domenica 11 maggio 2014

Paolo VI, il Papa martire del Sessantotto




di Piero Gheddo




Il Concilio Vaticano II aveva suscitato tanti entusiasmi e speranze, secondo quanto diceva San Giovanni XXIII: “Il Concilio sarà una nuova Pentecoste per la Chiesa”. La storia, com’è noto, è poi andata in senso diverso. Quando finisce il Vaticano II (7 dicembre 1965), Paolo VI pubblica, col Motu proprio Ecclesiae Sanctae (6 agosto 1966), le norme per applicare le decisioni conciliari alla vita quotidiana dei fedeli e di diocesi, parrocchie, istituti religiosi. Ma già nascevano convegni teologici, riviste specializzate (ad esempio Concilium) e pubblicistica ecclesiale che iniziavano la “fuga in avanti” (o indietro?) non spiegando e invitando ad applicare i documenti del Concilio, ma ipotizzando cosa volevano realmente dire i Padri conciliari. Si scriveva che “lo spirito del Concilio” superava ampiamente i testi conciliari, troppo timidi e incompleti, per colpa soprattutto delle mitica “Curia romana”. Sorgevano “profeti” che annunziavano prossimo il “Concilio Vaticano III”, che avrebbe dovuto completare il Vaticano II, ipotizzando forme nuove di vita cristiana e sacerdotale.

Nell’autunno 1967, inizia in Italia e in Occidente il “Sessantotto”, un miscuglio di grandi ideali (la pace e la giustizia nel mondo), di utopie spesso assurde (l’uguaglianza assoluta fra gli uomini e fra uomo e donna, il disarmo totale) e di comportamenti spesso violenti, che manifestavano la profonda insoddisfazione per la nostra società occidentale. Era una protesta generalizzata di giovani, specialmente studenti, contro la società in cui vivevano, bloccata dai “poteri forti” e dai detentori del potere, i “baroni” delle cattedre, i “padroni” delle industrie e tutte le autorità. Lo spirito sessantottino si è infiltrato anche nella Chiesa cattolica. A molti sembrava un movimento provvidenziale per il bene della politica, della società e della Chiesa.

Nascevano comunità di credenti, con i loro sacerdoti, che vivevano “secondo lo spirito del Concilio”, ma non obbedivano al vescovo ed erano motivo di divisione e di scandalo, amplificato dai mass media. Diminuiva la pratica religiosa, non pochi sacerdoti abbandonavano il sacerdozio, per sperimentare “un modo nuovo di essere prete”. Erano tempi di grande confusione, dubbi, incertezze: iniziava il periodo di crisi della fede e della vita cristiana di cui siamo ancor oggi spettatori addolorati.

Una certa teologia disincarnata dalla realtà minava le fondamenta dell'ideale missionario, come inteso dal Vaticano II. Si proclamavano come verità proposte che avevano qualcosa di autentico, ma diventavano, assolutizzandole, nefaste per la missione alle genti. Ad esempio:

Le giovani Chiese debbono annunziare Cristo ai loro popoli, i missionari sono superflui; nasceva una campagna di stampa per il “moratorium” delle missioni in Africa (ritirare tutti i missionari stranieri), per lasciar libere le Chiese locali. I non cristiani sono anche in Italia, la missione alle genti è qui da noi. Manchiamo di sacerdoti in Italia, perché voi missionari andate a portare Cristo in altri continenti, quando lo stiamo perdendo noi italiani? Non è importante che i popoli si convertano a Cristo, purché prendano il messaggio di amore e di pace del Vangelo. Ogni religione ha i suoi valori e tutte portano a Dio, che senso ha il “proselitismo” missionario in popoli di altre religione? Basta conversioni. Facciamo che il cristiano sia un miglior cristiano, il musulmano un miglior musulmano, un buddhista un miglior buddhista…

Il Papa martire del 1900: Paolo VI

Paolo VI era il Papa del Concilio, aveva portato avanti con grande saggezza e chiuso bene, con voti quasi unanimi dei 2.500 Padre conciliari, un evento straordinario che apriva orizzonti nuovi alla Chiesa. Uomo colto, mite, umile, che aveva capito i tempi moderni, comunicava in modo comprensibile a tutti (si leggano le sue encicliche!) e con la sua prima enciclica Ecclesiae Sanctae (1964) indicava il dialogo col mondo (dare e ricevere) come metodo di annunzio del Vangelo nei tempi moderni. Eppure, all’inizio degli anni Settanta, dopo le contestazioni violente e sprezzanti (da parte di cattolici) seguite alla Humanae Vitae (1968), che l’avevano ferito nel vivo, di fronte al marasma di quei tempi era intimidito, si sentiva mancare le forze per reagire e riportare il gregge di Cristo a vivere secondo gli orientamenti dati dal Vaticano II. E anche la Chiesa italiana, dialogante e divisa, non aiutava certo Paolo VI. Era orientata verso “il senso religioso”, mentre la società e la cultura italiana erano arate, seminate e devastate dai prepotenti e spesso violenti metodi e ideologie sessantottini. Il messianismo della rivolta studentesca sembrava dare vigore ai fermenti post-conciliari, che interpretavano il Concilio come una rottura con la Tradizione ecclesiale e una rivoluzione totale della Chiesa e della vita cristiana.

Tanto più che non pochi intellettuali e teologi, associazioni e gruppi ecclesiali, seguivano la travolgente onda culturale che portava verso il laicismo, il relativismo, l’individualismo (i “diritti individuali” ma non i “doveri”), la lettura “scientifica” della società (cioè il marxismo). Nessuno più osava dire forte e chiaro che un “mondo nuovo” è possibile, ma solo a partire da Cristo. Paolo VI lo diceva, lo ripeteva, lo proclamava ad alta voce (si vedano i numeri 26, 28, 31 della Octogesima adveniens, 1971 sul socialismo), ma era ascoltato solo dai semplici credenti e da coloro che, nelle mischie dei talk show, erano definiti “papalini” in senso negativo.

La crisi dell’ideale missionario nell’Occidente cristiano è nata nella crisi di fede che squassava la Chiesa intera. Ha preso tutti alla sprovvista e ha diviso le forze missionarie (istituti missionari, riviste, animazione missionaria, ecc.). Un esempio significativo (ne ricordo tanti!). Nell'estate 1968, come già diverse volte in precedenza, ho partecipato alla Settimana di Studi missionari a Lovanio ("Liberté des Jeunes Eglises"), organizzata dall'indimenticabile amico gesuita padre Joseph Masson, docente di Missiologia della Gregoriana. Diverse voci non di missionari sul campo, ma di studiosi, teologi, missiologi mi ferivano, perché esprimevano forti dubbi sul mandare missionari europei in altri continenti; molto meglio, si diceva, lasciare che le giovani Chiese raggiungano una loro maturità e si organizzino secondo le loro idee e culture. Ho protestato contro questa ipotesi perché avevo seguito dal di dentro il Vaticano II e testimoniavo che la totalità dei vescovi delle missioni si erano espressi in modo radicalmente opposto, chiedendo nuovi missionari. Anzi, con l’indipendenza dei loro paesi, sentivano la necessità di avere più forti legami con la sede di Pietro e le Chiese cattoliche antiche. È solo un esempio della mentalità che si era infiltrata e diffusa nella Chiesa in quel tempo post-conciliare.

La crisi della “missio ad gentes”, e quindi dell'animazione missionaria (e delle riviste e libri missionari), si è manifestata anche nella chiusura delle tre "Settimane di studi missionari" che si tenevano a Milano dal 1960 (esperienza chiusa nel 1969), a Burgos (1970) e a Lovanio (1975), che venivano da una lunga tradizione (a Lovanio dagli anni venti), per i forti contrasti e divisioni fra i teologi e gli specialisti delle missioni.


La Bussola Quotidiana

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