martedì 29 aprile 2014

IL VUOTO ESCATOLOGICO


604022_428164267232598_150237278_n




don Antonio Ucciardo

Mi ha fatto riflettere, e pure parecchio, la partecipazione dei media alla canonizzazione dei due Papi. Non si può entrare nei cuori dei fratelli, né misurare con rigido metro di uniformità quanto possa legarli, a titolo diverso, ai due nuovi santi. Però, se è vero che la bocca parla dall’abbondanza del cuore, si può tentare di mettere assieme frasi, pensieri, interpretazioni. Per trarne un quadro desolante.

E il quadro è presto delineato: siamo in presenza del vuoto escatologico! E se l’affermazione non può essere estesa a tutta la Chiesa, vale di sicuro per il nostro Occidente secolarizzato e relativista.

Proviamo ad intendere cosa significhi. L’escatologia è quella parte della nostra dottrina che concerne le realtà ultime, vale a dire quanto vivremo dopo la morte. Se si preferisce, in termini meno… preoccupanti per l’uomo di questi tempi, rappresenta l’approdo della nostra speranza. Perché una speranza gridata, manifestata, proposta, è destinata al più misero dei fallimenti se non conduce ad un premio. Nella Prima Lettera di Pietro è scritto che noi siamo stati “rigenerati, mediante la risurrezione di Gesù Cristo dai morti, per una speranza viva, per un’eredità che non si corrompe, non si macchia e non marcisce” (1 Pt 1, 3-4). Subito dopo viene detto con chiarezza che questa speranza è conservata nei cieli (v. 4) e che la meta della fede è costituita dalla salvezza delle anime (v. 8). L’autore si rivolge a cristiani che soffrono la persecuzione. Il fatto che per molti studiosi si tratti di una persecuzione quotidiana, di un’ostilità manifesta nei confronti della loro condotta e della loro fede, rende il testo ancora più prezioso per il nostro contesto, nel quale la persecuzione non ha il volto del nemico che imprigiona e uccide. La speranza è, insomma, una fede resa salda dalla certezza che la verità professata condurrà all’incontro con Cristo. Le stesse persecuzioni sono sopportate in vista della meta della fede, che è una salvezza ultraterrena, definitiva, eterna. In verità il testo invita ad esultare di gioia mentre si raggiunge questa meta. Perciò la salvezza è qualcosa che si costruisce, per così dire, a partire da questa vita, per mezzo della fede. E questo rende motivo di santificazione e di speranza anche le quotidiane molestie, le continue sopportazioni, le immancabili sofferenze, le persecuzioni che ci mettono alla prova nella nostra lotta per conseguire la salvezza. Non avrebbero alcun senso la lotta al peccato, la volontà di crescere nel bene, la costanza nella preghiera, l’impegno per essere fedeli alla propria vita cristiana, se tutto fosse orientato semplicemente ad una condotta umana leale ed onesta e se ogni soccorso della grazia avesse quale fine il camposanto.

Purtroppo qualche buontempone ha pensato di mettere in giro l’idea che la vita cristiana serva soltanto per rendere più bella la vita terrena. Così la speranza è stata ingabbiata, e quell’approdo bello ed esaltante è stato ridotto, spesso e volentieri, al bene che si può fare al vicino di casa o a chi tende la mano. Un Cristo buon maestro di morale e non più Salvatore. Dove ad essere salvate sono anime, cioè vite, non ideali. Le nostre anime, innanzitutto. E poi, per mezzo nostro, le anime di chi pensa soltanto ad una speranza che si esaurisca nel tempo che gli è dato su questa terra.

Non voglio dire che i cattolici non credano più nella vita eterna. Però è vero che questa vita risulta sempre più indefinita, priva di contenuti, in un certo senso svuotata. Il dato è perfettamente compatibile con la diserzione in massa dalla pratica e con l’insorgenza di deserti culturali, nei quali non c’è più posto per il catechismo e per la formazione di fede. Ci piace risentire il grido di S. Giovanni Paolo II contro i mafiosi, ma ci piace molto meno pensare seriamente che quel giudizio – lo stesso giudizio- verrà per ciascuno di noi. Non siamo mafiosi, è vero, ma non dovremmo prendere sonno al pensiero che uno come don Puglisi, che di mafia se ne intendeva, ravvisasse l’identica matrice in tutte quelle ideologie che sviliscono la dignità dell’uomo. E oggi in fatto di connivenza con un certo pensiero, sembriamo proprio andarci a nozze. D’altronde, perché dovremmo chiuderci all’emancipazione della società e ai desideri degli altri se non andiamo verso un premio o se lo riteniamo scontato per tutti?

Farebbe bene a molti di noi riconsiderare le parole gravissime del Concilio Ecumenico Vaticano II: “Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell’assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore» . Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati” (Lumen gentium, 14).

Pensiero, parole e opere. C’è poco da discutere.

Il Paradiso è la nostra meta. Noi veneriamo i santi, i fratelli che hanno conseguito il premio nel quale hanno sperato. Vivi al cospetto di Dio, essi intercedono perché anche noi possiamo conseguire la meta della fede. Ben altra cosa, dunque, rispetto agli uomini nobili che si sono distinti nella storia e ai quali riserviamo  la nostra ammirazione. Il santo ci trasferisce in un rapporto che non è più simile a quello che ci lega agli altri uomini del presente o del passato. Per questo noi non rendiamo omaggio alle loro tombe, come farebbe qualsiasi pagano o come noi stessi facciamo in presenza di benefattori dell’umanità nei diversi campi della scienza e della cultura. Noi veneriamo i  corpi dei Santi, quei corpi che su questa terra sono stati abitati dallo Spirito Santo e che sono destinati, con la certezza divina della fede, alla risurrezione per la vita eterna.

Non dobbiamo avere paura delle folle oceaniche viste domenica. Tutt’altro! Sono pur sempre una risposta eloquente alla vitalità del cattolicesimo e ai doni che Dio elargisce alla Sua Chiesa. La Chiesa è il popolo di Dio, la salvezza si comunica per mezzo si segni sensibili, e non c’è davvero posto per chi desidera un cattolicesimo senza esteriorità e senza festa del cuore. Dobbiamo chiederci, però, se questa festa e questa vitalità siano della stessa consistenza della gioia e della vita  che Pietro attribuisce alla speranza. Dobbiamo avere paura, piuttosto, dei commenti e delle interviste che hanno preso d’assalto le nostre case. Perché se la speranza si risolve in un generico sentimentalismo, siamo messi proprio male. In alternativa, se si preferisce, non siamo messi proprio bene.

Qualche tempo fa un noto cantante rimproverò i preti di non parlare più della vita eterna. Per quanto generica fosse l’accusa, per quanto indefinita sembrasse anche la vita eterna di cui parlava l’artista, non si può dire che quelle parole fossero prive di consistenza.

Il problema non è dei preti, ma della percezione che oggi si ha della vita eterna. Nella quale esiste un paradiso che ci attende, un giudizio che lo precede, un inferno che lo vanifica in eterno e, finché esiste ancora il mondo, un purgatorio che chiede amore orante, come orante è la supplica di coloro che attendono di contemplare il volto di Cristo. Di tutto questo non c’è traccia nella vita concreta di molti nostri fratelli di fede, e forse neppure nella predicazione e nella produzione teologica. Anche il santo, sottratto a questa vita gloriosa che si fa comunione con noi, si riduce ad un modello di comportamento umano. Bello, edificante, nobile, generoso, ma umano. Ora, l’approdo finale non è una piazza gremita, ma la Gerusalemme del cielo. Chissà che anche qui non risulti influente una percezione limitata della Chiesa. Il vuoto escatologico in assoluto non può esistere, perché non ci sarebbe la Chiesa di quaggiù se non ci fosse la Chiesa di lassù. E ad ogni Messa, che si comprenda o meno, il Paradiso si rende presente e l’eternità attrae la nostra povera temporalità. Purtroppo esiste, e prende piede in misura crescente, la percezione del vuoto escatologico nella vita concreta di tanti cristiani. Il Paradiso è invece la vita resa piena per sempre. Ricordarsene sarebbe il più bel ringraziamento a Dio per il dono della santità.






 |  


Nessun commento:

Posta un commento