lunedì 23 settembre 2013

Francesco, la misericordia del Papa che accetta il mondo così com'è



di Vittorio Messori

Credo che stia capitando a molti: la lettura della trentina di pagine della Civiltà Cattolica con l'intervista a Francesco sembra chiarire loro chi sia davvero e che intenda fare colui che ama definirsi «vescovo di Roma». Una Roma che pur confessa di non conoscere, al di là di alcune famose basiliche. Perché nasconderlo?

Molti, nella Chiesa, erano perplessi per uno stile in cui sembrava di avvertire qualcosa di populista, da sudamericano che in gioventù non fu insensibile al carisma demagogico di Peròn.
Gli scarponi ortopedici neri; la croce solo argentata; l'abito papale e i paramenti liturgici talvolta trascurati; l'andare a piedi o in utilitaria, comunque sul sedile anteriore; il rifiuto dell'alloggio pontificio, della villa di Castel Gandolfo, della scorta; i bambini baciati in piazza; le telefonate fatte di persona qua e là; il parlare a braccio, a rischio di equivoci; l'esigere subito il tu dall'interlocutore; certe reazioni emotive, per foto e storie trovate sui giornali. Per quanto mi riguarda (e per quanto poco importi, ovviamente), tutto questo disturbava certo snobismo intellettuale da cui fui contagiato in quasi vent'anni di scuole torinesi, per giunta pre-sessantottarde. Con questo stile «all'argentina», contrastava certa schizzinosa «retorica dell'antiretorica» appresa da quei miei maestri di austerità e di understatement subalpini. Ci sono stati mesi recenti in cui mi rallegravo per il buon momento di sobrietà, di rigore, di profili volutamente bassi: per Papa, un professore emerito bavarese, per presidente del Consiglio, un altro professore emerito della Bocconi, l'equivalente nostrano d'una delle Grandes Écoles parigine. Per completare la Triade, al Quirinale avrei sognato un Luigi Einaudi ma, in mancanza, m'accontentavo della serietà e della discrezione di Giorgio Napolitano, egli pure non sospetto di cedimenti a sentimentalismi e retoriche.

Insomma, io pure ero tra i perplessi. Sia comunque chiaro: come mi è capitato altre volte di ricordare, in una prospettiva cattolica ciò che conta è il Papato, è il ruolo - che gli è attribuito dal Cristo stesso - d'insegnamento e custodia della fede; mentre non ha rilievo teologico il carattere del Papa del momento, cui si chiede solo la salvaguardia dell'ortodossia e la guida della Chiesa tra i marosi della storia. Non vi sono, qui, indici di gradimento personale, il credente segue ed ama ogni pontefice, «simpatico» o meno che gli sia, in quanto successore di quel Pietro cui Gesù affidò la cura del Suo popolo. Ma ecco ora l'intervista al più antico periodico non solo cattolico ma italiano, al quindicinale fondato ben 163 anni fa. Un gesuita, padre Antonio Spadaro, a colloquio - sul giornale dei gesuiti - col primo pontefice gesuita della storia. Un giocare totalmente in casa, dunque. E non a caso. In effetti, leggendo, si comprende come la strategia del Papa che ha voluto chiamarsi Francesco non sia affatto caratteriale ma sia in realtà nella tradizione migliore dei figli non del Poverello, bensì d'Ignazio. Il carisma dei discepoli del guerriero basco fu il comprendere che il mondo va salvato così com'è, ci piaccia o no; che l'utopia cristiana deve sempre confrontarsi con la realtà concreta; che non deve scandalizzare l'amara concretezza di Machiavelli, per il quale gli uomini sono quelli che sono, non quelli che vorremo che fossero. È a quest'uomo, non a uno ideale e inesistente, che va proposta la salvezza portata dal Cristo.

La fortuna dei gesuiti, il loro successo in remote missioni e al contempo alla corte di re e imperatori (un successo che li portò poi alla soppressione del 1773 per mano, guarda caso, di un Papa francescano), quella fortuna fu il frutto di un carisma che lo stesso Bergoglio indica nel «discernimento». Quello che i nemici della Compagnia chiamarono «ipocrisia», «opportunismo», «mimetismo» e i giansenisti «lassismo» e che invece, spiega lo stesso papa Francesco, «è la consapevolezza che i grandi princìpi cristiani vanno incarnati secondo le varie circostanze di luogo, di tempo, di persone». L'evangelizzazione sia flessibile e tenga conto della debolezza umana, «il confessionale non sia una camera di tortura», per usare le parole testuali di Bergoglio. È proprio ciò che ispirò quella casistica che, per i rigorosi, tutto sembrò accettare e giustificare e contro la quale furono scagliate le Lettere provinciali di Blaise Pascal. Lettere che costituiscono un capolavoro letterario ma un infortunio teologico per quel genio, pur straordinario e, ammesso che importi, assai amato da chi qui scrive. Malgrado le esagerazioni (condannate poi dalla stessa Compagnia, prima ancora che dalla Chiesa) avevano ragione i gesuiti: la misericordia, la comprensione, le raffinatezze se non le acrobazie dialettiche per non escludere nessuno dalla comunione ecclesiale, furono e sono mezzi di apostolato ben più efficaci che l'arcigna severità, il legalismo scritturale e canonico, il moralismo implacabile, l'ortodossia usata come un randello. I rigoristi sono ossessionati dall' aut aut - o questo o quello - mentre i gesuiti tentarono, sempre e dovunque, di praticare un et et - sia questo che quello - che permetta al maggior numero possibile di creature di Dio di raggiungere la salvezza eterna. Fu l'intransigenza di altri ordini che portò alla disastrosa rovina dell'inculturazione del Vangelo tentata dalla Compagnia in Asia, in America, in Africa e che solo il Vaticano II doveva riscoprire e valorizzare.

È da questo desiderio di convertire il mondo intero, usando il miele ben più che l'aceto, che deriva una delle prospettive più convincenti tra quelle confidate dal Papa al confratello: il ritrovare, cioè, la giusta gerarchia cristiana. I decenni postconciliari hanno visto, nella Chiesa, lo scontro sulle conseguenze da trarre dalla fede: politiche, sociali e, soprattutto, morali. Ma della fede stessa, della sua credibilità, del suo annuncio al mondo, ben pochi sembrano essersi preoccupati. Ben venga, dunque, il richiamo del Vescovo di Roma: si ri-evangelizzi, annunciando la misericordia e la speranza del Vangelo. Il resto seguirà. Non vi è, nelle sue parole, alcun cedimento sui cosiddetti «princìpi non negoziabili» in materia etica. Ma vi è, giustamente, l'insistenza sulla doverosa successione: prima la fede e poi la morale. Prima convochiamo, accogliamo e curiamo i feriti dalla vita e poi, dopo che avranno conosciuto e sperimentato l'efficacia della misericordia del Cristo, diamo loro lezioni di teologia, d'esegesi, d'etica. Una sfida, forse un rischio? Papa Francesco fa capire di esserne consapevole ma di essere soprattutto consapevole dell'aiuto, che non potrà mancare, di Chi lo ha scelto, pur lontano com'era dall'attenderlo e dal desiderarlo.




Corriere della Sera, 21 settembre 2013

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