lunedì 14 gennaio 2013

Considerazioni sul Concilio



di Francesco Agnoli

Nel recente Sinodo dei vescovi, da poco concluso, il Card. Wuerl Arcivescovo di Washington, ha dichiarato tra le altre cose: “la situazione attuale affonda le sue radici proprio negli sconvolgimenti degli anni ‘70 e ‘80, decenni in cui esisteva una catechesi veramente scarsa o incompleta a tanti livelli di istruzione. Abbiamo affrontato l’ermeneutica della discontinuità che ha permeato gran parte degli ambienti dei centri di istruzione superiore e che ha avuto anche riflessi in aberrazioni nella pratica della liturgia.

Intere generazioni si sono dissociate dai sistemi di sostegno che facilitavano la trasmissione della fede. È stato come se uno tsunami di influenza secolare scardinasse tutto il paesaggio culturale, portando via con sé indicatori sociali come il matrimonio, la famiglia, il concetto di bene comune e la distinzione fra bene e male. In un modo tragico poi, i peccati di pochi hanno incoraggiato una sfiducia in alcune delle strutture insite alla Chiesa stessa. (cf Instrumentum laboris n. 69, n. 95, n. 104).

La secolarizzazione ha modellato due generazioni di Cattolici che non conoscono le preghiere fondamentali della Chiesa. Molti non percepiscono il valore della partecipazione alla Messa, non ricevono il sacramento della penitenza e spesso hanno perso il senso del mistero o del trascendente come se avesse un significato reale e verificabile”. Quella di Wuerl è stata certamente una delle prese di posizione più energiche, che non può essere elevata a cifra del Sinodo, ma che comunque mi sembra dimostrare un fatto: il tempo dei trionfalismi e degli ottimismi a buon prezzo volge al termine. Quantomeno perché mancano i numeri (nelle chiese e nei seminari). E perché, come ha detto appunto Wuerl, la Chiesa sembra oggi divisa più che mai.

La tensione all’unità, nella Chiesa cattolica, è un mandato divino: “affinché siano una cosa sola, perché il mondo creda”. Purtroppo però gli uomini sono uomini e la Chiesa un impasto, per così dire, di umano e di divino, che non trova mai la forma perfetta. Fin dal principio, così, non sono mancati i motivi di divisione, le liti, le eresie, e le necessarie condanne. L’unità, infatti, sussiste solo nella Verità. In particolare nella Chiesa esistono dei dogmi ineludibili, ma anche tanto spazio per la discussione, l’approfondimento di una Verità rivelata, ma nello stesso tempo così ampia ed ineffabile, da essere inesauribile per la mente umana. Di qui un detto famoso, e fondamentale: in necessariis unitas, in dubiis libertas, in omnibus caritas.

Se volessimo rintracciare nella storia della Chiesa alcune epoche segnate in modo particolare dal conflitto interno, potremmo pensare ai primi secoli, durante i quali fu evidentemente non facile definire le verità essenziali di una “novella buona”, ma anche, per tanti aspetti, così nuova. Il corpo mistico di Cristo fu poi dilaniato dalla zizzania seminata a piene mani, nel Quattrocento e nel Cinquecento, da vari eretici, in particolare da quel Martin Lutero cui Angela Pellicciari ha dedicato, proprio in questi tempi, un saggio decisivo (per Cantagalli).

Proprio rispetto all’opera, alla predicazione di Lutero, la Chiesa fu chiarissima: si trattava non di una riforma morale, ma di una vera e propria rivoluzione teologica ed antropologica, assai lontana dal messaggio di Cristo. Eppure gli ecclesiastici più sinceri ammisero che la lacerazione di Lutero aveva potuto realizzarsi solo a causa della grande crisi interna alla Chiesa stessa. Immoralità, ignoranza, simonia, mancanza di fede e di carità in molto clero, avevano concesso agli eretici lo spazio non per opportune riforme, ma per vere e proprie distorsioni. Perché c’è come una legge della storia, per la quale quando le necessarie riforme (non solo strutturali, anzi!) non vengono compiute, arrivano, allora, le rivoluzioni, con la loro carica di nichilismo e di distruzione.

Sembra di poter dire che dopo il Concilio di Trento la Chiesa abbia conosciuto un lungo periodo di relativa unità, appena turbata da micro scismi come quello dei veterocattolici. Qualcosa è avvenuto, nuovamente, in epoca molto recente: un grande scisma, anonimo, non dichiarato, ma evidente, attraversa infatti la Chiesa da ormai diversi decenni. Che molti cattolici non vogliano vederlo, che preferiscano dire “tutto bene, madama la marchesa”, significa solo che la crisi durerà più a lungo. Oggi nella Chiesa abbiamo cardinali che si schierano per i matrimoni omosessuali, o che scrivono libri insieme agli alfieri politici della dissoluzione morale, appoggiando così più o meno velatamente, con la loro ambiguità dottrinale e linguistica, aborto, sperimentazione occisiva sugli embrioni, eutanasia…

Abbiamo teologi che non credono nel Cristo della storia, che negano la Resurrezione, che mettono in dubbio il culto millenario per Maria… Oggi centinaia di sacerdoti nel mondo rivendicano il diritto al matrimonio degli ecclesiastici, ostentano convivenze more uxorio, vantano la loro disobbedienza rispetto a Roma, si auto-eleggono “profeti” perché negano questo o quel dogma… Si tratta, lo ripeto, di tanti scismi striscianti e latenti, ma reali. Scrive padre Serafino Lanzetta, nel suo “Iuxta modum. Il Vaticano II riletto alla luce della Tradizione della Chiesa” (Cantagalli), che oggi “non si mettono in discussione le verità della fede, ma semplicemente le si ignora, non le si predica più, non le si insegna… Verità come la SS. Trinità, Cristo Dio e Uomo, il sacrificio dell’Eucaristia, il peccato originale e quello attuale… l’escatologia nei suoi stadi-luoghi ultraterreni: inferno, purgatorio, paradiso, che sono la fede della Chiesa, oggi sembrano non avere più cittadinanza nell’universo della fede cattolica”.

Da dove tutto ciò? Da dove il crollo della frequenza ai sacramenti, il trasformarsi della fede, molto spesso, in un vago buonismo e in un moralismo senza legame con il trascendente? Da dove il fenomeno dei cattolici per il divorzio, per l’aborto ecc.ecc.?

Difficile identificare una sola causa, ma certamente non si può dimenticare un fatto: uomini di punta della gerarchia cattolica, cardinali che ebbero un ruolo essenziale nella gestione del Concilio Vaticano II, furono i primi a ribellarsi, con foga e rabbia, contro quel Paolo VI che li aveva valorizzati e promossi, per esempio in seguito alla pubblicazione dell’enciclica Humanae Vitae. Rimane impressionante, leggendo “Il Concilio Vaticano II. Una storia mai scritta” (Lindau) di Roberto de Mattei, vedere la carica di astio nei confronti della Tradizione presente nelle parole e nell’operato di teologi, vescovi, cardinali, che sono poi rimasti a lungo un punto di riferimento all’interno della Chiesa. Qualcosa, all’epoca del Concilio, andò storto? Furono i testi, meglio, alcuni di essi, o lo spirito?

Non sono in grado di affrontare questo grande dilemma, però non si può fingere che a rimanere “perplesso” sia stato solo Mons. Marcel Lefebvre, che comunque non era uno qualunque, ma un vescovo molto amato e stimato da Pio XII e ritenuto un punto di riferimento da centinaia di padri conciliari. Anche il segretario di Stato cardinal Ottaviani, cardinali come Siri, Bacci, Oddi ecc. vescovi, teologi stimati come don Divo Barsotti, laici di grande competenza e fede come Romano Amerio, dissero in varie occasioni che stava succedendo qualcosa che avrebbe nuociuto alla Fede. Un fatto è certo: il post Concilio non fu l’epoca dell’aggiornamento, ma della destrutturazione. Basti pensare al rito riformato, o come dicono alcuni, “rivoluzionato”. Che una riforma liturgica ci volesse, lo pensavano quasi tutti, “tradizionalisti compresi”, ma la Sacrosanctum Concilium, cioè il documento conciliare sulla liturgia, non prevedeva quasi nulla di ciò che poi fu effettivamente fatto.

Insieme alla rivoluzione liturgica, quella artistica, che continua, purtroppo ancora oggi, con la costruzione di chiese che sembrano palestre, o qualcosa di simile; in cui non c’è più spazio per gli inginocchiatoi, per la sacralità e la bellezza dell’arte antica. Si buttarono a mare duemila anni di preghiere, invocazioni, canti, devozioni popolari. Era scritto nel Vaticano II? Esplicitamente no. C’erano però i germi, qua e là, di questo futuro sconquasso? Lascio ad altri, ripeto, la discussione, ma non posso non notare l’evidenza: dal Vaticano II in poi qualcuno ha fatto in modo che gran parte della storia passata della Chiesa fosse archiviata. Leggere omelie, scritti di sacerdoti, teologi, e vescovi, da quarant’anni, significa trovare citazioni e citazioni scritturali e conciliari. Nulla, o quasi, delle encicliche e dei concili passati.

E’ esperienza personale, ma comune, quella di sacerdoti che ritengono, più o meno implicitamente, che la Chiesa sia nata 50 anni fa; che lo Spirito Santo sia sceso sugli uomini solo in epoca conciliare. E’ esperienza comune dialogare con uomini di Chiesa che neppure sanno chi fossero Leone XIII, Pio X, Pio XI, per non andare tanto lontani… di più, che senza neppure conoscerne il magistero, sono disposti a liquidare questi pontefici e il loro insegnamento come insignificanti, persino nefasti. Difficile, di fronte a questa realtà tangibile, non riconoscere una certa verità nelle parole di coloro che dicono: possibile che credere tutto quello che hanno creduto i cattolici per secoli, ed essere poco edotti o poco simpatizzanti per certe novità degli ultimi quarant’anni, significhi essere fuori dalla Chiesa? Professare la fede dei nostri nonni e dei nostri bisnonni, significa davvero essere dei brontosauri “preconciliari”? Possibile che in nome di un Concilio che per scelta non ha voluto definizioni dogmatiche, né censure, né scomuniche, si scomunichino di fatto o si emarginino tanti cattolici disorientati, solo perché di orientamento tradizionale? Solo perché attaccati al catechismo di Pio X, o a ciò che, in Chiesa, gli era stato spiegato in epoche precedenti?

Tanto più, come ha scritto recentemente il cardinal Walter Brandmüller, in un volumetto scritto insieme a mons. Marchetto e mons. Bux, “Le chiavi di Benedetto XVI per interpretare il Vaticano II” (Cantagalli), che il Vaticano II è stato “un nuovo tipo di Concilio”, con un suo “profilo specifico” rispetto a quelli del passato. Un Concilio in cui, “aspetto totalmente nuovo nella storia dei Concili”, “ogni testo ha un differente grado di cogenza” ( e ve ne sono alcuni che sarebbero legati “a questione dell’epoca senza un contenuto normativo evidente”).

Inevitabile, allora, che giungesse l’ora della discussione. Che per quarant’anni non c’è stata. Sino a 10 anni fa circa, infatti, si sentiva spesso parlare, nella Chiesa, di “Vaticano III”. Bisogna proseguire nelle riforme, andare oltre: questo lo slogan dominante. Dominanti, nello stesso tempo, le parole d’ordine e gli uomini di orientamento “progressista”. Segnati da un particolare: una ansia di rivoluzione, di “rifondazione” della Chiesa stessa, che poco ha del realismo cristiano. Da un po’ di tempo qualcosa è cambiato. Non si parla più di “Vaticano III”, ma di comprendere meglio il Vaticano II. Non più di Vaticano II come di atto fondativo, quasi di nuova Pentecoste, della Chiesa, ma di Vaticano II da leggere in continuità con la Tradizione della Chiesa. Se è vero che gli effetti di un simile cambio di passo, non sono ancora così evidenti, è però facile capire che non mancheranno.

Come mai questa novità? Sicuramente i motivi sono vari: l’impossibilità di fingere ancora l’esistenza di una “nuova primavera”, o una “nuova pentecoste” si è fatta evidente. Le chiese e i seminari si svuotano: è un dato di fatto, contro il quale non valgono gli argomenti, le carte, i convegni, i trionfalismi…
Dall’altra è stato importante soprattutto il celebre discorso di Benedetto XVI in cui invitava apertamente a rifiutare una “ermeneutica della discontinuità e della rottura” e quindi a riconoscere che il Concilio non poteva essere visto come “una specie di Costituente che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova”. In quel discorso del 22 dicembre 2005 alla curia romana Benedetto XVI non rinnegava il Vaticano II, di cui è un grande estimatore, ma apriva senz’altro la porta, volutamente o meno, ad un dibattito dentro la Chiesa, non più procrastinabile.

La posizione, diciamo così solo per intenderci, “tradizionale”, infatti, si trovava per la prima volta dopo tanti anni legittimata a parlare, non più del tutto schiacciata in un angolo dalla posizione più progressista, ancora molto forte, dominante, ma in evidente difficoltà nel crearsi spazio tra le nuove generazioni.
Confermata in questo da due eventi: il “Motu proprio summorum pontificum”, che poneva fine ad un ostracismo inspiegabile verso un rito secolare, e la remissione della scomunica, unilaterale, ai successori di mons. Lefebvre (che lasciava aperti molti problemi, ma indicava anche qui un non piccolo cambio di passo). A ciò si aggiunga, per fare un solo esempio, il riconoscimento da parte di Roma dell’Istituto tradizionale del Buon Pastore. Ai membri di tale Istituto è stata concessa dal papa la possibilità di celebrare solo con l’antico messale e di una “critica seria e costruttiva” dei punti del Concilio Vaticano II che appaiano difficilmente conciliabili con la Tradizione… Proprio ai membri del Buon Pastore il cardinal Castrillon Hoyos ebbe a dire che “la critica costruttiva è un gran servizio da rendere alla Chiesa”.

In questo Hoyos si colloca sulla scia, per fare un solo esempio, di un cardinale come Giacomo Biffi, intimo amico dell’attuale pontefice, che nel suo “Memorie e digressioni di un cardinale italiano” (Cantagalli), con arguzia e levità, ma anche con libertà cristiana, espone una serie di rilievi importanti. Biffi non esita a criticare il celebre discorso di apertura del Concilio di Giovanni XXIII, la sua invettiva contro i “profeti di sventura”, oppure la celebre espressione giovannea secondo cui occorre “guardare più a ciò che ci unisce che non a ciò che ci divide”. A tal riguardo l’ex cardinale di Bologna chiosa: “Nelle questioni che contano la regola non può essere che questa: noi dobbiamo guardare soprattutto a ciò che è decisivo, sostanziale, vero, ci divida o non ci divida”. Quanto al Concilio vero e proprio Biffi ammette di non comprendere: una certa idea conciliare di pastoralità (“si voleva forse dire implicitamente che i precedenti concili non intendevano essere ‘pastorali’ o non lo erano abbastanza?”); “la sconcertante insipienza ecclesiastica” che ha portato “vistose aberrazioni” nel campo liturgico; il “silenzio su cui riflettere” del Concilio sul comunismo (“Negli stessi anni in cui si svolgeva l’assise ecumenica, le prigioni comuniste erano luoghi di indicibili sofferenze e di umiliazioni inflitte a numerosi testimoni della fede…e il Concilio non ne parla”).

Il cambio di passo, per quanto lento, di questi ultimi anni, come si diceva, è ben visibile a livello culturale ad esempio nell’esplosione di siti che guardano con favore alla Tradizione, al gregoriano, alla liturgia antica… e nella pubblicazione di una grande quantità di volumi sul Vaticano II da parte di personalità cattoliche di spicco, di cui non si può mettere in dubbio l’amore profondo per la Chiesa e la competenza. Penso soprattutto ai volumi di monsignor Brunero Gherardini, uno dei maggiori teologi italiani, a partire da “Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare”, che porta la prefazione del vescovo mons. Mario Oliveri e del vescovo Albert Malcolm Ranjith, poi nominato cardinale dallo stesso Benedetto XVI. Accanto ai lavori di Gherardini si possono citare la ripubblicazione, da parte di ben due editori, del celebre Iota unum di Romano Amerio; il grande successo mediatico ed editoriale del citato volume del professo De Mattei; gli studi di cattolici di primo piano come Cristina Siccardi e Maria Guarini, Mario Palmaro, Alessandro Gnocchi, Paolo Pasqualucci, padre Serafino Lanzetta, Enrico Maria Radaelli, Lorenzo Bertocchi ed altri.

Tutti tesi a comprendere “cosa è andato storto” in quegli anni (ed oggi). Alle domande, alle analisi di costoro è mancata una vera risposta da parte del fronte progressista, sempre più in affanno, che vorrebbe rispondere, alla Melloni, con anatemi e richiami all’autorità, dopo aver sempre negato la validità di entrambi. La novità è tutta qui: che il dibattito più vivace, più brillante, sebbene ancora minoritario, sembra ormai limitarsi ad uno scontro interno al fronte tradizionale. Per il quale, differenze a parte, è assodato che è venuto il momento di finirla con il Vaticano II come “super-dogma” che annullerebbe tutto ciò che lo precede. Per i componenti di questo fronte, come per il cardinal Walter Brandmüller, il Vaticano II “non è né più né meno che un Concilio fra gli altri, accanto agli altri, dopo gli altri”.

Nel dibattito a venire, sarà dunque sempre più difficile attuare quella distinzione tra Chiesa pre conciliare e Chiesa post conciliare che ha segnato gli ultimi quarant’anni, generando un desolante rinnegamento delle radici. Certo, c’è ancora molta strada da fare, molto da capire. La stessa “continuità”, deve diventare operativa. Anzitutto sul piano dottrinale: si attende per esempio che nei seminari rientri lo studio dei documenti papali pre-conciliari, e che si adotti una visione del passato della Chiesa ben diversa. Inoltre è più che mai necessario un ripensamento liturgico: se la messa di Pio V andava riformata, come vollero i padri conciliari, compresi i più tradizionali, e la riforma di Bugnini è stata una rivoluzione, sarà necessaria, quantomeno, una riforma della riforma, che Benedetto XVI ha cominciato ad indicare, ad esempio ponendo la croce al centro, sostituendo il pro omnibus con il pro multis, ma che attende di essere compresa e poi portata ulteriormente molto avanti.

Ecclesia semper reformanda. Lo era prima del Concilio, lo è senza dubbio anche oggi.



 Libertà e Persona 8 gennaio 2013

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