sabato 5 aprile 2014

Lingua immortale e lingue moribonde. Chesterton e l’uso del latino







di Cristiana de Magistris

Secondo Gilbert Keith Chesterton, gli uomini si dividono in due gruppi: quelli che adorano l’intelletto e quelli che lo usano. In genere, coloro che lo usano non l’adorano e coloro che l’adorano non lo usano. Da qualche decennio si è andato affermando un terzo gruppo, formato dagli uomini che negano quell’intelletto che altri o usano o adorano. Si tratta del cosiddetto “pirronismo”, che Romano Amerio individua come “il fondo dell’attuale smarrimento  mondiale ed ecclesiale”. 

Chi considera la lingua latina una “lingua morta” appartiene senza incertezze al terzo gruppo. La lingua latina è, infatti, tuttora la lingua ufficiale della Chiesa Cattolica che l’adopera tuttora nei suoi documenti ufficiali come nella sua Liturgia. Pio X, d’immortale memoria, affermò che “la lingua latina a buon diritto vien detta ed è la lingua propria della Chiesa”. Pio XI nel 1922 scrisse che la Chiesa “esige per la sua stessa natura una lingua che sia universale, immutabile, non volgare”. Nell’enciclica Mediator Dei, Pio XII scriveva che “l’uso della lingua latina, come vige nella gran parte della Chiesa, è un chiaro e nobile segno di unità e un efficace antidoto ad ogni corruttela della pura dottrina”.  È evidente a tutti, e non occorrono particolari dimostrazioni, che la Chiesa, in forza della sua indefettibilità, esige una lingua che sia immutabile. Ciò era considerato pacifico fino a 50 fa quando, in nome del Concilio Vaticano II, si è assistito ad un clamoroso attacco al latino e alla conseguente apertura delle sacre sinassi alle lingue vernacolari. Ma ciò non consente di definire “morta” una lingua che è e rimarrà non solo viva ma “immortale”.

Gli attacchi al latino datano molto addietro nel tempo. G. K. Chesterton sapeva bene che, nella sua patria, l’assalto protestante alla Messa cattolica, detta “papista”, era iniziato con l’introduzione della lingua vernacolare nella Liturgia. Dom Prosper Guéranger, nelle sue celebri Istituzioni Liturgiche, aveva affermato che il latino costituisce il più potente baluardo della Chiesa, e del papato in particolare. “L’odio per la lingua latina – scriveva – è innato nel cuore di tutti i nemici di Roma: costoro vedono in essa il legame dei cattolici nell’universo, l’arsenale dell’ortodossia contro tutte le sottigliezze dello spirito settario, l’arma più potente del papato”. Non solo. Egli notava altresì che “la separazione dal latino, per un motivo inspiegabile, che non conosciamo, quasi sempre, anche ottenuta la dispensa del Sommo Pontefice ha condotto allo scisma e alla piena separazione della Chiesa cattolica”.

Ed, infatti, la chiesa anglicana che si presentava agli occhi di Chesterton – abbandonata la lingua tradizionale, gli altari e il Canone della Messa – era una chiesa scismatica e moribonda. “Il popolo – aveva profetato l’abate di Solesmes – trovava eccessiva la pena di disturbarsi nel proprio lavoro o nei propri piaceri per andare a sentir parlare come si parla sulla pubblica piazza”. E “mentre il tempio riformato, una volta alla settimana, riunisce a fatica i cristiani puristi, la Chiesa papista vede senza posa i suoi numerosi altari assediati dai suoi religiosi figli; ogni giorno essi si allontanano dal loro lavoro per venire ad ascoltare queste parole misteriose che devono essere di Dio, perché nutrono la fede e leniscono i dolori”.

È proprio a partire dalla sua esperienza nella chiesa d’Inghilterra che Chesterton può affrontare la questione dell’uso del latino con chi accusava la Chiesa Cattolica d’usare una lingua morta. Cinque secoli prima, un altro genio inglese, san Tommaso Moro, aveva notato come – con una traduzione tendenziosa della Bibbia confluita poi nella Liturgia – la sana e salvifica dottrina di Cristo era stata corrotta e cambiata in diaboliche eresie al punto da renderla cosa nettamente contraria alla verità. Pregato di dare alcuni esempi, il martire inglese scelse tre parole: “Una è sacerdote. La seconda, Chiesa. La terza, Carità. Il termine Sacerdote era stato tradotto con la parola anziano, la Chiesa con assemblea e la Carità era diventata amore. “Poiché tali termini non sono affatto sinonimi nella lingua inglese – notò Moro –, a ben considerare le cose è chiaro che un’intenzione malvagia ha ispirato questi cambiamenti”.

Da qui la necessità di una lingua immutabile. “Quando ci pungolano e ci deridono per la nostra ostinazione nel voler recitare la Messa in una lingua morta – scrive Chesterton –, siamo tentati di rispondere a chi ci interroga che evidentemente non siamo adatti a ricevere una lingua viva. Se consideriamo come hanno trattato la nobile lingua inglese, confrontata con l’inglese del Libro Anglicano di preghiere, per non parlare poi del latino della Messa (anglicana), abbiamo la sensazione che la loro innovazione potrebbe essere una degenerazione. (Mentre) la lingua definita morta non può mai degenerare”. E per portare un esempio, con la sua sapiente ironia riprende una delle parole citate da Tommaso Moro: “La carità, che costituiva il cuore ardente del mondo, è giunta a significare l’avaro e sontuoso sostegno dei poveri, che ormai ha finito per ridurli in schiavitù”.

Il latino, invece, è una lingua sottratta all’inevitabile evolversi dell’umano dialogo, essendo ormai stabilita “in una sfera di cristallina nitidezza e definitezza” che fa di essa una lingua immortale. Ma, avverte Chesterton, “la questione della Messa in latino non si riduce alla scelta tra una lingua morta e una viva e immortale. Si tratta invece di scegliere tra una lingua morta e una in punto di morte, una lingua che sta inevitabilmente degenerando”. “[…] la Chiesa occupa una posizione unica nella storia perché parla non una lingua morta tra lingue imperiture, ma, al contrario, ha preservato una lingua viva in un mondo di lingue morte”. Le lingue vernacolari – al dire di Chesterton – sono lingue morte o perlomeno moribonde.

Nessuna di esse sarà preservata dalle innovazioni che il parlare umano inevitabilmente comporta. L’italiano del 1200 ha davvero poco in comune con quello del XXI secolo. In questo senso l’italiano del 1200 è morto quello del XXI secolo è moribondo. La Chiesa, che è nella sua sostanza immutabile pur essendo immersa nel tempo, necessita di una lingua immutabile, ossia sottratta alle alterazioni continue delle lingue correnti, una lingua che rimanga al di fuori delle passioni per poter custodire il dogma. Variare il linguaggio, infatti – asserisce Romano Amerio –, “significa identicamente variar dottrina”. In altri termini, l’attacco contro la lingua latina è un attacco diretto alla stabilità dei dogmi, e quando la Liturgia si spoglia della sacralità d’una lingua immutabile, è in pericolo l’immutabilità della dottrina.

Nel XIX secolo il beato Antonio Rosmini nelle sue “Cinque piaghe della Santa Chiesa” evidenziava i rischi derivanti dall’abolizione del latino: “Volendo ridurre i Sacri riti nelle lingue volgari si andrebbe incontro a maggiori incomodi, e si apporrebbe un rimedio peggiore del male. I vantaggi che si hanno conservando le lingue antiche sono principalmente: il rappresentare che fanno le antiche Liturgie l’immutabilità della fede; l’unire molti popoli cristiani in un solo rito, con un medesimo sacro linguaggio, facendo così loro sentire meglio l’unità e la grandezza della Chiesa  e la comune loro fratellanza; l’avere qualche cosa di venerabile e di misterioso una lingua antica e sacra quasi linguaggio sovrumano e celeste; l’infondersi un tal sentimento di fiducia in chi sa di pregare Iddio colle stesse parole con le quali lo pregarono per tanti secoli innumerevoli uomini santi e padri nostri in Cristo”. Con l’introduzione delle lingue volgari “s’introdurrebbe grandissima divisione nel popolo” e “un perpetuo cambiamento nelle cose sacre”.

Ecco profeticamente descritti i risultati dell’introduzione delle lingue vernacolari nella Liturgia. Sono tutti impietosamente sotto i nostri occhi. Da 50 anni a questa parte non vediamo forse i libri liturgici in lingua volgare subire modifiche innumerevoli ed ormai incalcolabili, mentre l’immortale Messale di san Pio V in oltre cinque secoli non è mai stato mutato? non vediamo le chiese tristemente vuote, poiché il popolo non s’incomoda “per andare a sentir parlare come si parla sulla pubblica piazza”? non assistiamo impotenti allo sgretolamento del dogma che – abbattuto il baluardo del latino – è ormai soggetto ad una continua mutazione?

Ma davanti a questo scenario doloroso e desolante per ogni vero figlio della Chiesa, occorre elevare lo sguardo dell’anima alla dimensione “sovra storica” della Sposa di Cristo, che – pur negli stravolgimenti mondani – conserva intatta la sua immutabilità. “Ho detto che nel XX secolo il Cattolicesimo resta veramente ciò che era nel II, vale a dire la Religione nuova – scrive ancora Chesterton –. Anzi, proprio la sua antichità mantiene un elemento di novità. Ho sempre considerato straordinario e persino commovente che, nonostante a noi sembri giungere carica di secoli e secoli, la venerabile invocazione del Tantum ergo mantenga ancora un linguaggio innovativo, quello del documento antico che deve piegarsi a un rito nuovo. Per noi l’inno stesso ha qualcosa del documento antico. Ma il rito è sempre nuovo”. È l’eterna giovinezza della vecchia Religione.





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