domenica 14 aprile 2013

Il credo






di don Enrico Finotti

 L’Anno della fede ci sollecita ad una rinnovata professione di fede, che trova proprio nella liturgia la sua espressione più compiuta e solenne. Il Papa, infatti, afferma: Avremo l’opportunità di confessare la fede nel Signore Risorto nelle nostre Cattedrali e nelle chiese di tutto il mondo; nelle nostre case e presso le nostre famiglie, perché ognuno senta forte l’esigenza di conoscere meglio e di trasmettere alle generazioni future la fede di sempre. Le comunità religiose come quelle parrocchiali, e tutte le realtà ecclesiali antiche e nuove, troveranno il modo, in questo Anno, per rendere pubblica professione del Credo (BENEDETTO XVI, Porta fidei, n. 8).

 Le parole del Sommo Pontefice ci invitano ad un’attenta riflessione sul significato del Credo come elemento importante nella celebrazione liturgica. Il tempo natalizio nel quale esce questo numero della rivista è molto adatto all’approfondimento del Credo, soprattutto considerando la sua centralità nella liturgia del Natale, quando la prostrazione adorante al versetto et incarnatus est nel cuore del Credo ne evidenzia il suo fascino mistico e solenne.

 IL CREDO NELLA STORIA

 La Chiesa orientale e occidentale fin dalla più remota antichità esprime la professione della fede con delle formule brevi e concise. Tra le diverse formulazioni emergono assai presto due Simboli, rispettivamente a Gerusalemme per l’Oriente e a Roma per l’Occidente. Si tratta delle due professioni di fede più note ed universali: il Credo apostolico presso la Chiesa Romana e il più esteso e analitico Credo niceno-costantinopolitano nelle Chiese d’Oriente. Il loro uso è in origine ristretto all’ambito catecumenale e alla liturgia battesimale.

 Il Credo niceno-costantinopolitano, dopo aver assunto la sua forma definitiva nei Concili di Nicea (325) e di Costantinopoli (381) entra anche nella Messa, prima in Oriente col patriarca di Costantinopoli Timoteo (515) che lo inserì dopo il bacio di pace e prima di cominciare l’anafora nella liturgia sacrificale(1), poi in Occidente nella liturgia palatina di Aquisgrana dove Carlo Magno dispose fosse cantato dopo il vangelo (810). Si comprende già fin d’ora come le due diverse posizioni del Credo nella Messa distinguano ancor oggi la liturgia orientale (e ambrosiana da cui dipende) da quella latina occidentale. Il successivo intervento dell’Imperatore Enrico II (1003-1024) convince il papa Benedetto VIII ad introdurre in modo definitivo il Credo anche nella liturgia ufficiale della Chiesa Romana, secondo l’uso latino, dopo il vangelo.

 E’ interessante il ruolo dei due grandi imperatori cristiani nella formulazione del Credo: Costantino con i Padri del concilio di Nicea ne determinò la struttura e la terminologia, Carlo Magno poi assunse in modo definitivo il Filioque, come espressione specifica e ormai diffusa nella liturgia occidentale. Il Credo cantato nella Messa è in tal modo un segno di comunione con l’Oriente essendo l’eredità dei grandi Concili dell’antichità che in Oriente furono celebrati.

 La lunga reticenza di Roma ad accogliere il Credo nella Messa si comprende alla luce della singolare risposta che il Papa diede al santo imperatore Enrico II, dicendo che la Chiesa Romana non aveva sentito il bisogno di ammetterlo, perché mai era stata contaminata dall’eresia(2). In queste parole tuttavia la Chiesa Romana afferma la coscienza viva della sua indefettibilità nell’ortodossia della fede.

 Il Simbolo romano, detto apostolico, mantenne, invece, sempre il suo ruolo antico nel contesto battesimale e catechistico. Fu, infatti, consegnato ai catecumeni e richiesto ai medesimi in forma di interrogazione prima del battesimo ed è ancor oggi contenuto nelle promesse battesimali. In seguito venne assunto nel catechismo tridentino come schema espositivo dei dodici articoli di fede. Recepito dal Breviario di S. Pio V ne fu estromesso totalmente nella riforma di Pio XII (1956).

 Col Concilio Vaticano II, tuttavia, anche il Simbolo apostolico può venir usato nella Messa in alternativa al Credo classico. In tal modo quel passaggio dai riti battesimali alla Messa che interessò fin dall’antichità il Credo nicenocostantinopolitano, nell’odierna riforma liturgica si attua anche per il Credo apostolico.

 IL CREDO NELLA MESSA

 Il Credo viene introdotto nella Messa in tre posizioni diverse del rito: dopo il Vangelo nella liturgia romana, nei riti di presentazione delle offerte nella liturgia bizantina, dopo l’Anafora e prima dell’orazione domenicale presso i Visigoti nella Spagna(3). Queste tre scelte liturgiche offrono pregi diversi e sottolineature interessanti, che esprimono quella legittima diversità di usi finalizzati ad una più completa e profonda espressione dell’unica fede.

 L’uso nella Messa romana (il Credo dopo il vangelo) mette in evidenza l’adesione di fede alla parola proclamata e consegna ai fedeli la sintesi dell’intero dogma della fede che non può mai essere ridotto alle sue parti. La singolarità dei misteri celebrati nelle varie feste richiede la loro composizione nel tessuto dell’intera professione della fede. Questo senso della pienezza, infatti, è il segreto dell’equilibrio della dottrina cattolica, che sa comporre ogni singolo asserto di fede nella totalità dell’insieme (et et) a differenza dell’eresia che afferma in modo selettivo e talvolta esclusivo aspetti parziali dell’intero dogma della fede (aut aut).

 La posizione del Credo dopo il vangelo trova riscontro nei vangeli, nella sequenza dialogica tra Cristo e Marta: Gesù le disse: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morrà in eterno. Credi tu questo?». Gli rispose: «Sì, o Signore, io credo che tu sei il Cristo, il Figlio di Dio che deve venire nel mondo» (Gv 11, 25-26). Il Signore suscita la fede di Marta, ne riceve una sincera adesione e procede all’evento di grazia risuscitando il fratello Lazzaro. Allo stesso modo l’assemblea liturgica istruita da Cristo nella liturgia della parola, vi assente con la formula del Credo e si dispone al sacrificio sacramentale in cui si compie il mistero della redenzione.

 L’uso nella liturgia orientale (il Credo all’offertorio) mette in luce la fede come dono offerto a Dio affinché il sacrificio di Cristo non solo sia valido, ma anche fruttuoso per chi lo offre. E’ appunto l’obbedienza di fede che rende gradito il sacrificio a Dio, perché il contenuto vero del sacrificio è l’obbedienza alla volontà di Colui al quale si offre. Proclamare il Credo sulla mensa dell’altare sopra i mistici doni significa unire la nostra adesione di fede a quell’obbedienza totale e perfetta che Cristo offre in sacrificio al Padre. In qualche modo qui la professione di fede è analoga al dono dei pochi pani che precedettero il grande miracolo della loro moltiplicazione. Senza tale disponibilità e oblazione di fede non può salire al cospetto di Dio un sacrificio che sia anche fruttuoso per l’offerente.

 Anche il costume antico (oggi scomparso) di proclamare il Credo al cospetto dei santi Misteri, dopo l’anafora e prima del Pater nei riti di comunione, può richiamare quei passi evangelici in cui colui che già è stato miracolato si prostra in adorazione davanti al Signore Gesù con una commossa professione di fede nella sua divinità, come si può vedere nel racconto del cieco nato: Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell’uomo?». Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?». Gli disse Gesù: «Tu l’hai visto: colui che parla con te è proprio lui». Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi (Gv 9, 35- 38). Come la professione di fede del cieco risanato segue all’evento miracoloso del dono della vista, così la professione di fede dopo il canone e davanti alla SS. Eucaristia presente sull’altare è conseguente all’evento del sacrificio divino e manifesta lo stupore adorante davanti alla maestà del Salvatore, che ci ha salvati.

 Le varie localizzazioni del Credo trovano riscontro e giustificazione nei fatti evangelici dove la professione di fede talvolta precede e altre volte segue l’evento di grazia. Le diverse posizioni del Credo nella Messa, quindi, hanno tutte un particolare significato e ciascuna contribuisce a suo modo ad arricchire il medesimo mistero, sempre insondabile. Per questo la Chiesa ama la varietà dei riti come espressioni molteplici dell’unica fede.

 I DUE SIMBOLI OGGI

 Le disposizioni della recente riforma liturgica romana di poter scegliere liberamente una o l’altra delle due formule del Simbolo (apostolico e niceno- costantinopolitano) pone alcuni problemi di natura rituale e prospetta dei possibili effetti collaterali:

 1. La recita in modo continuato (cioè in directum) dei due Simboli provoca confusione nei fedeli che non sono in grado di ritenere facilmente due formule così simili e al contempo diverse. In passato i fedeli recitavano il Credo apostolico, appreso dal catechismo e usato nell’orazione privata, mentre il Credo niceno-costantinopolitano era conosciuto solo in canto e in latino da quei fedeli che frequentavano la Messa principale della domenica. Dopo la riforma liturgica le cose si sono invertite: i fedeli hanno memorizzato il Credo niceno-costantinopolitano dovendolo recitare ogni domenica nella loro lingua, mentre hanno dimenticato in genere il Credo apostolico.

 2. Si può verificare la progressiva emarginazione di uno dei due Simboli in favore della formula più breve del Credo apostolico, considerato più adatto e comprensibile, essendo privo di quel linguaggio filosofico oggi ritenuto ostico. Già nelle celebrazioni pastoralmente più rilevanti sta emergendo l’ uso del Credo apostolico, potendolo anche eseguire in forma più libera mediante ritornelli intercalari.

 3. Potrebbe essere avallata di fatto un’ indebita sostituzione o alterazione della formula di fede ricorrendo a testi di privata composizione in nome di una presunta efficacia pastorale. Le frequenti proposte opzionali, infatti, e la grande varietà dei testi eucologici presenti negli attuali libri liturgici hanno creato una certa mentalità incline alla libera creatività, che in taluni casi coinvolge anche il Simbolo della fede.

 Come superare questi disagi e allontanare questi pericoli? E’ necessario intervenire con tre determinazioni: 

1. Stabilire per i due Simboli due diversi modi di esecuzione: il Credo niceno-costantinopolitano verrebbe recitato o cantato in modo continuato (in directum) oppure cantato in alternanza tra due cori o parti dell’assemblea, secondo la tradizione; il Credo apostolico, invece, sarebbe eseguito in modo responsoriale: il sacerdote o il solista o il coro propongono il testo e l’assemblea risponde con una acclamazione di adesione (ad es. Credo, oppure con l’espressione evangelica Credo, Signore, ma aumenta la mia fede, ecc.). Questa seconda modalità non è nuova, ma rimanda alle interrogazioni battesimali costituite fondamentalmente dalle tre parti del Credo apostolico, rivolte ai catecumeni immediatamente prima del loro battesimo, come avviene ancor oggi nelle promesse battesimali.

 2. Limitare l’uso dei due Simboli a specifici tempi liturgici. Il tempo pasquale potrebbe essere il più adatto all’uso del Credo apostolico, che, già sostanzialmente inaugurato nelle promesse battesimali della Veglia pasquale(4), potrebbe continuare ad essere proposto nelle domeniche di Pasqua quale eco della santa notte e come la forma più consona, sia per i neofiti, che in questo tempo compiono il loro itinerario mistagogico, sia per l’intero popolo di Dio, che avrebbe modo di conoscere l’antico simbolo battesimale di Roma. Infine, con la veglia e il giorno di Pentecoste potrebbe essere ripreso il grande Credo per esprimere come lo Spirito Santo introduca la Chiesa nella pienezza della verità, conducendola verso una sempre più profonda maturità dottrinale.

 3. Ribadire la necessità che il Credo niceno-costantinopolitano sia coralmente cantato almeno nelle grandi solennità liturgiche secondo il modo classico, in lingua latina e con la melodia gregoriana. Questa forma dovrebbe diventare usuale in tutta la Chiesa latina, come l’espressione più compiuta e solenne della professione della fede nelle grandi feste liturgiche e circostanze singolari. Le nuove generazioni dovrebbero venir educate a comprendere, gustare e amare questo tesoro liturgico, abbandonando ormai luoghi comuni e sterili surrogati che non sono più credibili ed efficaci in ordine ad un alto profilo di fede e di cultura sempre più reclamati proprio dalle menti più preparate e sensibili delle nuove generazioni.

 Con tali orientamenti di disciplina liturgica si potrebbe evitare da un lato che la compresenza delle due formule, resa possibile nel vigente Messale, venga di nuovo eliminata a causa delle difficoltà esecutive e dall’altro che il Credo ‘grande’ possa essere gradualmente dimenticato dall’assemblea liturgica. Potrebbe infatti succedere per il Credo niceno-costantinopolitano quello che già è avvenuto per il Canone Romano: le libertà opzionali verso i nuovi Canoni, non sufficientemente disciplinate, hanno portato da molte parti ad una sua totale estromissione al punto da essere ritenuto non più adatto e diventare di fatto ormai sconosciuto per la maggioranza dei fedeli.

IL CUORE DEL CREDO: ET INCARNATUS EST

 La notte e il giorno di Natale prevedono un rito del tutto singolare e unico nell’Anno Liturgico.(5) Durante il canto del Credo i ministri e tutto il popolo si inginocchiano e adorano il mistero dell’Incarnazione proprio quando si canta l’articolo et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est.(6)

 Il momento, se celebrato convenientemente, imprime un profondo senso di preghiera e suscita una straordinaria commozione spirituale, al punto da costituire quasi l’apice delle Messe natalizie. Per la verità questo articolo del Credo è sempre circondato da una speciale venerazione, infatti, la liturgia prevede che sempre nel pronunziarlo o cantarlo vi sia l’inchino profondo da parte di tutti i presenti, ministri e fedeli.(7) Purtroppo l’indicazione è disattesa e neppure la si conosce, sicché è raro osservare questo gesto anche in assemblee liturgiche di spiccata importanza.

 Perché la Chiesa insiste su questo elemento così singolare e inconsueto? Certamente per suscitare nei suoi fedeli lo stupore del Mistero.(8) La consuetudine con i Misteri della nostra fede provoca assuefazione e facilmente i cristiani si abituano a Misteri straordinari, impensati e non dovuti, ma doni assolutamente gratuiti dell’amore misericordioso di Dio. La sorpresa e la novità degli eventi costitutivi della nostra fede si dilegua nell’abitudinarietà e nella quotidianità di una vita cristiana anche buona, ma priva di quell’esultanza dello Spirito e di quella meraviglia interiore, che si dipanano nel grigiore e nelle difficoltà della vita ordinaria.

Ora l’atto di profonda venerazione che la tradizione ha impresso e tramandato nella liturgia natalizia nacque da quello stupore degli inizi, quando il primo annunzio della fede del Dio fatto uomo non poteva che sorprendere e, una volta accettato, suscitare un incontenibile senso di ammirazione e di gratitudine al Dio delle misericordie. Tale sentimento la Chiesa vuole rinnovare nel santo Natale. E in realtà tale rito manifesta una capacità straordinaria di suscitarlo, se celebrato con intelligenza e cuore.

 Ma perché la Chiesa comanda un simile atto di adorazione per il Mistero dell’Incarnazione nella solennità del santo Natale e non propone un analogo gesto adorante in corrispondenza di altri articoli del Credo nelle rispettive e diverse solennità liturgiche, come ad es. la domenica di Passione o quella di Pasqua, o l’Ascensione o la Pentecoste, ecc.? Innanzitutto occorre dire che la liturgia non è creata come un progetto unitario e completo fatto a tavolino fin dall’inizio, ma si sviluppa esistenzialmente in una serie di circostanza storiche, che nei secoli con motivazioni molto diverse creano espressioni rituali originali, che poi si stabilizzano e, tramandate nella tradizione, formano il volto concreto della liturgia attuale della Chiesa. Così la prostrazione adorante dell’et incarnatus est di Natale la riceviamo come un dato di fatto e una tradizione amata e consolidata.

Occorre tuttavia osservare che circondare di stupore il Mistero dell’Incarnazione del Verbo è assicurare alla radice di ogni altro Mistero l’ammirazione adorante di tutto il complesso misterico della nostra fede. Infatti è l’unione della natura umana con la natura divina nell’unica Persona del Verbo incarnato, che fonda le dimensioni infinite e salvifiche di ogni altro evento della nostra Redenzione. La tremenda passione e morte assumono un valore soprannaturale dall’unione ipostatica. Senza di essa la stessa passione si perderebbe in una ennesima vicenda dei tanti dolori umani, che intessono la storia. Così la lavanda dei piedi, se non fosse un atto compiuto dal Verbo incarnato, sarebbe un’espressione delle infinite umiliazioni, che scorrono nella triste vicenda dell’umanità-serva. Senza l’unione ipostatica non sarebbe possibile né la risurrezione, né l’ascensione, né il dono dello Spirito. Ecco allora come la Chiesa, facendo prostrare i suoi figli nell’Ora santa dell’Incarnazione, immette nel loro animo il senso dello stupore adorante alla radice stessa dell’opera della Redenzione, che accoglie nel suo primissimo e mistico esordio nella notte santa.

Allora non è conveniente proporre una moltiplicazione del rito natalizio in altre solennità, sia perché in tal modo verrebbe tolta la tipicità della liturgia natalizia e diventerebbe un’espressione ordinaria priva di incisività specifica, sia perché altri misteri della fede non sono adeguatamente espressi con la prostrazione, ma piuttosto con la posizione eretta, come i misteri della Risurrezione, della Ascensione e della Pentecoste. Tuttavia, rispettata senza alcuna eccezione la tipicità dell’ et incarnatus est, si potrebbe proporre con una ricchezza polifonica maggiore i versetti del Credo che nelle singole solennità celebrano il mistero in essi contenuto. Ciò già è proposto nella liturgia papale dalla cappella musicale pontificia. La prostrazione adorante poi intende porre l’assemblea liturgica in un atteggiamento di profonda partecipazione alla umiliazione del Signore, che con l’Incarnazione inizia il suo discendere dal cielo e il suo umiliante entrare nel mondo, dimorando in mezzo agli uomini. Infatti il Natale, se da un lato è festa di grande letizia per la venuta del Dio con noi e ha prodotto giustamente dei capolavori musicali e dei simboli di altissima e insuperabile poesia, tuttavia racchiude in sé anche l’inizio di quell’annientamento divino, che porterà l’uomo-Dio fino alla croce e alle tenebre del sepolcro.

 Occorre cogliere anche questo aspetto per non ridurre il Natale ad una gioia superficiale, ad un sentimento sterile e ad una celebrazione slegata dall’ascesi, dalla penitenza, dalla conversione e dalla carità vera, che implica rinuncia e condivisione reale con coloro che versano in ogni tipo di indigenza. Ecco allora che il rito della prostrazione adorante al canto dell’et incarnatus est compone insieme i due aspetti indissolubili: lo stupore grato, incontenibile, commovente, poetico e mistico del Dio che assume la nostra umanità e viene ad abitare in mezzo a noi e il dramma misterioso e carico di corollari imprescindibili in ordine al concreto svolgimento del Mistero pasquale, che solo attraverso la sofferenza e l’annichilimento del Figlio di Dio porterà alla gloriosa risurrezione. La povertà, i disagi e le umiliazioni di Betlemme non possono ridursi ad un mito indolore per una festa irresponsabile e superficiale, ma debbono, pur nel fulgore della grande gioia annunziata dagli Angeli nella notte santa, costituire motivo di seria meditazione e di serena adesione a quella Croce, che in essi è già in atto e profeticamente adombrata.



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1 RIGHETTI, Storia liturgica, ed Ancora, 1969, vol. III, p. 294
2 RIGHETTI, vol. III, p. 297.
3 RIGHETTI, vol. III, p. 294.
4 Mentre la prima e la terza domanda nelle promesse battesimali riporta in modo integrale il Credo apostolico, la seconda è alquanto abbreviata. Una più ampia integrazione è stata fatta con la recente riforma liturgica, ma si potrebbe completare il testo in modo che l’intero Credo apostolico vi sia contenuto .
5 Questo rito è previsto anche nella solennità dell’Annunciazione (25 marzo), ma non essendo questa festa di precetto, tale rito non viene celebrato solennemente e l’assemblea è perlopiù quella feriale.
6 E’ chiaro che nella notte e nel giorno di Natale si deve accogliere senza indugio l’uso del Credo niceno-costantinopolitano, non del Credo apostolico, in quanto tale testo, introdotto recentemente con possibile scelta facoltativa, non si presta a realizzare il rito della prostrazione con quelle modalità e con quella distensione e solennità che la tradizione liturgica e musicale impone. Perciò si deve superare la diffusa mentalità che emargina sia il Credo eseguito in canto, sia l’uso del testo latino con la sua melodia gregoriana e la polifonia classica per il versetto et incarnatus est. Ciò è esplicitamente raccomandato dalla Chiesa nelle Premesse al Messale Romano III edizione, n. 41 : “i fedeli… è opportuno che sappiano cantare insieme, in lingua latina, e nelle melodie più facili, almeno le parti dell’Ordinario della Messa, specialmente il simbolo della fede e la preghiera del Signore”.
7 MESSALE ROMANO III edizione, Premesse, n. 137: “Il simbolo (Credo) viene cantato o recitato dal sacerdote con il popolo stando tutti in piedi. Alle parole: E per opera dello Spirito Santo … e si è fatto uomo, tutti si inchinano profondamente; nelle solennità dell’Annunciazione (25 marzo) e del Natale del Signore (25 dicembre) tutti genuflettono”.
8 Anche nella monizione classica al Pater nella Messa latina si nota lo stupore delle origini, quando il Signore comanda ai suoi discepoli di rivolgersi al Padre con quella singolare confidenza filiale Abbà, Pater. Non era cosa abituale né per i pagani, né per gli Ebrei una simile confidenza con Dio; ecco perché la Chiesa invita con trepidazione i suoi figli: Praeceptis salutaribus moniti et divina istitutione formati audemus dicere: Pater noster...



http://www.liturgiaculmenetfons.it/credo.htm

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