lunedì 29 aprile 2013

L’ABITO ECCLESIASTICO NELL’ORIENTE BIZANTINO






 di don Marcello Stanzione

Un lungo velo nero, che avvolge il copricapo a cilindro degli ecclesiastici ortodossi, dà un aspetto inconfondibile all’alto clero di queste Chiese Cristiane orientali, quello celibe e più colto da cui vengono scelti i quadri dirigenti: patriarchi e metropoliti vescovi e archimandriti. Questo velo, che cade sul petto con due sottili bande di stoffa e ricade dietro a punta abbracciando le spalle sino a mezza schiena – portato anche in determinati momenti del rito, sopra i colorati paramenti -, conferisce a questi uomini di Chiesa quella caratteristica sagoma trapezoidale che rappresenta indubbiamente una delle immagini più evocative dell’Ortodossia.

Non è forse altrettanto risaputo che questo indumento, che fa di questi ecclesiastici gli unici uomini per così dire “velati”, non connota affatto lo stato clericale, ma bensì la condizione monastica. Anticamente – e ancora oggi, soprattutto al monte Athos, in qualche comunità che ama ritornare all’antico – questo velo veniva steso direttamente sul capo senza il berretto sottostante, durante la preghiera e le celebrazioni liturgiche. Il vescovo ortodosso lo porta, perché, almeno dall’alto medioevo, egli viene scelto tra i monaci. Ancor oggi, se il vescovo prescelto appartiene al clero secolare, prima dell’ordinazione deve rivestire l’abito monastico. 

Il medesimo monocromo nero – che rappresenta pertanto una parte considerevole del “paesaggio” umano tipico dell’Ortodossia – connota il monachesimo femminile; anche le monache, figure vestite di nero che lasciano solo vedere il triangolo del volto delimitato da un fazzoletto che copre la fronte e le guance, portano direttamente sul capo il lungo velo nero che discende fino a metà schiena (in Russia invece le monache più anziane portano il velo sull’alto berretto cilindrico proprio del clero). 

Difficilmente chi ha esperienza del monachesimo occidentale riesce ad avere una corretta comprensione di quello ortodosso, nonostante la matrice comune delle due esperienze religiose, provenienti entrambe dall’antico monachesimo cristiano, documentato , già nel IV e V secolo, nei deserti egiziano e siro –palestinese. Risulta soprattutto fuorviante una certa osmosi che si è verificata nell’occidente latino tra chierici e monaci, per cui ai primi sono stati imposti requisiti e compiti della condizione monacale, come il celibato e la recita quotidiana dell’ufficio divino, e ai secondi vengono talvolta affidati incarichi pastorali, propri del clero secolare. 

Sono soprattutto due i presupposti teorici del monachesimo ortodosso che lo fanno apparire così diverso da quello cattolico: il principio della coessenzialità del monachesimo alla vita della Chiesa e quello dell’assoluta unitarietà della vita monastica, per cui non esiste pluralità di regole e l’estrema varietà delle forme di vita non altera la dimensione rigorosamente unitaria della professione monastica. 

Il termine monaco, etimologicamente viene dal greco monos che vuol dire “solo”; ora, anche se è un cenobita, se vive cioè nell’ambito di una comunità egli è nondimeno pienamente monaco, in quanto è primariamente il consorzio a cui egli appartiene a essere isolato rispetto all’altro più ampio consorzio, quello della società civile. Se poi è un eremita, se cioè vive in un piccolissimo gruppo sotto la guida di un anziano in una kaliva (capanna), spesso nell’ambito di un villaggio monastico (la skiti), oppure se dimora solitario in un esicasterio costruito in un luogo accessibile solo per ripidissimi sentieri ferrati a picco sul mare, non è mai integralmente solo, perché membro di questa società dove non si genera fisicamente ma spiritualmente e che tuttavia continua a riprodursi. 

Ciò che conta e che qualifica il monaco ecclesiasticamente è sociologicamente prima di tutto l’essere monaco e quest’unità si esprime esteriormente in una foggia d’abito comune a tutti i monaci ortodossi. Come l’Ortodossia non conosce più regole che differenzino profondamente una famiglia religiosa da un’altra, così non esistono diversi ordini monastici: apparentemente il pluralismo è totale, in quanto ogni monastero ha la sua regola particolare, ma tutte seguono un archetipo comune, attributo collettivamente alla sapienza ispirata dei padri. 

L’abito monastico viene convenzionalmente definito “abito angelico”, non solo perché, secondo una “leggenda delle origini monastiche, esso non è frutto della fantasia dell’uomo ma viene dall’alto – in quanto indossato dall’angelo che in visione lo mostrò all’egiziano Pacomio, il legislatore della vita in comune -, ma soprattutto perché chi lo indossa, nel suo distacco dal mondo e nella sua rinuncia alla sessualità, anticipa in terra la condizione del secolo futuro, dove i redenti “non si sposano, ma sono come gli angeli nel cielo” (Mt22,30). E anzi, “il rituale della Chiesa greca – afferma il Leclerq – sottolinea la presenza degli Angeli alla vestizione monastica”. E gli Angeli, rivestendo la persona della “veste angelica”, la rivestono e l’arricchiscono interiormente della “virtù angelica”, che è particolarmente la verginità liliale della mente, del cuore,

La maniera di vestire degli ecclesiastici ortodossi è quasi uguale in tutte le Chiese di tradizione bizantina. Il vestito, presso i Greci, consta essenzialmente dell’anterìon, che è una specie di talare senza bottoni, le cui due parti sul davanti sono sovrapposte e tenute strette alla vita da una cintura di stoffa – la cintura di pelle è monastica – e lateralmente da fermagli. Per i monaci è di color nero, ma per il clero secolare può essere di qualunque colore, solitamente blu scuro. 

Sopra l’anterìonsi portava spesso il kondòn, soprabito che non oltrepassa il ginocchio, con le maniche un po’ più larghe di quelle dell’anterìon. Sul kondòn o anche direttamente sopra l’anterìon, si mette il ràson, un mantello talvolta pieghettato, con maniche ampie. E’ il capo più importante del vestiario dei monaci e degli ecclesiastici, a partire dai diaconi. Quelli che non erano ancora diaconi, per lo più, portavano solo il kondòn. I preti , i diaconi e qualche volta i chierici portano in capo il kalimàfkiono kamilàfkion, un cappello cilindrico nero. Presso i Greci, i Bulgari e i Rumeni, tutti gli ecclesiastici, che sono almeno diaconi, lo portano con un piccolo bordo sporgente in cima. I monaci, gli archimandriti, i vescovi ed i patriarchi coprono il kalimàfkion con un velo nero, che ricade sulle spalle, chiamato epanokamilàfkion. 
Gli ecclesiastici, siano essi regolari o secolari, si lasciano crescere la barba. I Russi e i Rumeni portano spesso i capelli tagliati all’altezza del colletto dell’abito, mentre i Greci lasciano crescere anche i capelli che vengono raccolti a coda sotto il kamilafkion. Una delle pene ecclesiastiche inflitte ai chierici resisi indegni era quella di tagliare loro la capigliatura.




da Don Marcello Stanzione (Note) Domenica 28 aprile 2013

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