sabato 30 agosto 2014

Canto gregoriano e teologia liturgica: note in margine ad un divorzio






di Mattia Rossi 

(testo pubblicato sull'ultimo numero di Divinitas, Rivista internazionale di ricerca e di critica teologica Anno LVII (2014), n. 1, pp. 11-16, Città del Vaticano, curata da Mons. Brunero Gherardini)


Quello dell’oblio del canto gregoriano dal Novus Ordo Missae, il messale riformato da Paolo VI, è una quaestio che, negli affannosi anni del post-Concilio, si è imposta per la sua oggettiva mole di nefaste conseguenze e che – parafrasando il salmo 136 – potrebbe essere inquadrata all’interno di quella storia che andrebbe sotto il titolo di “Come cantare i canti del Signore in terra straniera?”. È un discorso complesso e articolato che non può essere sommariamente liquidato, come spesso apoditticamente avviene, con luoghi comuni privi di dimostrazioni o trincerandosi dietro la necessaria competenza che richiede la trattazione della materia. È giunto il momento di fare alcune necessarie precisazioni.
La sparizione della musica liturgica, e, nella fattispecie di questo contributo, del gregoriano, dalla messa postconciliare, a ben vedere descrive sufficientemente bene l’apogeo, nonché la raffigurazione simbolica anche cultuale, di una manifesta, quanto nociva, desistenza dall’Autorità.
Il canto sacro è sempre stato concepito dalla Chiesa non come un qualcosa “in più”, ma sostanzialmente come qualcosa di “diverso” dalla quotidianità del parlato: il canto era elemento strutturale della liturgia sempre, non solo nella festività. La liturgia era canto: questo era il primario compito del canto liturgico. In retorica, ogni proclamazione è sempre anche una interpretazione di ciò che viene annunciato. E se si tratta di liturgia, allora, la Parola esige di essere annunciata solennemente. La nuda recitazione banalizza e depaupera, è inevitabile. Se noi, nella liturgia, non celebriamo l’uomo, ma celebriamo Colui che è l’impronunciabile per eccellenza, ecco allora che le parole non bastano più, occorre “metafisicizzare” la pronuncia del sacro. A questo servono la musica e il canto, sin dai padri d’Israele.

Ma c’è di più, simbologicamente e teologicamente parlando. E per riuscire a salire il gradino e comprendere la gravità dello scatto innescato dal postconcilio e dall’embargo del gregoriano, occorre partire da lontano, da un paradosso: il canto gregoriano non è solamente canto. La vera natura del canto gregoriano è retorica ed esegetica prima ancora che musicale: la totale consustanzialità tra parola e neuma, la dipendenza dell’andamento musicale-ritmico dal senso esegetico che di quel testo si vuol dare, gli espedienti retorici, dei quali la composizione gregoriana si serve, sottolineano, per mezzo del fenomeno sonoro, un preciso significato che, in definitiva, corrisponde ad una precisa interpretazione scritturale. Questo è il senso di quel bagaglio di segni (i neumi) che accompagnano i testi nei manoscritti. È proprio sotto a quei segni che soggiace il significato primo e ultimo del gregoriano, la cui (ri)scoperta si dovette a un monaco dell’abbazia benedettina di Solesmes, dom Eugene Cardine. I neumi, che, a seconda di come sono posti e di dove sono posti, interpretano la Scrittura e fanno sì che il gregoriano possa essere definito lectio divina in musica. È per questo he la Chiesa l’ha sempre additato come “proprio”: perché è Lei che detiene l’esegesi delle Scritture. Con il gregoriano, la Chiesa, fa propria la retorica antica del cantus obscurior di Cicerone e della “inventio, dispositio, memoria, elocutio et actio” esposti nella “Rhetorica ad Herennium”. Con un canto meta-fisico, dunque, che va al di là della semplice sfera dell’udibile, e calato nella liturgia terrena, specchio della Gerusalemme celeste, la Chiesa Docente ha sempre veicolato la propria esegesi a trecentosessanta gradi comprendendovi anche la musica. La Chiesa Mater et Magistra ha sempre proposto il gregoriano perché esso è veramente suono dell’Invisibile, è epifania sonora del Verbo. È Dio, il quale non ha “bisogno della nostra lode”, che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo Spirito, una musica che dal Cielo discende sulla terra per conformare l’actio terrena a quella divina.

“Alzati, amica mia, mia bella e vieni! Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato” (Can 2, 10-12). Così, nel Cantico dei Cantici, lo sposo cerca la sua sposa: è figura dell’amore dello sposo-Dio verso la sua sposa-Israele; è l’amore dello sposo-Cristo verso la sua sposa-Chiesa. L’unione mistica di Dio con la sua Chiesa è paragonata, attraverso una bella immagine, al rifiorire della primavera e al ritorno di un bellissimo canto. È il canto che si ode nel momento in cui Dio va incontro all’uomo, e la liturgia è proprio questo: il Cielo aperto la cui luce si squarcia sull’altare, simulacro del Golgota, terreno. E il gregoriano, come incarnazione sonora del Verbo che è da sempre, è l’armonia celeste che si affaccia sulla terra ed è in grado di infondere la gioia e la speranza nel cuore come la cetra di Davide calmava lo “spirito cattivo” di Saul e lo trasformava in un altro uomo (1Sam 16, 14-23), una sorta di catarsi aristotelica o, se si preferisce, agostiniana.
In quanto lectio divina e in quanto esegesi, il canto sacro è il canto della Chiesa perché della Chiesa è la Tradizione e l’interpretazione della Parola di Dio. Il gregoriano, nella sua costrizione formale e compositiva e nei vincoli di fissità interpretativa, garantisce una risposta il meno indegna possibile e preparata alla Parola: è solo nella sua ortodossa solidità, così come accade nelle rubriche e nella immutabilità rituale, che il canto liturgico può garantire una degna e consapevole meditazione assoggettata alla Verità. In esso troviamo l’immagine sonora della Rivelazione: Scrittura (Parola) e Tradizione (esegesi). Ecco cosa si intende per designare il gregoriano come interpretazione sonora intera ed autentica del Logos. Il gregoriano è una sorprendente summa della lex orandi in musica che la Tradizione della Chiesa ci ha consegnato: in essa, nelle sue molteplici sfaccettature e significati reconditi, ci svela parte di quell’immenso carico di concetti e rimandi teologici che troppe banali superficialità liturgiche e slogan (pseudo)teologici, inconsapevolmente, oggi eliminano.

Il discorso, me ne rendo conto, può sembrare fin troppo astratto e teorico. Prendiamo, allora, un esempio: il communio della II domenica di Pasqua “Mitte manum” nel quale si riportano le parole che Gesù rivolse all’incredulo per antonomasia, san Tommaso. “Mitte manum tuam et cognosce loca clavorum, alleluia. Et noli esse incredulus sed fidelis, alleluia, alleluia” (“Metti la tua mano e senti il segno dei chiodi, alleluia. E non essere incredulo, ma credente, alleluia, alleluia”), recita il testo. Un brano musicalmente molto semplice che, però, inizia subito con tre termini molto forti e ognuno dei quali risulta, a suo modo, sottolineato dall’andamento ritmico. “Mitte”, metti: è l’invito che Gesù rivolge a Tommaso, è l’azione grazie alla quale l’apostolo incredulo può credere, è la porta, per Tommaso, della fede e viene rimarcata con un forte stacco alla prima nota. “Manum”, la seconda parola, è lo strumento con cui Tommaso approda alla fede: una grande liquescenza sulla seconda sillaba (-num) ingrandisce il termine e lo sottolinea unendolo a quello che segue. “Tuam”, metti la tua mano: è l’invito che Gesù, oggi, rivolge all’incredulo Tommaso che c’è in ciascuno di noi. Sulla seconda sillaba di “tuam” c’è un neuma speciale di sottolineatura: “Mitte manum tuam” tre parole distintamente sottolineate, ma che formano un’unica frase, un'unica esortazione ad aprirsi alla fede. Anche la congiunzione che segue, “et”, è fortemente allargata a creare l’attesa per la frase seguente: “cognosce loca clavorum”. Un “et” molto sospensivo che, però, prelude alla dichiarazione disarmante di Gesù: “senti il segno dei chiodi!”.
Straordinaria, però, per la comprensione di cosa sia realmente il canto gregoriano, è la seconda parte del brano, “Et noli esse incredulus, sed fidelis”: essa ha la stessa, identica, melodia di “et linivit oculos meos” del brano “Lutum fecit”, il communio della domenica quaresimale detta del cieco nato. Che magnifica retorica!: in due brani apparentemente distinti fra loro (uno a metà quaresima, l’altro all’inizio del tempo pasquale) sono, in realtà, fortemente collegati da una stessa medesima melodia. È chiaro che l’intento del compositore gregoriano è squisitamente retorico: collegare e rimandare tra di loro i due brani in quanto appartenenti ad un unico “argomento”, la fede. Ecco cos’è il gregoriano.

Ma tutto questo, come si diceva, è letteralmente sparito dalla vita della chiesa postconciliare. È vero che la “Sacrosanctum Concilium” definisce il canto gregoriano come “proprio della liturgia romana” al quale si deve riservare “il posto principale” (n. 116), ma – ed è, ormai, ora di dirlo chiaramente – non si premura minimamente di andare oltre. Anzi, leggiamo integralmente il numero 116 e traiamone qualche conclusione: “La Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale. Gli altri generi di musica sacra, e specialmente la polifonia, non si escludono affatto dalla celebrazione dei divini uffici, purché rispondano allo spirito dell'azione liturgica”.
Occorre, a questo punto, notare che quando è stata redatta la “Sacrosanctum Concilium” la liturgia Romana ancora esisteva, era quella tridentina (la stessa messa che, per inciso, anche al Vaticano II si celebrava…): il messale del 1962 che, Giovanni XXIII, volle “donare al Concilio”. E fu quel messale lì ad essere “rivisto” – passatemi il termine semplificativo – secondo i dettami della “Sacrosanctum Concilium”: venne tradotto in alcune parti in italiano e leggermente sfoltito, appunto, secondo il volere conciliare in pieno sviluppo organico con la Tradizione. Parlo, evidentemente, del messale introdotto nel 1965, quello che sembra più in linea con le richiesta della costituzione sulla Sacra Liturgia.
Sembra naturale pensare, dunque, che il passo in questione fosse riferito a “quella” messa, ancora sostanzialmente simile a quella di pochi anni prima. Da questo possiamo altrettanto evincere che la citazione della “Sacrosanctum Concilium” non possa riferirsi alla “liturgia costruita a tavolino” sorta dopo lo smantellamento dell’“edificio antico” fatto “a pezzi” (le citazioni sono sempre del card. Ratzinger) quale fu il messale 1969-1970 che era ancora di là da venire. O meglio: è proprio quella messa non essere, in modo perfetto soprattutto nei suoi aspetti più controversi, la “messa propria” di quel canto. Ovvio, lo ripeto: ciò non vuol dire che non si possa cantare qualche antifona gregoriana all’interno della messa riformata. Ma che tale passo della “Sacrosanctum Concilium” non fosse così efficace è stato dimostrato ampiamente dalla deriva che il repertorio sacro ha subìto in questi frenetici cinquant’anni.

Mi pare, dunque, di poter notare, in conclusione, che l’esclusione del canto “proprio” della chiesa dalla liturgia riformata sia piuttosto naturale alla deriva filo-protestante postconciliare subita dalla liturgia e, purtroppo, corrispondente a quanto denunciava Joseph Ratzinger e che non possiamo che condividere: “Dietro ai modi diversi di concepire la liturgia ci sono modi diversi di concepire la Chiesa”. Si “riscrive” la liturgia cattolica annacquandola con elementi protestanti, si pone al centro di tutto il nuovo impianto teologico-liturgico la “doppia mensa” e, da ultimo, quale conseguenza naturale, è evidente, si abbandona il canto gregoriano in quanto espressione di una “docenza” non più connaturale alla nuova ecclesiologia.
Una chiesa che fa quotidianamente muta apostasia della “sua” musica, che è la “sua” teologia, è una Chiesa che rinnega la dottrina, dovunque essa risieda, e, di conseguenza, l’interpretazione della Scrittura che, senza la senza la lettura viva della Tradizione, resta parola al vento. Una Chiesa che abbandona l’incarnazione musicale gregoriana della Parola in luogo di un ostinato inclusivismo senza l’oggettività della Verità è una chiesa che abbandona, di fatto, il suo “munus docendi”. E, infine, una Chiesa che rigetta il “munus docendi” (et regendi), sia pur veicolato dalla musica, non può che portare al dissolvimento dell’Autorità.
Mattia Rossi
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1. Musica e culto rituale, da un punto di vista storico, furono da sempre connesse: nell’antichità anche i culti pagani erano cantati (“incantesimo”, ovvero “in-canto”) e il cristianesimo, e prima ancora l’ebraismo, videro nel canto il miglior metodo per sacralizzare il rito e rendere manifesta la sua alterità.
2. Questo è facilmente riscontrabile nelle parti proprie del celebrante (i dialoghi, gli Oremus, il prefazio, ad esempio), dette recitativi, e che storicamente sono le più antiche, che sono sempre cantate. In esse, egli si discosta da sé stesso e dalla sua ordinarietà per indossare un abito nuovo di alterità: se osserviamo la costruzione dei recitativi notiamo che quasi ogni melodia prevede due possibili forme, una semplice e una solenne.
3. Messale romano, Prefazio comune IV.
4. Messale romano, Prefazio comune IV. 




Chiesa e postconcilio 29 agosto 2014



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