divorzio è il presidente del tribunale, o un suo delegato: quasi a caricare di significato – in virtù della maggiore autorevolezza del magistrato – la verifica della effettiva volontà e possibilità di mantenere il rapporto matrimoniale. E fa in modo che l’udienza davanti a tale giudice ci sia realmente; così il comma 7 dell’articolo 4 della legge sul divorzio: “I coniugi devono comparire davanti al presidente del tribunale personalmente, salvo gravi e comprovati motivi, e con l'assistenza di un difensore. Se il ricorrente non si presenta o rinuncia, la domanda non ha effetto. Se non si presenta il coniuge convenuto, il presidente può fissare un nuovo giorno per la comparizione, ordinando che la notificazione del ricorso e del decreto gli sia rinnovata. All'udienza di comparizione, il presidente deve sentire i coniugi prima separatamente poi congiuntamente, tentando di conciliarli.” La ragione di tutto ciò è evidente: pur disciplinando il divorzio, la legge non trascura che il matrimonio è il fondamento naturale della famiglia; e poiché la famiglia ha rilievo pubblico e ha peso per l’intero ordinamento, il magistrato più elevato dell’ufficio giudiziario, colui che lo presiede, ha il compito, per quel che gli è possibile, di evitare la frattura, con un iter che di per sé richiama alla serietà e alla gravità di quanto accade.

Per completezza di quadro, l’articolo 12 del decreto-legge prevede una modalità concorrente per giungere al medesimo risultato: l’accordo di separazione personale o di divorzio – con le stesse limitazioni riguardanti i figli – può raggiungersi senza avvocati se i coniugi lo concludono andando in Comune davanti all’ufficiale dello stato civile, anche in un Comune diverso da quello nel quale si sono sposati.

Le modifiche introdotte dal decreto “taglia-liti” non sono un semplice snellimento della procedura. Sono un’altra cosa: con due brevi articoli istituiscono un regime diverso. Si arriva alla separazione o al divorzio (lo si ripete: purché non ci siano minori o figli non autosufficienti) senza passare dal giudice, con la mera assistenza di un avvocato o di un impiegato del municipio. Il che vuol dire più cose contemporaneamente:

a. privatizzazione del matrimonio e del suo vigore. L’avvocato non è né diventa un pubblico ufficiale, e ancor meno un sostituto del giudice. La sua assistenza è finalizzata in via esclusiva a conferire veloce efficacia a una manifestazione di volontà delle parti. Che questa procedura non sia ammissibile in presenza di figli minorenni (fino a quando?) conferma che questi ultimi rappresentano il residuo del profilo pubblicistico del matrimonio: l’assunzione di reciproci doveri e impegni fra i coniugi perde invece questo tratto;

b. eliminazione del tentativo di comporre le divergenze fra i coniugi. Non si può replicare che se un coniuge arriva a chiedere il divorzio non ha nessuna volontà di giungere a una conciliazione: sia perché non è vero in assoluto, sia perché togliere di mezzo il giudice – e il giudice formalmente più autorevole, il presidente del tribunale – è conseguenza logica della cancellazione della rilevanza sociale e pubblica del matrimonio;

c. dichiarare che tutto ciò che riguarda il matrimonio è “diritto disponibile”. È l’effetto della contemporanea previsione della “convenzione di negoziazione assistita” per separazione e divorzio e della preclusione della convenzione medesima quando sono in discussione “diritti indisponibili”: sarà interessante sapere quale sarà la qualifica del diritto agli alimenti…

Quando queste nuove disposizioni verranno affiancate da quelle del “divorzio sprint” all’esame del Senato, lo scioglimento del vincolo matrimoniale avverrà sgommando: le norme passate quasi alla unanimità alla Camera riducono fino a sei mesi il tempo necessario per pervenire al divorzio, facendo decorrere il termine dalla notifica del ricorso per separazione. Il che vuol dire divorzio assicurato in meno di otto mesi dall’istanza di separazione, dal momento che la “convenzione di negoziazione assistita” deve completarsi in un tempo non inferiore a un mese. Fra qualche settimana, quindi, una volta approvati il decreto legge e il “divorzio sprint”, il nuovo “matrimonio all’italiana” sarà un contratto privatistico, rescindibile con una velocità maggiore rispetto a quella necessaria per interrompere la somministrazione dell’elettricità o per cambiare gestore telefonico; i giuristi si diletteranno nel definire l’aspetto prevalente del nuovo patto fra i coniugi, ma la riduzione del peso di esso per l’ordinamento sarà nella lettera delle nuove norme.

Intendiamoci. La discussione in Parlamento deve ancora iniziare, e i voti – in Commissione e in Aula – non sono ancora stati espressi. L’esperienza del decreto droga non conforta: se il governo porrà la fiducia, o comunque insisterà per l’approvazione del testo così come è, tutti i deputati e i senatori che ne compongono la maggioranza si allineeranno anche stavolta?


(La nuova Bussola Quotidiana   02-09-2014)

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Fermare la deriva giudiziaria. Si deve


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di Alfredo Mantovano

Sentenze come quella del Tribunale per i minorenni di Roma (d’ora in avanti TM Roma) sull’adozione di una bambina da parte di due donne conviventi, al di là del merito sul quale intervengono, sono in qualche misura “pilota”: il dibattito che si sviluppa dopo che sono rese note si concentra poco sulla loro effettiva conformità all’ordinamento; si sviluppa di più sulla questione dello sconfinamento degli ambiti di competenza; a polemiche sopite, costituiscono comunque un precedente, piazzano una bandierina che sventola.

Alla fine, ottengono il risultato: se un collegio giudicante stabilisce con dieci fitte pagine di motivazioni che una coppia costituita da persone dello stesso sesso può adottare un figlio, vuol dire che non è una cosa fuori dal mondo; in Parlamento verrà più facile mandare avanti i testi, già esistenti, sulla civil partnership, cioè sul simil matrimonio fra persone dello stesso sesso; altri giudici potranno mutuare le motivazioni per provvedimenti analoghi; alla fine potrebbe avere ragione chi sostiene, come più d’un commentatore sui quotidiani di ieri, che il problema non è far crescere una fanciulla con due genitori dello stesso sesso, bensì che ciò sia stabilito da un tribunale e non dalle Camere: che quindi devono darsi una mossa!

E invece ripartiamo dalla sentenza: anzitutto per verificare se è conforme all’ordinamento italiano. Dal profilo propriamente giurisdizionale si può poi passare a quello in senso lato culturale, per rispondere al quesito del perché oggi sentenze come queste si moltiplicano, e concludere con quello politico/legislativo. Saltare i passaggi significa accontentarsi del lamento e della protesta – giustificati a caldo di fronte all’assurdità di certe pronunce, improduttivi a medio/lungo termine – e in maniera implicita rassegnarsi a che l’aggressione ai fondamenti naturali del sistema sociale e giuridico prosegua senza resistenza e senza contrattacco.

La sentenza del TM Roma n. 299 del 30 giugno di quest’anno è tecnicamente sbagliata. Come è stato spiegato nell’immediatezza, anche ieri su questo giornale, il nocciolo della decisione ruota attorno alla estensione da dare all’articolo 44 della legge sulle adozioni, la n. 184 del 1983, il quale stabilisce le eccezioni alla regola secondo cui i bambini possono essere adottati solo da un uomo e da una donna uniti in matrimonio. In particolare, la lettera d) di tale articolo permette l’adozione “quando vi sia la constatata impossibilità di un affidamento preadottivo”.

La lettera della norma e la sua interpretazione giurisprudenziale, ricordate pure nella sentenza, riferiscono questa “impossibilità” a una condizione di fatto, alla circostanza cioè che per il minore non si sia trovato alcun aspirante all’affidamento. Il Tribunale di Roma ritiene invece che la “impossibilità” possa intendersi anche come “di diritto”: nel caso concreto era “impossibile” l’affidamento preadottivo della bambina perché la legge italiana lo permette solo a coppie coniugate, e quindi non alla convivente della madre biologica. Constatata l’“impossibilità” di diritto all’affidamento preadottivo, i giudici hanno poi ritenuto la “possibilità” dell’adozione da parte della donna. È veramente illogico: se il nostro ordinamento preclude l’affidamento preadottivo a persone non unite in matrimonio, vuol dire che chi non è sposato non è ammesso a svolgere nemmeno un periodo che è solo preparatorio e funzionale all’adozione; come si fa poi a sostenere che può adottare senza problemi, proprio facendo leva sulla preclusione attinente al periodo antecedente?

Ma non è solo la logica più elementare che contrasta con la sentenza. Quella giurisprudenza che il TM Roma liquida come antiquata è invece recente e autorevole: basta ricordare per tutte una sentenza del 27 settembre 2013 della 1^ sezione civile della Cassazione, la quale ha confermato senza incertezze che la nozione di “impossibilità di affidamento preadottivo” “attiene solo all’ipotesi di mancato reperimento (o rifiuto) di aspiranti all’adozione legittimante, e non a quella del contrasto con l’interesse del minore (che viene ampiamente richiamato nella pronuncia del TM Roma), essendo le fattispecie previste dalla norma tassative e di stretta interpretazione”. Il Parlamento può essere sollecitato a legiferare da tutto: ma che lo strumento per intervenire con una legge sia una sentenza di merito così evidentemente sbagliata e così in contrasto con la logica e con l’interpretazione del giudice di legittimità appare un po’ fuori luogo; immaginando che il pubblico ministero nella procedura, che ha espresso un avviso opposto a quello del TM Roma, impugni la sentenza, si potrebbe per lo meno attendere l’esito dell’appello o della eventuale cassazione.

Il dato culturale. Non sono mancati nel corso dei decenni – soprattutto degli ultimi anni – provvedimenti giudiziari ostili al diritto naturale: dalla disciplina delle convivenze alla manifestazione di volontà per interrompere la propria vita. Spesso alcune sentenze hanno manifestato una evidente connotazione ideologica. Nella stessa direzione e con le medesime spinte, componenti della magistratura associata – per tutte Magistratura democratica – organizzano in sedi istituzionali seminari di approfondimento/ orientamento su queste tematiche. Quel che pare di cogliere nella sentenza del TM Roma, senza ovviamente processare le intenzioni, è più un inserimento in un circuito cultural giudiziario trendy: come in omaggio a tale tendenza, sindaci non del tutto consapevoli istituiscono i registri per trascrivere i matrimoni fra persone omosessuali contratti all’estero… Se talune decisioni giudiziarie hanno anche questo tipo di spinta, è una ragione aggiunta, oltre che per sottoporle a studio e a critica rigorosa, per intensificare il lavoro di trasmissione di una – anche giuridicamente – attrezzata cultura della vita e della famiglia.

Il dato politico. Influenza il dato culturale e contribuisce a formare la tendenza. Passare dalla protesta – veemente ma sempre più rada e frammentata – all’impostazione, da parte di chi ne è convinto, di un’azione politica pro famiglia è oggi più necessario che mai. Il che vuol dire non cedere neanche di un passo rispetto alle leggi devastanti che si vogliono introdurre, dal divorzio sprint alla civil partnership (basta poco per far rovinare il sistema: la sentenza del TM Roma si basa sull’esegesi di un frammento di un comma). Significa convincersi, per esempio, che lo sblocca-Italia sarà coerente col nome che ha se si inizia con l’aiutare la famiglia, quella vera.






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