venerdì 22 novembre 2013

Perché Bergoglio ha scelto il ritiro sull’Aventino






di Sandro Magister

La sera del 21 novembre, nella festa della presentazione di Maria al tempio tradizionalmente associata alle monache di clausura, papa Francesco si recherà sull’Aventino in visita al monastero di Sant’Antonio delle monache camaldolesi.

Il papa vi reciterà i vespri e si fermerà poi con le monache per un colloquio.

Sul motivo per cui Jorge Mario Bergoglio ha scelto di visitare proprio questo monastero  una spiegazione è che egli ha una grande ammirazione per una religiosa che vi entrò proprio il 21 novembre, nel 1945, e lì visse da reclusa per quarant’anni, nutrendosi solo di pane e acqua e dormendo su una semplice cassapanca.
Si chiamava Nazarena Crozza e irradiò una intensa aura di santità. Su di lei sono usciti un paio di libri, uno anche in inglese. Tra i sui amici più stretti c’era il benedettino e cardinale Agostino Mayer. A papa Francesco le monache offriranno una raccolta delle lettere che ella scriveva al suo padre spirituale, dalle quali si evince la sua forte fede e la sua vita spesa per la Chiesa.

Ma ci sono due altri aspetti di questo monastero che affascinano Bergoglio.

Il primo è la fila costante di poveri, fino a ottanta, che tutti i giorni ricevono il pranzo servito dalle monache davanti al cancello d’ingresso di via Santa Sabina 64.

Il secondo è la “lectio divina” sul Vangelo della domenica, che da trent’anni le monache aprono ogni sabato alle 18 alle persone che vogliono prendervi parte, che sono ogni volta tra le sessanta e le ottanta.

A guidare la “lectio” sono padre Innocenzo Gargano, del vicino monastero camaldolese di San Gregorio al Celio, e la badessa Michela Porcellato, che di fatto è la madre generale di una quindicina di monasteri di monache camaldolesi sparsi in tutto il mondo. In Tanzania ve ne sono tre molto rigogliosi, fondati a partire dal 1968 dalle monache dell’Aventino, che contano oggi circa un centinaio di monache africane.

Un’ultima notazione. I monaci e le monache camaldolesi di Roma sono stati tra i più arditi nell’applicare in modo “creativo” la riforma liturgica conciliare, prima ancora che entrasse in opera ufficialmente.
L’avvincente resoconto di quell’impresa è stato raccontato – con un felice dose di ironia – da padre Gargano in un libro del 2001 su “I camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento” e riprodotto in questo servizio di www.chiesa:






Canto gregoriano. Come e perché fu soffocato nella sua stessa culla


Il priore del monastero romano di papa Gregorio Magno arricchisce con nuovi particolari il racconto del disastro musicale del dopoconcilio. Col Vaticano che ancor oggi non fa nulla per rimediare 



di Sandro Magister                                    

ROMA - Il 22 novembre 2003, festa di santa Cecilia patrona della musica, Giovanni Paolo II ha ascoltato un concerto in proprio onore. E l´indomani, all´Angelus della domenica mezzogiorno, ha rivolto un saluto speciale ai Wiener Philharmoniker, giunti a Roma a eseguire per lui "La Creazione" di Franz Joseph Haydn nella basilica di San Paolo fuori le Mura.

Il papa ha ringraziato "quanti mettono al servizio della liturgia i loro talenti e le loro competenze musicali". E ha ricordato che il 22 novembre 2003 sono passati cent´anni giusti dal motu proprio di san Pio X "Inter Sollicitudines": il documento con cui quel pontefice impresse una svolta riformatrice alla musica sacra d´occidente, la purificò dalle degenerazioni teatrali in voga all´epoca e ridiede centralità e splendore al gregoriano, al canto polifonico e al suono dell´organo.

Cent´anni giusti. Nel mezzo dei quali c´è stato un concilio, il Vaticano II, che ha riconfermato in pieno il primato di gregoriano, polifonia e organo. Ma c´è stata anche una nuova decadenza, nel campo della musica di Chiesa. Di dimensione e gravità tali da esigere una nuova riforma, non meno energica di quella voluta da Pio X.

Il centenario dell´"Inter Sollicitudines" era atteso da alcuni, dentro e fuori il Vaticano, come il giorno giusto per un nuovo documento papale di rinnovamento della musica liturgica.

In particolare si attendeva la costituzione di un organismo pontificio dotato di autorità in materia.

E invece la festa di santa Cecilia del 2003 è passata, e nulla di ciò è sinora accaduto.

In Vaticano, si sa, domina una corrente ostile al primato del canto gregoriano e polifonico. Tra le alte personalità del governo centrale della Chiesa, il solo a muoversi in controtendenza è il cardinale Joseph Ratzinger.

In più occasioni, Ratzinger ha associato la decadenza della musica sacra alle modalità distruttive con le quali è stata attuata, in larga misura, la riforma liturgica decisa dal Concilio Vaticano II.

Musica e liturgia. Legate nel bene e nel male. Una fioritura dell´una non può esserci senza l´altra. Esattamente come la decadenza, che travolge entrambe.

Il terremoto che negli anni Sessanta del XX secolo produsse la quasi scomparsa del canto gregoriano fu in effetti il contraccolpo di una distorta attuazione della riforma liturgica conciliare. In primo luogo da parte delle élite della Chiesa.

Il testo riprodotto più sotto è, di questo terremoto, una testimonianza di straordinario interesse.

L´autore, monaco benedettino, racconta come il suo monastero abbandonò di punto in bianco il canto gregoriano, a metà degli anni Sessanta, per abbracciare nuovi e improvvisati moduli musicali.

La svolta avvenne con rapidità fulminea, praticamente da un giorno all´altro.

E il monastero non era uno qualsiasi. Era quello benedettino camaldolese di San Gregorio al Celio, a Roma, dove è conservata la cattedra marmorea di papa Gregorio Magno, padre del canto liturgico tipico della Chiesa d´occidente, detto appunto gregoriano. Non poteva esserci luogo simbolicamente più forte.

La svolta fu voluta praticamente all´unanimità e approvata del priore dell´epoca, p. Benedetto Calati, personalità di alto rilievo nel cattolicesimo italiano del secondo Novecento.

L´autore del racconto, p. Guido Innocenzo Gargano, è il suo successore. È l´attuale priore del monastero di San Gregorio, anch´egli maestro spirituale di grande spicco.

Ha incluso la cronaca di quel terremoto musicale e liturgico in un libro da lui pubblicato nel 2001 sui "Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento". Poche pagine più avanti, l´autore riconosce che lui e gli altri monaci "non erano né poco né punto tecnicamente preparati alla musica", eppure si sentirono obbligati a "inventarsi poeti e musicisti" per sostituire al gregoriano i nuovi canti alla moda.

Da allora sono passati quasi quarant´anni e qualche aggiustamento c´è stato. Ma sta di fatto che nelle liturgie del monastero romano fondato da papa Gregorio il canto gregoriano non ha più fatto ritorno.

Ecco dunque il racconto di come fu cacciato in esilio, negli anni ruggenti del Concilio Vaticano II:


Quella notte a San Gregorio


di Guido Innocenzo Gargano


[...] L´adozione della lingua volgare nella celebrazione dell´ufficio divino arrivò nella comunità come una bomba esplosiva.

L´ufficio divino, cantato in lingua volgare, significava rottura irreparabile con una delle tradizioni più sacre custodite per secoli dall´intero monachesimo latino occidentale: il canto gregoriano. [...]

Il tutto fu innescato nella comunità camaldolese dal dibattito accesissimo nell´aula conciliare, fra difensori del latino e fautori del volgare. [...] I monaci più giovani non solo avevano parteggiato ovviamente per l´introduzione della lingua italiana della liturgia, ma erano anche impazienti al punto da non voler aspettare che le novità già approvate nell´aula conciliare ricevessero conferma con la pubblicazione ufficiale. Una volta riconosciuta l´assurdità del latino, bisognava cambiare! [...]

I giovani cominciarono a sentirsi autorizzati a fare i propri esperimenti in soffitta come i carbonari. Infatti non si trattava solo di tradurre la preghiera liturgica dalla lingua latina all´italiano, ma anche di tentare strade diverse sul piano musicale. E data l´intima connessione del latino col canto gregoriano, i giovani decisero, senza interpellare nessuno, che doveva essere messo da parte, almeno per il momento, anche il sublime canto gregoriano.

Nella soffitta della chiesa di San Gregorio al Celio si installò presto, dunque, all´insaputa dei superiori, una vera e propria orchestra fatta di strumenti impropri, ma sufficientemente adatti all´impresa cercata.

Dopo prove e riprove, tra arrabbiature a non finire con maestri di cappella del tutto improvvisati, si decise che, nella domenica di quinquagesima, il gruppo fosse sufficientemente maturo per venire allo scoperto in una celebrazione liturgica semiufficiale completa di chitarre, di tamburi e di canti inediti prodotti in italiano.

Il luogo prescelto fu la cappella Salviati, che è situata alla sinistra della chiesa. il celebrante sarebbe stato un prete, studente dell´Istituto Liturgico Anselmianum, ospite dell´attiguo Hospitium Gregorianum.

Tutto si svolse con la massima serietà e la soddisfazione di tutti. Nessuno però fece caso che proprio in quella domenica era capitato, durante la celebrazione, un signore in visita turistica alla cappella, che poi se ne era andato esterrefatto. Quell´estraneo corse difilato in vicariato e denunziò lo scandalo.

Si mosse il cardinale [Angelo] Dell´Acqua, a quei tempi vicario di Sua Santità per la diocesi di Roma. I fulmini caddero a ciel sereno sull´ignaro [priore generale] p. Benedetto [Calati], che venne a sapere nello stesso istante cosa avevano combinato i suoi giovani monaci e la gravità delle conseguenze paventate.

Tutto concitato, p. Benedetto convocò il capitolo conventuale. [...] I monaci ascoltarono la reprimenda in silenzio, con gli occhi bassi, ma niente affatto convinti di aver commesso chissà quale misfatto. E quando p. Benedetto costrinse uno per uno tutti a prender posizione pubblica sul crimine commesso, sobbalzò sulla sedia nel constatare la determinazione, di tutti e di ciascuno, a difendere il gruppo degli "scapigliati" - si chiamavano così in segreto quei birbanti - insinuando la paura delle noie che inchiodavano invece i superiori alle poltrone, impedendo loro di percorrere la via già chiaramente segnata dai bellissimi dibattiti delle assemblee conciliari.

A questo punto p. Benedetto piantò tutti in asso e si fiondò in cella. Rimanemmo tutti di sasso. Imbarazzati. In silenzio.

A tarda sera, non vedendolo a tavola, né alla celebrazione di compieta, spedirono me in avanscoperta per cercare una mediazione possibile.

La risposta fu talmente "altra" che non parve vera.

"Bene", aveva risposto p. Benedetto, "faremo tutto come avete detto. Da domani celebreremo la messa e l´intero ufficio in italiano".


Dalle parole ai fatti. Qualcuno si scoprì all´improvviso poeta, qualcun altro traduttore, e tutti divennero finissimi intenditori di canti e di spartiti.

P. Benedetto, da parte sua, volle dare a tutti grande dimostrazione di coraggio permettendo di spostare l'altare e costruirne uno nuovo, rivolto verso il popolo. Ormai il dado era tratto. [...]


[Da Guido Innocenzo Gargano, "Camaldolesi nella spiritualità italiana del Novecento - II", Edizioni Dehoniane, Bologna, 2001, pagine 112-115]





Settimo Cielo


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