venerdì 2 agosto 2013

Liturgicamente scorretto. Un libro sul sacerdozio fedele al Papa.

di don Massimo Vacchetti


 

Una volta il Vescovo mi chiese con una certa perentorietà: “Ma tu la Messa la celebri ogni giorno?”. Sbalordito della domanda gli risposi: “Se non la celebrassi, avrei evitato di farmi sacerdote”.
Racconto questo curioso episodio per due ragioni. La prima è che qualcuno, qualche sacerdote, evidentemente, non usa celebrare, ogni giorno, la S. Messa. La domanda del Vescovo sottintende una preoccupazione a partire da una constatazione. La seconda ragione è che identifico il ministero sacerdotale con la S. Messa. “La spiritualità sacerdotale è intrinsecamente eucaristica” dice laSacramentum caritatis. E ogni sua attività pastorale, la sua cura d’anime, così come ogni azione evangelizzatrice hanno la loro origine nell’azione liturgica con cui il sacerdote, unitamente a Cristo di cui è segno sacramentale, eminentemente, nell’atto cultuale, offre se stesso per la salvezza del mondo.


La Messa è, dunque, per il sacerdote non solo l’atto di adorazione, non solo il gesto dell’offerta del Figlio al Padre, non solo il sacrificio dell’altare, non solo il rendimento di grazie, ma in esso, come un mistero insondabile, è presente tutta l’opera della Redenzione e quindi tutta la missione sacerdotale. Non c’è Messa senza sacerdote, ma nemmeno sacerdote senza la Messa. Non è possibile separare, dunque, la natura sacramentale del sacerdozio dal gesto eucaristico senza compromettere seriamente l’ufficio proprio di buon pastore che offre la vita per il proprio gregge. Non si tratta solo di sacro dovere (a cui peraltro ilCodice canonico non attribuisce l’obbligo e fino a poco tempo fa ne impediva la celebrazione da solo), ma di una necessità per la propria anima e un bisogno per la “vita del mondo”.
Il libro “In memoria di me”, edito da Cantagalli (pag. 214, 14 euro) di Mauro Gagliardi, giovane teologo e consultore delle celebrazioni liturgiche del Sommo Pontefice, è un saporitissimo aiuto a vivere un’autentica spiritualità sacerdotale.
Due mi sembra siano le caratteristiche che rendono questo lavoro singolarmente prezioso e degno non solo di una lettura spirituale (essendo scaturito da una serie di meditazioni di un corso di esercizi), ma anche di una riflessione teologico-liturgica sul modo in cui nelle nostre comunità viene interpretata l’azione liturgica e a quanti abusi essa sia sottoposta, il primo dei quali avviene – sembrerà strano, quasi paradossale – nei seminari per la quasi assoluta mancanza di educazione liturgica per cui uno diventa sacerdote e celebra imitando ciò che ha visto e ciò che ha sperimentato. Eppure, nel Rito di consacrazione sacerdotale, il Vescovo pronuncia: “Ricevi le offerte del popolo santo per il sacrificio eucaristico, renditi conto di ciò che farai, imita ciò che celebrerai. Conforma la tua vita al mistero della Croce di Cristo Signore”. “Imita ciò che celebrerai”, non i celebranti, recita l’ammonizione del Rito. E’ dunque nella Liturgia eucaristica che il sacerdote trova se stesso. Egli è chiamato ad essere una liturgia vissuta, ma prima deve conoscerne non solo la storia, ma la spiritualità e la teologia che da essa scaturisce.
La prima nota è legata all’originale modalità con cui l’autore deduce dal rito liturgico della Santa Messa una spiritualità del sacerdote. Non si può, infatti, parlare della Santa Messa senza intendere la dinamica liturgica attraverso cui avviene il miracolo della presenza eucaristica. E’ nell’espressione del rito liturgico, in quell’intreccio di gesti, parole, silenzi, segni che accade l’opera della nostra Redenzione, il mistero grande della fede. Questo avvenimento è opera del ministro ordinato, ma allo stesso tempo e più ancora, forma e plasma lo stesso sacerdote. Recita il titolo di copertina: “L’eucarestia fa il sacerdote, il sacerdote fa l’eucarestia”, ma delle due formulazioni è la prima a prevalere, “la causalità primaria è quella espressa nella prima formula (…) perché Cristo si è donato per primo nel sacrificio della croce” (Sacramentum Caritatis n.14).
Succede così che l’autore, indugiando nell’azione liturgica, faccia emergere una spiritualità molto densa e autorevole, un’ardente e appassionato ritratto sacerdotale di colui che Cristo ha chiamato perché “facesse questo in memoria di Lui”. L’atto penitenziale, ad esempio, all’inizio della celebrazione – atto con cui il ministro e tutti i fedeli sono richiamati alla loro indegnità e alla possibilità loro concessa dalla misericordia divina di accostarsi al “Monte Calvario” dell’altare – diviene l’occasione per riconoscere la natura sacerdotale di medico per le anime. “L’atto penitenziale dice al sacerdote che egli deve avere come ministero principale quello di risanare le anime dalle ferite del peccato” (p. 49). Ancora. Al termine dell’atto penitenziale, il celebrante pronuncia un solenne “preghiamo” e si ferma in un pensoso silenzio. “A cosa pensa?” A tutte le intenzioni di preghiere che intende portare davanti al Signore nella S. Messa (…) Nel dire “preghiamo” egli compie un gesto – quello di allargare e richiudere le braccia – che mima un abbracciare, un raccogliere (…). E’ suo compito presentarle al Signore” (p. 56). La colletta, dal latino raccogliere, dunque, insegna al sacerdote a presentare le preghiere per conto e a nome del popolo di Dio e in una parola, ad essere “mediatore” tra Dio e gli uomini. La liturgia della S. Messa nel pensiero dell’autore è la vera anima di ogni apostolato. E così, di gesto in gesto, lungo il rito si delinea, parallela alla celebrazione, una liturgia sul volto del sacerdote che si conforma a Gesù medico, mediatore, maestro, padre, espiatore, edificatore, adoratore, missionario. La liturgia ben celebrata e vissuta – sembrano dirci le sapienti meditazioni di Gagliardi – permeano e formano il volto di un sacerdote. Si potrebbe dire parafrasando l’antica sapienza della Chiesa che “la legge della preghiera è legge della fede del sacerdote”.

La seconda peculiarità di questo inedito lavoro è la piena adesione al magistero di Papa Benedetto XVI. Forse non poteva essere altro considerato il servizio che presta l’autore, ma di questi tempi è davvero significativo e controcorrente. Non serve, infatti, essere in disaccordo con il Papa per opporre resistenza al suo Magistero. Più semplicemente basta non leggerlo e non guardarlo e disattendere nell’indifferenza ciò che a lui preme. E’ indubbio, infatti, che Papa Benedetto abbia a cuore la cura della Liturgia. Non c’è momento in cui lasci cadere la possibilità di riprendere in mano questa grande e decisiva questione. Anzi, il Papa è ben consapevole che su questo terreno si giochi ciò che di più grande la Chiesa ha come missione, la fede retta in Cristo. Una Liturgia sciatta, depauperata nel suo significato, ridimensionata nella sua pretesa, ha offuscato agli occhi dei fedeli, in questi cinquant’anni, dal Concilio ad oggi, la portata salvifica del gesto eucaristico. Non si spiega altrimenti la cura con cui questo mite e semplice Papa abbia così a cuore le celebrazioni, abbia, cioè, collocato al centro dell’altare una croce per richiamare a vivere la celebrazione “versus Dominum”; distribuisca la comunione ai fedeli in ginocchio, ponga sull’altare sei candelieri; abbia infine ripristinato l’uso del rituale della Santa Messa secondo l’ultima riforma di Papa Giovanni XXIII. I più, anche tra stimati sacerdoti curiali, trattano questi gesti del Santo Padre con immensa indifferenza fingendo che essi non vogliano dire ciò che in realtà dicono. Il Papa desidera ripartire dalla Liturgia, dall’adorazione al Signore, dal Sacrificio dell’altare per restituire ad un’umanità che vive senza Dio, la gioia della fede. Tutt’al più, le scelte del Pontefice sono giustificate come una debole concessione a quanti sono nostalgici nella Chiesa. Eppure, basterebbe rileggere il Summorum Pontificium per comprendere che non si tratta di deroghe apposite, ma vi si dice, piuttosto, una cosa sbalorditiva, ossia che l’unico rito latino si compone di due forme, una ordinaria, il rito promulgato da Paolo VI e una straordinaria, secondo la riforma di Giovanni XXIII. E’ il rito latino, non una concessione fatta ai “cosidetti” lefevriani! Discende un dovere da quel documento che i più fingono di non sapere. Il dovere di conoscere, compiutamente, anche nella forma straordinaria, il rito liturgico con il quale rendere presente, sacramentalmente, il Signore Gesù e la sua Grazia salvifica.

Quello di Gagliardi è un libro coraggioso e scomodo. L’autore, con molta naturalezza, con toni molto semplici, ha così il merito, forse per primo, di affrontare la spiritualità sacerdotale alla luce della Liturgia secondo il Rito latino attingendo dalla ricchezza liturgico spirituale di entrambe le forme, quella che conosciamo dal Concilio in avanti e quella che avevamo perso e che ora, grazie all’intraprendenza ardita di questo anziano Papa, stiamo riscoprendo. E’ nell’intenzione del Santo Padre che le due forme dell’unico Rito Romano possano arricchirsi a vicenda.

Un libro fedele al Papa e alle sue speranze, ma soprattutto inedito per il suo essere, in questo senso, sanamente provocatorio nell’ipocrisia generale del liturgicamente corretto da renderlo, a suo modo, un libro unico.

 

fonte: Libertà e Persona

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