lunedì 6 maggio 2013

RIFORMARE, NON REINVENTARE.





Si racconta che ad un tracotante Bonaparte, sicuro di poter distruggere la Chiesa, il Cardinale Consalvi abbia replicato con la più evidente delle constatazioni: “Maestà, non siamo riusciti noi a demolire la Chiesa con le nostre infedeltà in diciannove secoli. Non ci riuscirà nemmeno lei”.
Vero o falso che sia l’aneddoto, quello della forma della Chiesa è un problema che ricorre ciclicamente. Si può arrivare all’estremo di un Napoleone o di altri persecutori, come si può giungere alla pretesa degli eretici, i quali muovono dall’interno e, a forza di immaginare la forma ideale, finiscono per ritrovarsi all’esterno, con una Chiesa a loro somiglianza.
C’è un monito altissimo in tutto questo: dobbiamo riformare noi stessi, chiamati a vivere nella grazia la nostra appartenenza alla Chiesa. E come la nostra povera vita non smette mai di essere in stato di conversione, così la Chiesa, composta di peccatori, necessita sempre di una riforma.
Non che la santità della Chiesa dipenda dalla nostra personale riforma. A volte si legge e si sente anche questo. Emblematico è il ricorso ad un’antica locuzione, estrapolata dal suo contesto e piegata a rendere ragione dell’assurdità che si intende esprimere: “casta meretrix”. Vale a dire che la Chiesa sarebbe una casta prostituta. E’ un ossimoro coniato da S. Ambrogio e si riferisce alla figura di Rahab, che viene presentata come immagine della Chiesa. Quella donna, infatti, non disdegnò di accogliere gli ebrei fuggiaschi, procurando loro la salvezza. Così la Chiesa – ed è questo il senso dell’espressione- è “meretrice casta, perché molti amanti la frequentano per l’attrattiva dell’affetto, ma senza la sconcezza del peccato”. In altre parole, secondo il santo vescovo la Chiesa ha un’immensa capacità di accogliere i peccatori, procurando loro la salvezza. E questa è la storia di ciascuno di noi!
Ora, questa storia, al pari delle tante storie che ci hanno preceduto, è inscritta in un disegno eterno di Dio. Vi è qualcosa che precede la nostra storia, che la rende possibile e coerente, che la sostiene e la conduce alla meta da sempre pensata. Se questo strumento fosse condizionato e, se fosse adattabile alle diverse esigenze, contingente quanto le storie personali, fragile quanto coloro che intende servire, non sarebbe più il riflesso di quel disegno eterno. Diventerebbe limitato e fallace quanto qualsiasi altro disegno che non sia scaturito dall’Amore onnipotente e misericordioso di Dio. Perché nulla ha stabilità al di fuori di Dio.
Grazia e peccato, forza e debolezza, santità e miserie, convivono nella Chiesa, ma non toccano la Chiesa. Essa è davvero immacolata nonostante sia composta, qui in terra, di uomini che conoscono le macchie del peccato. Ed essa è immacolata perché comprende anche coloro che contemplano, nella gloria, il volto del Signore, davanti al quale non può esistere né macchia né ruga. Nessuno, pur potendo immaginare una Chiesa diversa sulla terra, potrebbe mutare la Chiesa celeste. Non avere di fronte allo sguardo la consumazione finale dell’amore, la Gerusalemme di lassù, sarebbe soltanto una miopia imperdonabile, una mancanza di fede che renderebbe sterile ogni tentativo di rendere accessibile, qui e adesso, la parola della salvezza. Ed è questo il limite insito in ogni tentativo di adattare la Chiesa ai propri gusti: dimenticare che la Chiesa eccede le nostre realizzazioni, le nostre parole, le nostre teologie e le nostre soluzioni pastorali.
In questi giorni rimbalza da una parte e dall’altra un verbo strano: reinventare. Strano perché significa inventare di nuovo. Ora, ammettendo che l’inventare sia attribuibile a Dio, ormai avvezzo ai nostri linguaggi vuoti e retorici, chi potrebbe inventare di nuovo, o secondo forme nuove, ciò che Egli ha tirato fuori dalla sua divina fantasia? (perdonate il termine volutamente moderno).
Il Concilio Vaticano II insegna che tutti quelli che ha scelto, “il Padre fino dall’eternità « li ha distinti e li ha predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, affinché egli sia il primogenito tra molti fratelli » (Rm 8,29). I credenti in Cristo, li ha voluti chiamare a formare la santa Chiesa, la quale, già annunciata in figure sino dal principio del mondo, mirabilmente preparata nella storia del popolo d’Israele e nell’antica Alleanza [1], stabilita infine « negli ultimi tempi », è stata manifestata dall’effusione dello Spirito e avrà glorioso compimento alla fine dei secoli” (Lumen gentium, n. 2).
Lo stesso Concilio si premura di ricordare che “la società costituita di organi gerarchici e il corpo mistico di Cristo, l’assemblea visibile e la comunità spirituale, la Chiesa terrestre e la Chiesa arricchita di beni celesti, non si devono considerare come due cose diverse; esse formano piuttosto una sola complessa realtà risultante di un duplice elemento, umano e divino”. Anche a voler prescindere dalla Chiesa che è nella gloria, resta il fatto che questa nostra Chiesa, pellegrina nella storia, ha una struttura sacramentale. Non è del tutto facile incidere sull’aspetto umano e salvaguardare le prerogative divine. Per questo la riforma deve essere intesa in modo retto, a partire dalla dimensione divina della Chiesa. A nostro giudizio, per citare ancora il Vaticano II, la riforma non è che la comunione con Cristo: “Tutti i membri devono a lui conformarsi, fino a che Cristo non sia in essi formato (cfr. Gal 4,19). Per ciò siamo collegati ai misteri della sua vita, resi conformi a lui, morti e resuscitati con lui, finché con lui regneremo (cfr. Fil 3,21; 2 Tm 2,11; Ef 2,6) (…) Nel suo corpo, che è la Chiesa, egli continuamente dispensa i doni dei ministeri, con i quali, per virtù sua, ci aiutiamo vicendevolmente a salvarci e, operando nella carità conforme a verità, andiamo in ogni modo crescendo verso colui, che è il nostro capo” (Lumen gentium, n. 7).
Le vicende degli ultimi tempi hanno indotto gran parte dell’opinione pubblica, e forse degli stessi credenti, a ritenere che la riforma della chiesa passi per la riforma delle strutture visibili. Nulla di più errato. Accanto a questa riforma, necessaria a partire dal centro, deve svilupparsi quella dell’intera vita cristiana, fondata sulla professione della fede e sulla testimonianza. Perchè non accada che gli stessi cattolici si preoccupino delle Congragazioni romane e trascurino quell’immenso campo che è affidato ai laici, chiamati a “cercare il regno di Dio trattando le cose temporali e ordinandole secondo Dio”. Possiamo dire, con tutta onestà, che sempre e dovunque i fedeli laici si sforzino di corrispondere alla loro vocazione secondo quello che la Chiesa intende? Non è forse vero che assistiamo a dissensi latenti, a fratture tra l’appartenenza alla Chiesa e la dottrina professata, specialmente in ambito morale e nella dimensione politica?
Ci piace richiamare, ancora una volta, il Concilio Vaticano II. In un paragrafo della Costituzione sulla Chiesa, che potrebbe sembrare scritto dal Concilio di Firenze o da quello di Trento, si legge: “non possono salvarsi quegli uomini, i quali, pur non ignorando che la Chiesa cattolica è stata fondata da Dio per mezzo di Gesù Cristo come necessaria, non vorranno entrare in essa o in essa perseverare. Sono pienamente incorporati nella società della Chiesa quelli che, avendo lo Spirito di Cristo, accettano integralmente la sua organizzazione e tutti i mezzi di salvezza in essa istituiti, e che inoltre, grazie ai legami costituiti dalla professione di fede, dai sacramenti, dal governo ecclesiastico e dalla comunione, sono uniti, nell’assemblea visibile della Chiesa, con il Cristo che la dirige mediante il sommo Pontefice e i vescovi. Non si salva, però, anche se incorporato alla Chiesa, colui che, non perseverando nella carità, rimane sì in seno alla Chiesa col «corpo», ma non col «cuore». Si ricordino bene tutti i figli della Chiesa che la loro privilegiata condizione non va ascritta ai loro meriti, ma ad una speciale grazia di Cristo; per cui, se non vi corrispondono col pensiero, con le parole e con le opere, non solo non si salveranno, ma anzi saranno più severamente giudicati”.
Ecco per qual motivo la Chiesa è sempre bisognosa di riforma.
Riformare non è reinventare. Ogni seria e necessaria riforma è sempre un ritorno alla sorgente da cui tutto fluisce. Sorgente, non acqua stantia! Perché se la sorgente è il cuore di Cristo, da cui scaturiscono sangue e acqua, siamo di fronte ad un flusso divino che non può essere interrotto, circoscritto o riportato indietro nelle sue espressioni sacramentali. Se la sorgente è il dono dello Spirito Santo, siamo di fronte ad una guida che non può essere sostituita da nessun’altra. Se il Paraclito conduce alla verità tutta intera, allora nessuno di noi può inserirsi in questo processo di grazia per sezionare o, peggio ancora, per ricondurre indietro.
Bisogna allora che tutto resti immutabile? Certamente no. Solo che bisogna distinguere cosa corrisponda alla dimensione sacramentale della Chiesa, cosa alla disposizione voluta del suo fondatore, e quanto appartenga ad espressioni che possono essere mutate. Un consiglio pastorale, per esempio, non altera in nulla la struttura della Chiesa. Un’omelia partecipata, sì. In entrambi i casi si tratta di dare voce ai fedeli laici. Il primo comporta che essi sentano di essere membra dell’unico corpo, che esprimano la loro opinione, che vedano concessa fiducia, se necessario, al loro senso della fede. Una forma di valorizzazione del sacerdozio comune, che deriva dal battesimo. Nel secondo caso, invece, si darebbe loro un potere che non hanno ricevuto e che deriva dall’ordine sacro. Questa non sarebbe una riforma, bensì un’ invenzione. Come lo sarebbe l’introduzione di elementi che siano in contrasto con gli sviluppi della dottrina e del pensiero della fede, anche se dovessero essere attestati dalla storia. Il fatto che i primi cristiani non facessero l’adorazione eucaristica come oggi intendiamo, non comporta che si smantellino i tabernacoli o che non si esponga il Santissimo Sacramento. Molti si chiudono al Concilio Vaticano II perché non accettano che la riforma sia sempre necessaria. Molti altri, però, pensano superata quella fase soltanto perché nulla nei documenti di quel Concilio autorizza le loro invenzioni. Sono protesi ad un ipotetico Concilio che non esisterà mai, se non nelle loro trovate geniali e nei loro libri. In linea teorica un Concilio potrà pur esserci, perché il Papa ha il diritto di indirlo quando ritiene opportuno, ma di sicuro non per recepire forme che alterano la struttura della Chiesa. La linea tracciata dal B. Giovanni XXIII resta paradigmatica per ogni serio tentativo di riforma, per ogni sincero desiderio di conformazione a Cristo, di autentico rinnovamento della Chiesa.
Perciò ammoniva il venerabile Paolo VI: “nessuno può desiderare la novità nella Chiesa, là dove la novità significhi tradimento alla norma della fede; la fede non s’inventa, né si manipola; si riceve, si custodisce, si vive; ovvero porti offesa alla comunione che, pur nel riconoscimento dei diritti particolari, quelli della persona umana, della Chiesa locale, della Collegialità, ecc. deve concepire la Chiesa una, comunitaria e gerarchica, organica e concorde, come l’ha voluta il Signore, e come la tradizione apostolica, autentica e legittima l’ha sviluppata. «Io sono la vite vera, ha detto Cristo Signore; voi i tralci» (Io. 15, 1-6); non dimentichiamo mai questa stupenda immagine evangelica, anche quando le fronde della vite hanno bisogno di potatura, cioè di rinnovamento, per togliere le sterili e per provocare nelle altre una maggiore fecondità. La novità per la novità non sarebbe giustificata. Specialmente se noi cediamo ad alcune tentazioni caratteristiche del tempo nostro, quella di abolire ogni riguardo alla tradizione, alla storia, alla esperienza, attraverso le quali a noi è giunto il Vangelo e ci è oggi presente la Chiesa. Forse v’è qualcuno che vorrebbe dimenticare il patrimonio ereditato, e partire da zero per modellare a proprio talento un’impossibile Chiesa totalmente nuova ed arbitraria” (Udienza generale del 4 agosto 1971).
La Chiesa ha già un inventore. Se fosse dipeso dalla logica umana dei Dodici o dei primi discepoli, probabilmente avremmo avuto una versione aggiornata della Torre di Babele. Come potrebbe accadere oggi se, al di sopra della confusione, non prevalesse la certezza della parola di verità trasmessa dalla Chiesa, la grazia dei sacramenti, la forza del martirio, la testimonianza dei piccoli. Se per un istante si guardasse alla Chiesa secondo prospettive umane, prescindendo dall’utilità e dalla fecondità dei carismi, in questo momento della storia esiteremmo forse a riconoscerne i tratti salienti dell’unità della fede e della comunione con i legittimi pastori. Figurarsi se tutti gli aspiranti inventori dovessero realizzare i loro brevetti! Molto spesso si ha l’impressione che si voglia riportare la Chiesa indietro di circa diciassette secoli, senza motivazioni convincenti. Anzi, si pensa che quest’operazione sia non solo lecita, ma oltremodo doverosa , visto che ci consente di avvicinarci all’evento fondatore. Ora, con buona pace di insigni teologi e liturgisti, dobbiamo ritenere che ci convenga essere salvati dal Figlio di Dio, crocifisso e risorto, piuttosto che da un evento. Ne abbiamo soltanto da guadagnare! E poiché questo Cristo, vero Dio e vero Uomo, ci raggiunge e ci salva attraverso la Chiesa, dobbiamo preoccuparci di non offuscare il volto della Chiesa con i nostri peccati, le nostre disobbedienze, le nostre fantasie (queste totalmente umane). Ricordando che i veri riformatori sono sempre i Santi, fidiamoci di quanto essi ci hanno trasmesso e di quanto ci ottengono adesso con la loro preghiera, nell’attesa di vederci un giorno nella dimora da sempre pensata per noi. C’è il pericolo, infatti, che una chiesa reinventata conduca da tutt’altra parte.

Don Antonio Ucciardo

fonte: http://www.daportasantanna.it/2013/05/riformare-non-reinventare/


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