mercoledì 8 maggio 2013

Poco latino nelle messe di Francesco: il vescovo di Roma parla italiano






di Matteo Matzuzzi   

C’è sempre meno latino nelle celebrazioni di Papa Francesco [purtroppo, ndr]. Basta dare un rapido sguardo ai libretti dei riti presieduti dal Pontefice argentino nel suo primo mese e mezzo di pontificato per accorgersene: dalle grandi messe sul sagrato di San Pietro al Rosario a Santa Maria Maggiore, a prevalere è quasi sempre l’italiano. Francesco è vescovo di Roma, l’ha detto lui stesso parlando per la prima volta dalla Loggia delle Benedizioni la sera del 13 marzo scorso. E, come fa ogni vescovo, nella sua diocesi usa la lingua locale. Non il latino.

Così, niente saluti nei più svariati ed esotici idiomi il giorno di Pasqua (rompendo così una lunga e consolidata tradizione), né i tradizionali brevi messaggi nelle lingue più comuni della cattolicità al termine dell’Angelus o Regina Coeli domenicale. Un’inversione di tendenza chiara. Benedetto XVI aveva pazientemente (e lentamente) avviato un’opera di recupero di quella che dopotutto è ancora [...dopotutto?! ...ancora?!!] la lingua ufficiale della chiesa cattolica, sempre meno conosciuta anche tra i membri del clero. Ratzinger usava il latino non solo nelle occasioni più solenni e ufficiali, come l’omelia tenuta in Sistina con i cardinali elettori il giorno dopo l’elezione al Soglio pontificio, ma anche nei suoi viaggi internazionali. Sorprese non poco sentire il Papa esprimersi in latino in Benin e in Camerun, due delle sue tappe nel continente africano.

Ci teneva così tanto, il teologo tedesco, che diede al mondo notizia della sua rinuncia al ministero petrino leggendo un breve testo in latino scritto personalmente con l’aiuto di pochi e fidati collaboratori. Qualche mese prima, a novembre, Benedetto XVI aveva istituito con un moto proprio la Pontificia Accademia di Latinità, affidandola a Ivano Dionigi, latinista di fama e attuale rettore dell’Università di Bologna. I motivi che avevano spinto Ratzinger a costituire quell’organo li spiegava proprio Dionigi in un’intervista ad Avvenire pubblicata a marzo: “C’è la consapevolezza che il latino nella storia è stato la lingua dell’imperium, dello studium e dell’ecclesia. Questa lingua ha in sé tre proprietà che trovano corrispondenza nelle caratteristiche della fede: l’eredità, l’universalità e l’immutabilità. E’ la lingua dei teologi, del diritto canonico, dei concili [anche del Concilio Vaticano II!], della liturgia”.

Ratzinger rifiutava l’idea che fosse una lingua per pochi eletti, simbolo del potere e retaggio di un passato che il Concilio Vaticano II aveva cercato di archiviare [ma quando e dove?!! Il latino è la lingua universale della Chiesa]: “Il latino è l’idioma con cui la chiesa si è rivolta a tutti i popoli. Rispecchia l’immutabilità della fede”, continuava il presidente dell’Accademia.
Francesco ha scelto un’altra strada: i canti rimangano pure in latino – il portavoce della sala stampa della Santa Sede, padre Lombardi, ha chiarito qualche settimana fa che la musica sacra non rientra tra gli interessi principali di Bergoglio –, ma la messa si celebri per quanto possibile in italiano. E’ la concezione diocesana del papato: il Pontefice vuole mettere l’accento sull’essere prima di tutto il vescovo di Roma [ma il vescovo di Roma è il Papa!], la chiesa che presiede nella carità tutte le altre chiese, come diceva sant’Ignazio d’Antiochia.





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