domenica 30 settembre 2012

Sillabo e Immacolata Concezione

 

 


 






Con un lungo articolo sabato 25 agosto Giuliano Ferrara lanciava l’idea provocatoria di un “nuovo Sillabo”, cioè di un elenco delle “più inquietanti scemenze contemporanee”. Nello stesso articolo citava una nuova edizione del Sillabo, che non possiedo. Spinto dalla curiosità, con calma, sono andato a ripescare la mia copia del Sillabo, edita da Cantagalli nel 1998, con prefazione di Gianni Vanoni, esperto anche di storia delle società segrete, e, in appendice, la lettera di Juan Donoso Cortès, forse il più acuto intellettuale cattolico dell’Ottocento, al cardinal Fornari (1852).
In quella bella e acuta edizione sono colti davvero, a mio parere, alcuni concetti essenziali per capire quel documento papale, spesso male interpretato e vilipeso.
Si ricorda anzitutto che “un errore non vale l’altro”: proponendo una raccolta di errori già condannati, Pio IX rimandava, appunto, a condanne precedenti, non tutte della medesima natura. Così nel Sillabo “alcuni sono condannati con autorità dogmatica, cioè infallibilmente, altri con autorità solo umana, e quindi fallibile”. Distinzione non inutile, dal momento che il mondo cattolico rischia spesso di dividersi in due: tra coloro che in fondo non credono alla missione divina della Chiesa (secondo costoro il papa e la gerarchia hanno quasi sempre torto), e coloro i quali assolutizzano ogni dichiarazione del singolo Sommo Pontefice – anche le sue preferenze calcistiche, se occorre-, facendo così, anch’essi, un pessimo servizio alla Chiesa.
Vannoni ricorda poi la genesi difficile del documento, partendo dalla lettera del 1852 con cui il cardinal Fornari, su invito di Pio IX, chiamava varie personalità cattoliche a prendere parte alla stesura del documento. Tra i consultati, due laici di grande valore ed intelligenza, come il francese Louis Veuillot e il già citato Cortès.
Il papa aveva concepito un nesso profondo tra la condanna, giuridicamente innocua, degli errori moderni (in religione, politica, antropologia) e la proclamazione del Dogma dell’Immacolata Concezione. Più che indagare sulle singole condanne, sacrosante e profetiche, nei confronti del nazionalismo, del comunismo, della statolatria…, tutti mostri che avrebbero mostrato il loro volto più feroce nel Novecento, sarebbe dunque opportuno capire il perché di tale nesso.
E’ presto detto: Pio IX aveva capito molto bene che l’inganno della cultura moderna stava e sta nel credere all’uomo buono per natura, cioè senza peccato originale, e quindi alla inutilità della grazia di Dio, riversata attraverso i sacramenti, per la vita personale, familiare, sociale, politica. Mettere insieme una condanna degli errori, cioè ricordare che l’uomo può e deve scegliere tra vero e falso, e quindi tra bene e male, era dunque perfettamente complementare al ricordo di una verità di fede: tutti gli uomini e le donne, ad eccezione di Maria, nascono con il peccato originale, cioè bisognosi di purificazione, di perdono, di grazia…
Questo concetto era ben chiaro anche a Donoso Cortès, che nella lettera citata, affermava essere due gli errori all’origine di tutti gli altri: negare che Dio abbia cura dell’uomo e delle sue creature; affermare che l’uomo non ha macchia, e quindi non ha bisogno di Dio (ma tutto può, da solo, qui ed ora).
Da qui, continuava lo spagnolo, nasce l’attuale “epoca dei sistemi utilitaristici, delle grandi espansioni commerciali, della febbre dell’industria, dell’insolenza dei ricchi e dell’impazienza dei poveri”. Da qui l’edonismo, il razionalismo, l’individualismo…e presto “catastrofi gigantesche”. E aggiungeva, veramente profetico (ché i profeti veri non sono acclamati in vita, ma si scoprono dopo morti), che un tale stato di cose avrebbe generato- come effettivamente, nel Novecento, genererà-, “espansione gigantesca dell’autorità dello Stato” ai danni della “libertà umana”, “rivoluzioni” e “tirannie”, perché il cattolicesimo, ormai scartato dalla cultura dominante, “è l’unica religione della terra che ha insegnato alle genti che nessun uomo ha diritto sull’uomo, perché ogni autorità viene da Dio” (e va quindi esercitata nel rispetto di precisi limiti).
La risposta al Sillabo fu durissima, non solo fuori, ma anche dentro la Chiesa. Così come è dura oggi, quando qualcuno ricorda, che so, che la vita di un bimbo non è nostra, o che la famiglia è fatta da un uomo e una donna. Avete presente le persone che non sbagliano mai, quelle che hanno sempre ragione, che si ritengono senza peccato? Dite loro che esiste il bene e il male, che anche loro, come tutti, possono sbagliare, che non tutto ciò che si fa è necessariamente buono ed ingiudicabile…si infurieranno come delle bisce. Così la cultura moderna: fondata sull’ideologia del progresso e sulla divinizzazione dell’uomo, non tollera voci critiche, e prepara per esse la ghigliottina giacobina, il lager e il gulag, oppure, in tempi più quieti, la dannazione culturale in nome del politicamente corretto. Eppure la fede cristiana è tutta lì: nel peccato originale, che ha richiesto la Redenzione; nell’elezione di Maria e nel suo sì, nel sì di ogni uomo, a Dio che entra nella storia, per amore nostro.





Il Foglio

sabato 29 settembre 2012

Ma che musica, Magistero!





di Franciscus Pentagrammuli

 Sabato 6 Ottobre avrà luogo a Verona il secondo Colloquio nazionale sulla musica sacra, che avrà fra i relatori anche il Cardinal Burke (che nel pomeriggio canterà la Messa pontificale nella locale chiesa dei Padri Filippini), e monsignor Nicola Bux, noto per la sua attività di divulgazione liturgica a sostegno della linea del Papa Benedetto XVI.

Nell'attesa dell’evento, vogliamo proporre anche noi, pur entro i nostri ristretti limiti, una riflessione sulla musica sacra. Siamo abituati a vedere come nelle nostre chiese (o nella maggior parte di esse) la musica venga trattata in maniera utilitaristica e basandosi soprattutto sui gusti (veri o presunti) del“pubblico” per la scelta del repertorio da eseguire nei sacri riti.

Probabilmente, molti dei direttori di coro, degli “animatori liturgici”, dei cantori o chitarristi, e forse degli organisti stessi ignorano che la Chiesa, nella persona dei Romani Pontefici, si è ripetutamente espressa circa la musica sacra: esiste quindi un vero e proprio“magistero sulla musica sacra”.

 Le sue radici affondano nei primi secoli, già san Paolo ne scrisse, e possiamo credere che ne parlò, e così san Gregorio Magno, che addirittura riformò e consolidò la musica dei riti romani…fino ai testi di Benedetto XIV, che ponevano l’accento sulla necessaria dignità della musica rituale cattolica e, finalmente, al grande Motu proprio di san Pio X: l’Inter Sollicitudines (sostanzialmente confermato da Pio XII, dal Concilio Vaticano II, e da Giovanni Paolo II).

In esso il santo Pontefice definì esplicitamente, e con rigore degno di colui che promulgò il Catechismo e diede inizio alla redazione del Codex Juris Canonici, quali sono i caratteri necessari, indispensabili, della musica sacra: “[Essa] deve […] possedere nel grado migliore le qualità che sono proprie della liturgia, e precisamente la santità e la bontà delle forme, onde sorge spontaneo l’altro suo carattere, che è l’universalità.”
 E spiega: “Deve essere santa, e quindi escludere ogni profanità”, “Deve essere arte vera, non essendo possibile che altrimenti abbia sull'animo di chi l’ascolta quell'efficacia, che la Chiesa intende ottenere accogliendo nella sua liturgia l’arte dei suoni”. “Ma dovrà insieme essere universale in questo senso, che pur concedendosi ad ogni nazione di ammettere nelle composizioni chiesastiche quelle forme particolari che costituiscono in certo modo il carattere specifico della musica loro propria, queste però devono essere in tal maniera subordinate ai caratteri generali della musica sacra, che nessuno di altra nazione all'udirle debba provarne impressione non buona”.
 Stabilisce poi “la seguente legge generale: tanto una composizione per chiesa è più sacra e liturgica, quanto più nell'andamento, nella ispirazione e nel sapore si accosta alla melodia gregoriana, e tanto meno è degna del tempio, quanto più da quel supremo modello si riconosce difforme”. Ecco quindi che, guidati dal “Dolce Cristo in terra”, scopriamo dover possedere la musica sacra delle caratteristiche oggettive, non dipendenti dal gusto o dalla preparazione del clero, dei musicisti, dell’assemblea..

 Rivolgiamoci dunque al Doctor Communis, san Tommaso d’Aquino, per trovare la ragione di tale oggettività persino in materia estetica: egli, trattando dell’ente, riconosce come esso possa essere significato sotto diversi aspetti, i trascendentali: unum (uno), bonum (buono), verum (vero)*.
Quanto a ciò che più ci interessa, il bello (pulchrum), Tommaso lo pone quale trascendentale sulla linea del bonum: è infatti il buono, ma non in quanto oggetto del desiderio, bensì in quanto oggetto di apprezzamento da parte dell’intelletto: “Bonum laudatur ut pulchrum”dice citando Dionigi.
Esso è in qualche modo la sintesi di tutti i trascendentali, è il bene riconosciuto e il vero desiderato, e vi è quindi un fondamento metafisico, oggettivo, della bellezza, la quale sarà presente, per analogia, nei soggetti reali. In essi, il Dottore Angelico riconosce quali caratteri di ciò che è bello i seguenti tre: la debita proporzione (delle parti fra di loro, e della materia alla forma), l’integrità e la chiarezza o splendore (secondo la disposizione e secondo il colore, oggi potremmo dire nitidezza). Essendo poi la forma a dare anche il fine alla materia, ecco che si avrà un ultimo carattere necessario alla bellezza: l’adeguazione allo scopo dell’oggetto (qua ci ricordiamo delle parole di san Pio X).

 Ultimamente, vediamo come i Papi Giovanni Paolo II e Benedetto XVI abbiano più volte parlato della via pulchritudinis, indicando la bellezza quale mezzo per la nuova evangelizzazione; di più, diciamo noi: essa è il mezzo precipuo per la nuova evangelizzazione ai nostri giorni! Sappiamo infatti come la cultura diffusa abbia abbandonato al relativismo il vero, quindi il buono, col successivo rifiuto delle scienza metafisiche e morali, e non sono mancati attacchi anche violenti al bello. Sono stati dunque minati tutti i caratteri ontologici della verità, dell’essere (vorremmo scrivere Verità ed Essere!). Ma resta ancora al bello una forza particolare, una ancor viva capacità di prendere dolcemente l’anima dell’uomo e condurla con sé. Come possiamo non riconoscere come il bello possa guidare l’uomo a riscoprire le altre proprietà “divine” dell’ente: il vero e il buono (e non ci siamo dimenticati dell’uno, minacciato oggi dalle teorie della società e della persona liquide)?

Ecco dunque che un’arte (e, nel nostro particolare interesse, una musica) sacra veramente bella sia oggi quanto mai prima necessaria al bene delle anime, e sia quindi un dovere eminente della Chiesa restaurare la Bellezza nei suoi sacri riti e nella vita cristiana: questo colloquio veronese può essere un buon passo sulla strada di questa santa opera.


 Campari e De Maistre 29 settembre 2012

venerdì 28 settembre 2012

La teologia e il vincolo inscindibile che lega Creatore a creatura

 

 

 







Più pratica di quanto si pensi

di Inos Biffi

La sacra dottrina, dedicandosi primariamente alla considerazione di Dio, inteso come suo supremo interesse, non smarrisce le creature e in particolare non trascura l'uomo. Al contrario, proprio fissandosi su Dio, essa lo riscontra come creatore, mentre volgendosi alla Trinità trova il disegno dell'incarnazione del Figlio di Dio predestinato dall'eternità a farsi uomo. Dio -- che professiamo «Creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili» -- non solo ha eternamente preceduto l'uomo nella cura degli esseri, ma, quale Essere supremo, li ha chiamati alla luce, quando ancora non c'erano, facendoli salire ed emergere dal loro nulla nativo. Noi amiamo gli esseri che ci sono; Dio li ha amati così che ci fossero e li sostiene incessantemente, perché, lasciati a se stessi, ricadrebbero nel non essere da cui sono venuti.
E risalta così l'assoluta gratuità del Creatore, la cui presenza nell'intimo delle creature non solo non le condiziona, ma le libera e le fa salire all'essere. Ecco perché, se una prossimità ci deve inquietare, non è quella di Dio, bensì quella degli uomini che, a motivo della loro costitutiva indigenza, sono esseri bisognosi, incapaci di una relazione di pura gratuità e sempre tentati di appropriarsi dell'essere altrui.
Come lucidamente scrive Tommaso d'Aquino: «Dio ama tutte le realtà esistenti. Non però come le amiamo noi. La nostra volontà, infatti, non causa il bene che si trova nelle cose, ma al contrario è mossa da esso come dal proprio oggetto, per cui l'amore, con il quale vogliamo del bene a qualcuno, non è causa della sua bontà, ma piuttosto la sua bontà, vera o creduta tale, provoca l'amore, che ci spinge a volere che gli sia mantenuto il bene che possiede e acquisti quello che non ha; e ci adoperiamo a tale scopo. L'amore di Dio, invece, infonde e crea la bontà nelle cose» (Summa Theologiae, i, 20, 2 c); esso «è causa della bontà delle cose» (ibidem, 3, c).
Fissandoci in Dio rinveniamo, dunque, l'origine di tutte le cose, che stanno “fuori” di lui ma sono da lui intimamente amate al punto che le fa esistere, e tra di esse reperiamo l'uomo, fatto a immagine e somiglianza di Dio. Per quanto, poi, riguarda l'uomo, la scoperta è stupefacente, poiché lo riscontriamo collocato nell'intimo della Trinità: è l'umanità del Figlio di Dio che «si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi» (Giovanni, 1, 14).
L'uomo rimane sempre una creatura, e, pure, un vincolo inscindibile lega la natura umana alla seconda Persona della Santissima Trinità, che la assume personalmente, rendendo la natura umana esemplare. Essa rappresenta il capolavoro e il vertice della creazione, la massima riuscita dell'opera divina, il termine dell'amore divino più grande. Tommaso dirà: «Dio ama Cristo non solo più di tutto il genere umano, ma più di tutte le creature dell'universo» (Summa Theologiae, i, 20, 4, 1 m). Più che stornare dall'interesse per l'uomo, la contemplazione trinitaria rimanda necessariamente all'uomo e al prestigio della sua inimmaginabile dignità.
Anzi, tutte le creature acquisiscono, a motivo di Gesù Cristo, un pregio nuovo e un valore inedito: tutto quanto, infatti, appartiene al mondo terreno e a quello celeste è stato ideato e posto in atto «per mezzo di lui», «in lui» e «in vista di lui» (cfr. Colossesi, 1, 16).
Come sappiamo, la scienza pratica tratta delle azioni umane (Summa Theologiae, i, 20, 4, c): ora, la teologia prende in considerazione tali azioni, ma a partire dalla Rivelazione, cioè dal profilo di Cristo, modello di condotta. In tal modo l'aspetto speculativo della sacra dottrina si estende a quello della prassi. Tuttavia non se ne distacca. Il comportamento stesso del cristiano è associato al cammino di Cristo verso il Padre, la cui visione rappresenta la somma aspirazione. Afferma ancora il Dottore Angelico: «La visione del Padre è il fine di tutti i nostri desideri e di tutte le nostre azioni, così che non si richiede nulla di più» (Super evangelium Iohannis reportatio, 14, lectio 3, n. 1883).
Il teologo irenico è attento a spartire equamente in due campi distinti ciò che spetta a Dio e ciò che spetta all'uomo, con la cura di non eccedere né in un senso né nell'altro.
Il teologo, e basta, non ha questa vana preoccupazione: poiché egli sa che, proprio “salendo” a Dio, con lui “discenderà” all'uomo autentico, quello che la Trinità ha ideato e attuato attraverso l'umanità del Verbo fatto carne, ossia l'uomo plasmato e amato come figlio. Non dobbiamo impegnarci a insegnare l'umanesimo a Dio, che dell'uomo è il creatore e per la sua redenzione ha donato il Figlio crocifisso.
Questo stesso teologo e il predicatore che gli terrà compagnia con la sua parola sono persuasi che la materia del loro studio e della loro parola non si esaurirà e non invecchierà mai; ma, al contrario, insegneranno e diranno sempre cose interessanti e originali, tali da non annoiare lettori o uditori, e semmai ne risveglieranno il gusto e il bisogno. Quando una teologia o una predicazione annoiano c'è il rischio che neppure siano vere.




(©L'Osservatore Romano 28 settembre 2012)


giovedì 27 settembre 2012

Il quinto anniversario del "Summorum Pontificum". Nonostante le avversità la Messa in latino avanza









di Paolo Facciotto

Il 14 settembre, festa della Esaltazione della Croce, sono passati cinque anni dall’entrata in vigore del “Summorum Pontificum” pubblicato il 7 luglio 2007.
Con questo motu proprio, cioè una decisione presa di propria iniziativa, senza passare attraverso la proposta degli uffici di curia, Papa Benedetto XVI stabilì che la liturgia nuova, riformata dopo il Concilio Vaticano II, e quella antica sono “due usi dell’unico Rito romano” dato che il messale di san Pio V aggiornato nel 1962 da Giovanni XXIII non era mai stato abrogato.
In breve, Papa Ratzinger ridava piena cittadinanza nella Chiesa alla messa in latino, come “forma extraordinaria” della stessa “lex orandi” (legge della preghiera) di tutti i cattolici che coincide con la loro universale “lex credendi” (legge della fede).
Che cosa è cambiato in questi cinque anni?
Cerchiamo di farcene un’idea, anzitutto con qualche numero. In Italia oggi sono circa 140 i luoghi, e i relativi gruppi stabili, dove si celebra la messa antica.
Prima, erano 13 i gruppi di fedeli che si facevano forti dell’indulto del 1984 del beato Giovanni Paolo II. L’aumento, dunque, è stato esponenziale. Sempre tenendo fuori dalla lista i numeri dei gruppi “lefebvriani” che a tuttoggi non sono in piena comunione con Roma, negli Stati Uniti si contano ben 498 chiese (fra parrocchie, cattedrali e santuari) in cui si celebra almeno una volta la settimana, o comunque abbastanza regolarmente, la messa in latino. Il monitoraggio di questo movimento spontaneo di ritorno alla Tradizione, è aggiornato al 16 giugno scorso, chi vuole può controllare ed informarsi sul sito:http://web2.airmail.net/carlsch/EFMass/churchessummary.htm


Nella sola New York City, ad esempio, sono 20 le chiese in cui è data ai cattolici la possibilità di vivere la liturgia secondo la “forma extraordinaria”. Siamo in una metropoli, è vero, ma il numero fa un certo effetto. E sono moltissimi i giovani. Al terzo anno dall’entrata in vigore del motu proprio, in 27 paesi del mondo monitorati da “Paix Liturgique” si contavano 1.444 luoghi di celebrazione della messa tridentina, di cui 467 regolarmente ogni domenica in un orario adeguato per le famiglie (fra le 9 e le 12).


In occasione dell’Anno della Fede è stato promosso un pellegrinaggio internazionale a Roma dei gruppi, associazioni e movimenti “pro Summorum Pontificum”, che culminerà nella messa pontificale in San Pietro sabato 3 novembre. Il titolo - “Una cum Papa nostro” - è preso dalle parole della Sacra Liturgia, a significare un’azione di grazie e di fede nei confronti di Benedetto XVI.


Tutto questo è successo, e sta succedendo, senza grandi mezzi finanziari, senza tv, senza radio, senza giornali, senza niente. Con il semplice passaparola, favorito dalla rete.
Nella Chiesa c’è stato chi ha obbedito con prontezza ed efficacia al Papa. Il Card. Ruini mise subito a disposizione una parrocchia romana, e non dovette certo attendere l’istruzione applicativa “Universae Ecclesiae”. Ma sono state e sono tuttora presenti ostilità, resistenze e diffidenze da parte di esponenti della gerarchia. 


Ad esempio un vescovo, cinque anni fa alla stampa confidò di sentirsi “in lutto” per il motu proprio. Chi è avverso alla “riforma benedettiana” della liturgia non per questo viene messo ai margini (quel medesimo vescovo era fra i relatori principali all’ultima settimana liturgica nazionale di fine agosto). Ci sono uffici diocesani in Italia che si peritano di vietare la celebrazione di una messa in latino richiesta, contravvenendo in questo al combinato disposto degli articoli 2 e 4 del motu proprio, e del n. 16 dell’istruzione. Ma possono stare tranquilli, non vengono deferiti a nessuno, ed è meglio così. Ci sono poi altri mezzucci per ostacolare la volontà del Papa (“il Messale Romano promulgato da San Pio V e nuovamente edito dal Beato Giovanni XXIII [...] deve essere tenuto nel debito onore per il suo uso venerabile e antico”, art. 1), come quello di fare sparire le edizioni tascabili dei messali dalle librerie diocesane, in modo che il popolo non se ne possa abbeverare. Innocue burle da preti.


Peggio fanno certi laici. Come i maestri di pensiero degli autonominatisi cattolici adulti. Dai giornali dei grandi gruppi bancari che determinano la mentalità dominante, e nei quali hanno ruoli importanti, umiliano i movimenti popolari che non stanno loro a genio. Per loro i tradizionalisti “biascicano preghiere” in una lingua sconosciuta, “belano gregoriano”. Fosse anche vero, ci sarebbe da esserne lieti anziché da offendersi: per un cattolico far parte del gregge del Signore Gesù non è certo un demerito. 


E all’udienza di mercoledì 12 settembre, il Papa ha rassicurato che “tutte le nostre preghiere – con tutti i limiti, la fatica, la povertà, l’aridità, le imperfezioni che possono avere – vengono quasi purificate e raggiungono il cuore di Dio. Dobbiamo essere certi, cioè, che non esistono preghiere superflue, inutili; nessuna va perduta”. Nemmeno quelle in latino, la lingua dei padri, tuttora lingua ufficiale della Chiesa.
Viene in mente quanto disse don Luigi Giussani in un’intervista dell’aprile 1992, sulla persecuzione portata “a cattolici che si pongono per tali, cattolici che si muovono nella semplicità della Tradizione”.


Su queste parole ha meditato a lungo don Giacomo Tantardini, che ricordando i suoi anni di seminario a Venegono parlava dell’“insegnamento ricevuto, per cui proprio la Tradizione della fede cattolica poteva condividere con simpatia l’istanza moderna del soggetto, cioè della libertà”.


Forse è proprio questa possibilità di esperienza – che la semplicità della Tradizione sia vivibile oggi, per gli uomini d’oggi così come sono, essendo cristiani nel mondo ma non del mondo – l’interessante punto di sfida, nell’Anno della Fede.

© Copyright La Voce di Romagna, 23 settembre 2012

mercoledì 26 settembre 2012

Quando liturgia fa rima con eresia




ostia
Proseguendo il suo ciclo di catechesi sulla preghiera, Benedetto XVI è passato oggi, mercoledì 26 settembre, dalla preghiera nella Scrittura alla preghiera nella liturgia.
Nella liturgia è Dio che “ci offre le parole”, ha detto il papa. “Noi dobbiamo entrare all’interno delle parole [liturgiche], nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio”.
Se dalla dottrina, però, si passa alla pratica, le cose cambiano. Si sa che vari preti hanno un concetto “creativo” della liturgia, nel quale gli attori e gli inventori sono loro.
In una parrocchia della Toscana, ad esempio, c’è un prete che fa e parla a modo suo, quando distribuisce la comunione. Evidentemente perché non crede nella presenza reale di Gesù nel pane e nel vino consacrati.
La cosa è arrivata all’orecchio del professor Pietro De Marco, che da Firenze ci ha trasmesso questo commento acuminato.



“IN MEMORIA DI CRISTO”



di Pietro De Marco

Mi raccontano, non senza preoccupata ironia, che un parroco di una diocesi toscana, noto per varie eccentricità, amministra l’eucaristia o, come dicono i messali, “presenta l’ostia” ai comunicandi, con le parole “In memoria di Cristo”, invece che con la vincolante ed essenziale formula: “Il corpo di Cristo”.
Poiché tale parroco ama dichiararsi un “professionista” ecclesiale, è certo che, da professionista, usa quella formula consapevolmente. Per esibire e trasmettere, senza timore, la sua negazione della presenza reale di Cristo nelle specie eucaristiche.

Ora, sull’evento “reale” della consacrazione non vi è alcuna incertezza nella “lex orandi”, cioè negli enunciati del canone liturgico. Non per nulla, dopo le parole della consacrazione, il sacerdote “adora subito l’ostia”. E altrettanto dovrebbero fare i fedeli, invece del disordine dei comportamenti attuali e specialmente dello stare in piedi suggerito da qualche liturgista.

La dottrina della fede è altrettanto ferma e costante. Rileggiamo “pro memoria” il mai abrogato “Decretum de SS. Eucharistia” del Concilio di Trento, fino ai canoni conclusivi (Denzinger-Hünermann, nn. 1651-1656), e il recente e obbligante Catechismo della Chiesa Cattolica, promulgato esattamente venti anni fa, ai nn. 1373 e seguenti. Il Catechismo della Chiesa Cattolica va considerato la trascrizione di ciò che è dogmaticamente rilevante nel “corpus” dei documenti del Vaticano II.

La cultura teologica diffusa, invece, su questo punto ha oscillato e oscilla dannosamente, così da essere responsabile di questi effetti, anzitutto nel clero. L’arrischiato parroco di cui sopra è sicuramente il frutto degli insegnamenti ricevuti in seminario o in qualche facoltà teologica, o dei maestri della letteratura teologica internazionale, letta od orecchiata successivamente.

Leggevamo non ieri, ma anni fa, che la maggior parte del clero olandese delle ultime generazioni non crede nella presenza reale di Gesù nell’eucaristia. In ragione di cosa, se non di un insegnamento dogmatico e liturgico ammiccante e aberrante?

Quale che sia l’estensione delle responsabilità, l’uso della formula “In memoria di Cristo” in luogo di “Il corpo di Cristo” non è solo imprudente o inopportuno. È molto di più: suppone una convinzione che ad essere massimamente prudenti si direbbe che “ha sapore di eresia”.

Al caso particolare saprà far fronte il vescovo competente, dopo opportuna indagine. Interessa qui sottolineare, ancora una volta, lo scandalo continuato, anche su materie meno gravi, indotto da una spigliata confidenza, accoppiata ad ignoranza o a corruttela teologica, con la dottrina della fede. Preti come questi hanno deliberatamente distrutto in sé stessi e probabilmente nei collaboratori laici e in parte del loro popolo la verità sacramentaria, colpendo l’essenziale dell’esistenza e del fondamento della Chiesa: la retta fede del popolo cristiano.

E nel valutare questo peccato e “crimen” la Chiesa è sola. Non ha né il supporto né lo stimolo concorrenziale delle magistrature civili, come negli episodi di pedofilia. L’esercizio ispettivo e correttivo le spetta ed è tenuta ad esercitarlo. Azione doverosa e coraggiosa perché, appunto, il contesto generatore di questi fatti particolari è esteso. Non sarebbe difficile cogliere, in una quantità di libri teologici tradotti da editori cattolici, pagine (mai sottoposte a critica da chi dovrebbe) che istigano, di fatto, ad atti di svalutazione, metaforizzazione, vaga spiritualizzazione della transustanziazione, mascherati con parole equivoche.

L’eventualità che quanto nel piccolo caso toscano è esplicitato con sicumera sia in altri preti tenuto nascosto, nicodemiticamente, fa tremare. Il compito dell’imminente Sinodo dei vescovi, col suo esercito di periti sapientemente dosati, sarebbe a mio avviso non quello di confermare un cinquantennio di moderne esortazioni all’annuncio cristiano, ma di ricostruire energicamente nel clero e nel laicato quella comune dottrina della fede senza cui ogni enunciato che venga dalla Chiesa sarà indistinguibile da quelli del nichilismo ordinatore della postmodernità.

Se i vescovi di tutto il mondo, frenati da prudenze pastorali e di governo e talora da incertezza dottrinale, non avessero la forza di provvedere, toccherebbe ai semplici fedeli – quelli che in virtù di una buona formazione cristiana ancora possono farlo – discernere opinioni e condotte diffuse palesemente erronee, catechismo alla mano, e dire “no”.

Settimo Cielo   26 settembre 2012

La Liturgia, scuola di preghiera: il Signore stesso ci insegna a pregare






BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
Piazza San PietroMercoledì, 26 settembre 2012



Cari fratelli e sorelle,

in questi mesi abbiamo compiuto un cammino alla luce della Parola di Dio, per imparare a pregare in modo sempre più autentico guardando ad alcune grandi figure dell’Antico Testamento, ai Salmi, alle Lettere di san Paolo e all’Apocalisse, ma soprattutto guardando all’esperienza unica e fondamentale di Gesù, nel suo rapporto con il Padre celeste. In realtà, solo in Cristo l’uomo è reso capace di unirsi a Dio con la profondità e la intimità di un figlio nei confronti di un padre che lo ama, solo in Lui noi possiamo rivolgerci in tutta verità a Dio chiamandolo con affetto “Abbà! Padre!”. Come gli Apostoli, anche noi abbiamo ripetuto in queste settimane e ripetiamo a Gesù oggi: «Signore, insegnaci a pregare» (Lc 11,1).

Inoltre, per apprendere a vivere ancora più intensamente la relazione personale con Dio abbiamo imparato a invocare lo Spirito Santo, primo dono del Risorto ai credenti, perché è Lui che «viene in aiuto alla nostra debolezza: da noi non sappiamo come pregare in modo conveniente» (Rm 8,26), dice san Paolo, e noi sappiamo come abbia ragione.

A questo punto, dopo una lunga serie di catechesi sulla preghiera nella Scrittura, possiamo domandarci: come posso io lasciarmi formare dallo Spirito Santo e così divenire capace di entrare nell'atmosfera di Dio, di pregare con Dio? Qual è questa scuola nella quale Egli mi insegna a pregare, viene in aiuto alla mia fatica di rivolgermi in modo giusto a Dio? La prima scuola per la preghiera - lo abbiamo visto in queste settimane - è la Parola di Dio, la Sacra Scrittura. La Sacra Scrittura è un permanente dialogo tra Dio e l'uomo, un dialogo progressivo nel quale Dio si mostra sempre più vicino, nel quale possiamo conoscere sempre meglio il suo volto, la sua voce, il suo essere; e l'uomo impara ad accettare di conoscere Dio, a parlare con Dio. Quindi, in queste settimane, leggendo la Sacra Scrittura, abbiamo cercato, dalla Scrittura, da questo dialogo permanente, di imparare come possiamo entrare in contatto con Dio.
C’è ancora un altro prezioso «spazio», un’altra preziosa «fonte» per crescere nella preghiera, una sorgente di acqua viva in strettissima relazione con la precedente. Mi riferisco alla liturgia, che è un ambito privilegiato nel quale Dio parla a ciascuno di noi, qui ed ora, e attende la nostra risposta.

Che cos’è la liturgia? Se apriamo il Catechismo della Chiesa Cattolica - sussidio sempre prezioso, direi indispensabile – possiamo leggere che originariamente la parola «liturgia» significa «servizio da parte del popolo e in favore del popolo» (n. 1069). Se la teologia cristiana prese questo vocabolo del mondo greco, lo fece ovviamente pensando al nuovo Popolo di Dio nato da Cristo che ha aperto le sue braccia sulla Croce per unire gli uomini nella pace dell’unico Dio. «Servizio in favore del popolo», un popolo che non esiste da sé, ma che si è formato grazie al Mistero Pasquale di Gesù Cristo. Di fatto, il Popolo di Dio non esiste per legami di sangue, di territorio, di nazione, ma nasce sempre dall’opera del Figlio di Dio e dalla comunione con il Padre che Egli ci ottiene.

Il Catechismo indica inoltre che «nella tradizione cristiana (la parola “liturgia”) vuole significare che il Popolo di Dio partecipa all’opera di Dio» (n. 1069), perché il popolo di Dio come tale esiste solo per opera di Dio.
Questo ce lo ha ricordato lo sviluppo stesso del Concilio Vaticano II, che iniziò i suoi lavori, cinquant’anni orsono, con la discussione dello schema sulla sacra liturgia, approvato poi solennemente il 4 dicembre del 1963, il primo testo approvato dal Concilio. Che il documento sulla liturgia fosse il primo risultato dell’assemblea conciliare forse fu ritenuto da alcuni un caso. Tra tanti progetti, il testo sulla sacra liturgia sembrò essere quello meno controverso, e, proprio per questo, capace di costituire come una specie di esercizio per apprendere la metodologia del lavoro conciliare. Ma senza alcun dubbio, ciò che a prima vista può sembrare un caso, si è dimostrata la scelta più giusta, anche a partire dalla gerarchia dei temi e dei compiti più importanti della Chiesa. Iniziando, infatti, con il tema della «liturgia» il Concilio mise in luce in modo molto chiaro il primato di Dio, la sua priorità assoluta. Prima di tutto Dio: proprio questo ci dice la scelta conciliare di partire dalla liturgia. Dove lo sguardo su Dio non è determinante, ogni altra cosa perde il suo orientamento. Il criterio fondamentale per la liturgia è il suo orientamento a Dio, per poter così partecipare alla sua stessa opera.

Però possiamo chiederci: qual è questa opera di Dio alla quale siamo chiamati a partecipare? La risposta che ci offre la Costituzione conciliare sulla sacra liturgia è apparentemente doppia. Al numero 5 ci indica, infatti, che l’opera di Dio sono le sue azioni storiche che ci portano la salvezza, culminate nella Morte e Risurrezione di Gesù Cristo; ma al numero 7 la stessa Costituzione definisce proprio la celebrazione della liturgia come «opera di Cristo». In realtà questi due significati sono inseparabilmente legati. Se ci chiediamo chi salva il mondo e l’uomo, l’unica risposta è: Gesù di Nazaret, Signore e Cristo, crocifisso e risorto. E dove si rende attuale per noi, per me oggi il Mistero della Morte e Risurrezione di Cristo, che porta la salvezza? La risposta è: nell’azione di Cristo attraverso la Chiesa, nella liturgia, in particolare nel Sacramento dell’Eucaristia, che rende presente l’offerta sacrificale del Figlio di Dio, che ci ha redenti; nel Sacramento della Riconciliazione, in cui si passa dalla morte del peccato alla vita nuova; e negli altri atti sacramentali che ci santificano (cfr Presbyterorum ordinis, 5). Così, il Mistero Pasquale della Morte e Risurrezione di Cristo è il centro della teologia liturgica del Concilio.

Facciamo un altro passo in avanti e chiediamoci: in che modo si rende possibile questa attualizzazione del Mistero Pasquale di Cristo? Il beato Papa Giovanni Paolo II, a 25 anni dalla Costituzione Sacrosanctum Concilium, scrisse: «Per attualizzare il suo Mistero Pasquale, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, soprattutto nelle azioni liturgiche. La liturgia è, di conseguenza, il luogo privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con colui che Egli inviò, Gesù Cristo (cfr Gv 17,3)» (Vicesimus quintus annus, n. 7). Sulla stessa linea, leggiamo nel Catechismo della Chiesa Cattolica così: «Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole» (n. 1153).

Pertanto la prima esigenza per una buona celebrazione liturgica è che sia preghiera, colloquio con Dio, anzitutto ascolto e quindi risposta. San Benedetto, nella sua «Regola», parlando della preghiera dei Salmi, indica ai monaci: mens concordet voci, « la mente concordi con la voce». Il Santo insegna che nella preghiera dei Salmi le parole devono precedere la nostra mente. Abitualmente non avviene così, prima dobbiamo pensare e poi quanto abbiamo pensato si converte in parola. Qui invece, nella liturgia, è l'inverso, la parola precede. Dio ci ha dato la parola e la sacra liturgia ci offre le parole; noi dobbiamo entrare all'interno delle parole, nel loro significato, accoglierle in noi, metterci noi in sintonia con queste parole; così diventiamo figli di Dio, simili a Dio. Come ricorda la Sacrosanctum Concilium, per assicurare la piena efficacia della celebrazione «è necessario che i fedeli si accostino alla sacra liturgia con retta disposizione di animo, pongano la propria anima in consonanza con la propria voce e collaborino con la divina grazia per non riceverla invano» (n. 11). Elemento fondamentale, primario, del dialogo con Dio nella liturgia, è la concordanza tra ciò che diciamo con le labbra e ciò che portiamo nel cuore. Entrando nelle parole della grande storia della preghiera noi stessi siamo conformati allo spirito di queste parole e diventiamo capaci di parlare con Dio.

In questa linea, vorrei solo accennare ad uno dei momenti che, durante la stessa liturgia, ci chiama e ci aiuta a trovare tale concordanza, questo conformarci a ciò che ascoltiamo, diciamo e facciamo nella celebrazione della liturgia. Mi riferisco all’invito che formula il Celebrante prima della Preghiera Eucaristica: «Sursum corda», innalziamo i nostri cuori al di fuori del groviglio delle nostre preoccupazioni, dei nostri desideri, delle nostre angustie, della nostra distrazione. Il nostro cuore, l’intimo di noi stessi, deve aprirsi docilmente alla Parola di Dio e raccogliersi nella preghiera della Chiesa, per ricevere il suo orientamento verso Dio dalle parole stesse che ascolta e dice. Lo sguardo del cuore deve dirigersi al Signore, che sta in mezzo a noi: è una disposizione fondamentale.

Quando viviamo la liturgia con questo atteggiamento di fondo, il nostro cuore è come sottratto alla forza di gravità, che lo attrae verso il basso, e si leva interiormente verso l’alto, verso la verità, verso l’amore, verso Dio. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica: «La missione di Cristo e dello Spirito Santo che, nella Liturgia sacramentale della Chiesa, annunzia, attualizza e comunica il Mistero della salvezza, prosegue nel cuore che prega. I Padri della vita spirituale talvolta paragonano il cuore a un altare» (n. 2655): altare Dei est cor nostrum.

Cari amici, celebriamo e viviamo bene la liturgia solo se rimaniamo in atteggiamento orante, non se vogliamo “fare qualcosa”, farci vedere o agire, ma se orientiamo il nostro cuore a Dio e stiamo in atteggiamento di preghiera unendoci al Mistero di Cristo e al suo colloquio di Figlio con il Padre. Dio stesso ci insegna a pregare, afferma san Paolo (cfr Rm 8,26). Egli stesso ci ha dato le parole adeguate per dirigerci a Lui, parole che incontriamo nel Salterio, nelle grandi orazioni della sacra liturgia e nella stessa Celebrazione eucaristica. Preghiamo il Signore di essere ogni giorno più consapevoli del fatto che la Liturgia è azione di Dio e dell’uomo; preghiera che sgorga dallo Spirito Santo e da noi, interamente rivolta al Padre, in unione con il Figlio di Dio fatto uomo (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 2564). Grazie.


Santa Sede   26 settembre 2012

Pensiero e cervello




di Padre Giovanni Cavalcoli 

Recentemente, nello spazio dedicato ai commenti di questo sito, è apparso l’intervento del Dottor Andrea, neurobiologo, per porre obiezioni alle tesi che sostenevo in un mio precedente articolo dedicato al rapporto anima-corpo.
Essere stato oggetto dell’attenzione di uno scienziato è quindi per me motivo di piacere, ed innalza il tono della conversazioni del sito, anche se la posizione dell’Autore è in netto contrasto con le mie tesi; ma è esposta con tanto garbo e serietà che non posso sottrarmi ad una risposta, che del resto mi vien chiesta dallo Scrivente.

D’altra parte l’importanza e la complessità dell’argomento non consentiva una risposta nei commenti, ma mi è parso conveniente dedicare all’intervento di Andrea un vero e proprio articolo, sperando di riuscire convincente, ma aperto nel contempo ad una replica di Andrea.
Purtroppo, data la mia incompetenza nella sua complessa e preziosa disciplina, non sono in grado di entrare nel dettaglio delle sue osservazioni. Tuttavia non credo che ciò nuoccia alla sostanza della discussione, perché credo di aver capito il nerbo della sua argomentazione, anche se egli la sostiene con dati che, lo ripeto, esulano dalle mie competenze. Ma credo che ci intenderemo ugualmente là dove Andrea mi offre qualche aggancio sul piano della filosofia o della psicologia, che è il mio terreno.

Egli esordisce con l’affermazione che “il pensiero ha origine dal cervello”. Rispondo subito dicendo che dobbiamo intenderci sul significato, qui, del termine “origine”. Se per “origine” Andrea intende origine necessaria ma non sufficiente, sono d’accordo. Se invece intende necessaria e sufficiente, non concordo. E spiegherò le mie ragioni.

La mia tesi infatti è che il piano neurobiologico è necessario per spiegare il pensiero umano, ma non è sufficiente. Le prove che Andrea adduce a suo favore, per quanto, ripeto, rientrino nella sua competenza che non è la mia, mi fanno comunque tutte capire, come del resto prevedevo, che attengono ad un piano di realtà che, come è logico per il neurobiologo, è una realtà che cade sotto i sensi ed è matematicamente misurabile o quantificabile.

Sennonchè la natura e le manifestazioni proprie del pensiero – e questo è il campo più proprio della psicologia e della filosofia o, se vogliamo esser più precisi, di quella disciplina psicologica che sia chiama “gnoseologia” -, pongono degli interrogativi ai quali la scienza sperimentale non solo non è in grado di rispondere in base al suo metodo proprio, ma che non è neppure in grado di comprendere.

Con tutto ciò non nego affatto ed anzi lo ripeto che il pensiero umano nell’individuo corporeo vivente ha una base od origine fisico-sperimentabile, oggetto appunto della neurobiologia e che pure il pensiero ha delle manifestazioni di carattere fisico, come sono i segni fisici del linguaggio o l’aspetto fonetico o grafico o l’espressione gestuale della verbalizzazione e della concettualizzazione.

Questi fenomeni fisici, di carattere anche fisiologico, oggetto della fisiologia umana, preparano l’esercizio del pensiero o esprimono esternamente l’esercizio del pensiero, ma non costituiscono il pensare come tale, che denota nel soggetto umano un potere vitale immensamente superiore a quanto può fare o produrre una semplice energia materiale qual è quella che in fin dei conti è quell’attività cerebrale che è oggetto della neurobiologia.

Il fenomeno del pensare ci pone di fronte al fenomeno dell’immaterialità, ossia di un livello di realtà e di attività che si rivela di un raggio, di un’ampiezza, di una potenza, di un’intenzionalità, di una profondità, di un’elevatezza, di una vastità, di un’importanza, di una capacità di realizzazione immensamente superiori a quanto la semplice attività fisica cerebrale può compiere. E’ in altre parole il fenomeno della conoscenza legata alla concettualizzazione, che poi viene espressa nella verbalizzazione o in opportuni segni gestuali o espressioni del volto o del corpo, per esempio dello sguardo o delle mani, e in tutti i prodotti della tecnica e dell’arte.

Invece col pensiero, con la conoscenza e con la concettualizzazione, che è l’effetto proprio degli atti dell’uomo in quanto uomo, essere razionale, – la conoscenza esiste già a livello animale -, entriamo in un ordine di realtà nuovo e sconosciuto a quello delle sole scienze sperimentali, compresa quindi la neurobiologia, che hanno mezzi adatti e sufficienti per spiegare solo la realtà corporea, fisica, materiale, sensibile, quantificabile.

Il punto di partenza per la scoperta di ciò che poi in filosofia si è convenuto di chiamare “anima” o “spirito”, ovvero “anima spirituale”, giacchè anche animali e piante hanno un’“anima”, che però non è spirituale, è il concetto, che si esprime nell’immagine, nel ricordo, nella parola e nel gesto – qui sì che la neurobiologia e la fisiologia hanno da insegnare.

Che cosa è il concetto? E’ un’entità, non sensibile e immateriale, è una rappresentazione della realtà che avvertiamo nel nostro intimo, nel nostro io, nella nostra “mente” o nella nostra “psiche”, non diciamo ancora “anima” o “spirito”, perché questo è proprio ciò che dobbiamo dimostrare secondo l’istanza di Andrea. Il concetto è una cosa meravigliosa e misteriosa ad un tempo, da noi prodotta, una potenza enorme che è data alla nostra intelligenza e con la quale trascendiamo infinitamente i limiti della materia.
E’ un’energia con la quale non solo il reale “entra” in noi smaterializzato, in quanto conosciuto, pensato o rappresentato, ma con la quale possiamo a volontà modificare il reale esterno o muovere le membra del nostro corpo per quella che è l’azione morale, del lavoro, della tecnica e dell’arte. Il concetto non è visibile agli occhi, non ha un peso, non ha un’estensione nello spazio, è al di sopra del tempo, non ha un odore, non ha un sapore. Sarebbe ridicolo solo il pensarlo.
E’ un’entità immateriale e alla fine “spirituale”, ossia esistente indipendentemente dalla materia e quindi immortale, anche se a questo punto è d’obbligo l’avvertimento del neurobiologo che ci dice che senza salute cerebrale la concettualizzazione è compromessa o impossibile o che recenti fanno addirittura prevedere nell’analisi del dinamismo o del trend cerebrale il formarsi di un pensiero, di un’intenzione o di una libera scelta.
Ma resta sempre che questi atti in se stessi, essendo immateriali, non possono essere sufficientemente spiegati od “originati” da dinamismi semplicemente materiali, i cui atti sono immensamente al di sotto di quanto pensiero, conoscenza, coscienza, intenzione, concetto, libertà possono fare.

Che cosa è infatti il concetto? Che cosa ci dà? Prendiamo ad esempio un concetto qualunque: il concetto di cane. E’ evidente che sotto questo concetto, questo “universale”, questo unum in multis, possiamo porre o possono esistere infiniti cani pensati possibili. Il cane non è necessariamente Fido e Pluto, perché altrimenti Lassie o Tom, individui diversi, non potrebbero essere cani.
Dunque il concetto di cane astrae dai caratteri individuali legati alla materia, è un qualcosa di smaterializzato e se considera la materia, la considera astrattamente ossia smaterializzatamente. Ecco aprirsi la soglia dello spirito. Ecco che entriamo nel regno dell’anima. Ecco la necessità di ammettere l’esistenza dell’anima come soggetto dell’attività dell’intelligenza e del pensiero come produttori dei concetti. Dunque il concetto ha in certo modo una potenza infinita, è un certo infinito. Essendo al di sopra dello spazio e del tempo, è incorruttibile ed immutabile.

Altra prova dell’immaterialità del pensiero e dell’anima è l’attività della coscienza, per la quale il pensiero si ripiega e “torna” su se stesso – la riflessione -, atto del quale la materia non è assolutamente capace: il soggetto nel pensiero diventa trasparente a se stesso e conosce se stesso e i propri atti. L’io scopre se stesso, come ci ricordano S.Agostino e Cartesio. La materia non è capace né di conoscenza, né di pensiero, né di coscienza, atti preziosissimi che fanno la dignità nobilissima della persona, capace di conoscere l’Assoluto, la Causa prima di tutte le cose.
Dunque l’anima, soggetto immateriale, dà origine al pensiero così da spiegarne la natura immateriale. Il che sia detto senza misconoscerne in nulla l’origine neurobiologica, stante però sempre il fatto che anche il livello neurobiologico, essendo un livello vitale, dev’esser spiegato con l’anima, questa volta non nella sua funzione spirituale, ma nella sua funzione vegetativa, che riscontriamo anche nelle piante e negli animali. Infatti in noi esistono tutti i livelli della vita: vegetativa, sensitiva e spirituale. E’ l’anima è appunto il principio vitale del soggetto, ciò che dà forma e movimento alla sua materia e in questo senso è presente in tutte le parti del corpo, naturalmente escluse alcune, come per esempio le unghie e i capelli.
A questo punto ha senso parlare di cause inferiori o superiori, perchè abbiamo diversi gradi di potenza e di energia della vita. Allora bisogna dire che ad effetti superiori occorrono cause superiori, se è vero che il principio di causalità è fondamento di tutto il sapere scientifico, secondo il quale la causa deve essere superiore all’effetto, cioè deve dare un apporto nuovo di conoscenza, quindi deve supporre un superiore livello di realtà, altrimenti non spiegherebbe l’effetto e ne sapremmo quanto prima. Non avremmo nessuna scoperta scientifica e nessun progresso nella conoscenza.
Per questo non si può spiegare il più (spirito) col meno (materia), altrimenti non solo ne sapremmo quanto prima, ma ne sapremmo meno di prima. Infatti un livello superiore di conoscenza suppone che abbiamo raggiunto un livello superiore di realtà, altrimenti la scienza invece di andare avanti tornerebbe indietro. L’aver scoperto l’esistenza dello spirito da parte dei filosofi (vedi per esempio Platone) è stata una conquista del sapere che non ha arrecato alcun pregiudizio alle forme inferiori del sapere legate alla conoscenza della materia, ma anzi stimola lo scienziato ad andare oltre verso il mondo dello spirito.

Per concludere, il rapporto neurologia-psicologia. Nessun dubbio che la neurologia offre ottimi servizi alla psicologia. Ma siamo daccapo. La neurobiologia non spiega interamente l’origine del pensiero, soprattutto non ci dà la causa efficiente sufficiente, ci offre una condizione indispensabile e certo fornisce una causalità materiale. Ma il proprio del pensiero accompagnato dalla volontà, ossia la sua potenza infinitamente superiore a quella della materia, la sua immaterialità e spiritualità vanno spiegate solo con una causa altrettanto immateriale e spirituale, che sono l’intelletto e la conoscenza, le quali sono potenze dell’anima spirituale ed immortale, immortale perché immateriale, immateriale perché semplice, cioè non composta di parti come è la materia.

Ora, la morte è dissoluzione della materia nelle sue parti. Ma l’anima, non essendo composta di parti, resta viva in se stessa senza limiti di tempo, perché è al di sopra dello scorrere del tempo, legato alla materia, ed è aperta quindi all’Eterno, all’Infinito, è aperta, ci dice la religione, a Dio.
Dunque i progressi della neurobiologia, che io auguro continui e gloriosi, per il bene dell’umanità e per il bene delle stesse funzioni superiori dello spirito – mens sana in corpore sano - non riducono per nulla la realtà dell’anima né la rendono inutile, ma anzi contribuiscono a farla conoscere sempre meglio e a svelarne l’importanza essenziale per la spiegazione sufficiente dei fenomeni più alti e più importanti della vita umana.


Libertà e Persona   26 settembre 2012



Sulla ermeneutica della continuità










di Francesco Arzillo

La burrasca ecclesiale connessa ai conflitti fra tradizionalisti e progressisti non accenna a placarsi ed anzi appare accentuata, dato che le posizioni papali sfuggono – e non potrebbe essere altrimenti – a questo tipo di contrapposizione. Se i progressisti non gradiscono il motu proprio "Summorum Pontificum", i tradizionalisti rimangono perplessi per l’iniziativa di Assisi, e così via.

Spiace dover constatare che la questione dell’ermeneutica della continuità resti assoggettata a una sostanziale incomprensione, nonostante si tratti di un’indicazione magisteriale autorevole e vincolante per i cattolici, oltre che fondata sull’evidente presupposto della continuità nel tempo della vita del corpo ecclesiale, con la connessa assistenza dello Spirito Santo ai pastori.

La dialettica ecclesiale tende ad assumere forme e metodi più politici che teologici, finendo col riprodurre all’interno della Chiesa la dialettica destra-sinistra propria della modernità politica.
Molto si è detto e scritto – e giustamente – contro chi si ostina a vedere nel Concilio Vaticano II il nuovo inizio che metterebbe fine al periodo caratterizzato dalla “forma costantiniana” della Chiesa.
Bisogna tuttavia censurare anche il tradizionalismo che legge la ricchissima eredità della teologia classica con mentalità più cartesiana che aristotelica, confondendo aprioristicamente i mutamenti delle formule con i mutamenti di dottrina, o trattando i concetti teologici come se fossero idee chiare e distinte, con un approccio razionalistico e per nulla affine a quello della grande scolastica medievale, per non dire dei Padri della Chiesa.

Come venirne fuori?
In primo luogo cercando di assumere un abito di umiltà, anche intellettuale, che dovrebbe essere proprio – pur nei diversi ruoli – di ogni fedele cattolico, teologi compresi.
Le dottrine infallibili o comunque irreformabili non possono essere discusse. Ma un particolare ossequio è dovuto anche al magistero ordinario. Infatti il par. 752 del codice di diritto canonico dispone: “Non proprio un assenso di fede, ma un religioso ossequio dell’intelletto e della volontà deve essere prestato alla dottrina, che sia il Sommo Pontefice sia il Collegio dei Vescovi enunciano circa la fede e i costumi, esercitando il magistero autentico, anche se non intendono proclamarla con atto definitivo; i fedeli perciò procurino di evitare quello che con essa non concorda”.

Non è quindi possibile sbarazzarsi del consolidato insegnamento sulla libertà religiosa o sull’ecumenismo dicendo che non si tratta di dottrine infallibili: anche qualora non le si ritenga tali, esse vanno seguite lo stesso.
Neppure ci si può lamentare del fatto che gli ultimi pontefici abbiano fatto della retta attuazione del Vaticano II un punto di riferimento del loro ministero (e cosa altro avrebbero dovuto fare?).
L’ermeneutica della continuità andrebbe verificata e praticata con esercizi concreti, i quali – se rettamente condotti – dimostrerebbero che essa è sempre possibile.

Per semplificare, poniamo che io abbia una classica asserzione dogmatica A e una dottrina conciliare B, la quale sia passibile di due interpretazioni: B1, ossia un’interpretazione compatibile con A; e B2, ossia un’interpretazione non compatibile con A (ambivalenza, questa, non rara a motivo del linguaggio “pastorale” adoperato dall’ultimo Concilio e da una parte del magistero recente).
L’ermeneutica della continuità mi richiede allora di scegliere l’interpretazione B1. Non si tratta però di un’imposizione volontaristica e positivistica. Al contrario, essa presuppone sia il principio logico di non contraddizione, sia la non irrazionalità del dato rivelato, sia i principi teologici ed ecclesiologici tipici del cattolicesimo, che mirano alla salvaguardia dell’unità-continuità della Chiesa nel tempo.
Ad esempio, se io leggo il testo del Vaticano II in cui si dice che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo” ("Gaudium et Spes" 22) dovrò interpretarlo in modo compatibile con i concili cristologici antichi, valorizzando le implicazioni della locuzione “in certo modo”.
Quindi, nessun “pan-cristismo” antropocentrico al quale osannare, o contro il quale levare grida scandalizzate. Più semplicemente, e più cattolicamente, una maggiore e sempre più penetrante intelligenza del dato rivelato.

Si potrebbe replicare: ma se io vedo una contraddizione che mi impedisce di prestare l’assenso?
A questo proposito potrebbe soccorrere il detto di Ignazio di Loyola, secondo il quale “per essere certi in tutto, dobbiamo sempre tenere questo criterio: quello che io vedo bianco lo credo nero, se lo stabilisce la Chiesa gerarchica. Infatti noi crediamo che lo Spirito che ci governa e che guida le nostre anime alla salvezza è lo stesso in Cristo nostro Signore, lo sposo, e nella Chiesa sua sposa; poiché la nostra santa madre Chiesa è guidata e governata dallo stesso Spirito e Signore nostro che diede i dieci comandamenti”.
L’ossequio dell'intelletto, che deriva dall’accettazione di questa posizione, non rimane senza frutto, perché purifica la volontà e predispone la ragione a una più attenta considerazione della questione e consente, in ultima analisi, di diradare i motivi di perplessità che sembravano invincibili ed erano in realtà dettati da pregiudizi.


A tal fine è di aiuto la lettura di teologi che applicano questo tipo di ermeneutica, come ad esempio il cardinale Leo Scheffczyk (1920-2005), o il padre Jean-Hervé Nicolas, o il padre Giovanni Cavalcoli.
Ne uscirebbe rafforzata la coscienza ecclesiale e la volontà di operare – cattolicamente – "cum Petro et sub Petro", nella straordinaria vicenda della comunicazione del messaggio cristiano ai nostri contemporanei, figli di Dio e fratelli in umanità.






http://www.formazioneteologica.it/sulla-ermeneutica-continuita-159.html


martedì 25 settembre 2012

Tradizione della Chiesa e Vaticano II






di p. Serafino M. Lanzetta, FI


1. La Tradizione della Chiesa

Uno dei tabù post-moderni più insidiosi, dal quale fino a qualche anno fa bisognava necessariamente emanciparsi nella Chiesa, è stato il lemma “Tradizione”. Il rischio, sempre ricorrente, è quello di emanciparsi però non solo da uno slogan, da una parola, per coniarne una nuova, ma dalla Chiesa stessa, che dalla Tradizione è strutturata e della Tradizione vive.

Infatti, in diversi livelli ecclesiali, il processo del rinnovamento conciliare, doveva passare necessariamente attraverso un ammodernato concetto di Traditio, che non ripetesse semplicemente quello che era stato già detto nei secoli precedenti, ma che desse alla stessa Chiesa un vigore nuovo e potesse essere inteso come dinamicità intrinseca, come vivezza del mistero, come progressività in una conoscenza biblica sempre più matura e intelligente, fino a scartare come non cattolico, quanto nella Bibbia non risultasse letteralmente scritto. La Tradizione doveva passare attraverso il filtro delle Scritture, viste in qualche modo come sua stessa possibilità e come suo metro di valutazione teologica. Senza dubbio si è verificata una “concentrazione scritturistica” mai prima conosciuta. Con tutti i pregi per aver favorito la sua conoscenza in virtù del metodo della lectio divina, accanto a nuovi problemi non meno significativi: la sua “volgarizzazione” ha favorito in molti, in diversi esegeti e anche in alcuni cristiani, un approccio soggettivistico. Smarrito il canone della Traditio, la Scrittura perde il suo stesso humus vitale dal quale è fiorita, la sua identità. Ridimensionando la Tradizione la Scrittura è stata allontanata dalla Chiesa e tutti ne sono diventati autorevoli interpreti.

Il “problema Tradizione” però era un falso problema. Non c’era un’opposizione irriducibile tra Scrittura e Tradizione, per il semplice fatto che gli agiografi avevano scritto quanto il Signore aveva detto e quanto gli Apostoli avevano insegnato nella loro predicazione. Regola della fede sono le Scritture canoniche in quanto consegnate alla Chiesa, ispirate da Dio in ragione del fatto che, quei fedeli agiografi, avevano ricevuto dalla Chiesa per mano degli Apostoli quelle Parole, trasmesse con l’assistenza dello Spirito Santo. La Tradizione andava a costituire le Scritture e le Sacre Scritture diventavano il canone fisso di un dogma maturato in una compagine viva, nella Chiesa del Dio vivo, che così, con la sua stessa vita, diventava metro ultimo e prossimo della cattolicità. Perciò, la Bibbia non escludeva la Tradizione, né lo potrebbe. Molti, facendo leva su un’accennata distinzione dogmatica tra Scrittura e Tradizione di Dei Verbum – Tradizione è solo la predicazione apostolica e solo la trasmissione della Parola di Dio? (cf. Dei Verbum 9), oppure l’intera comprensione e trasmissione della fede, principiante dalla predicazione ed estesa a tutta la Chiesa, in ragione del Magistero ecclesiastico? –, e sul fatto che la classica distinzione delle due fonti della divina Rivelazione fu accantonata per chiari motivi pastorali ed ecumenici del Vaticano II, hanno favorito uno smarrimento della divina Tradizione, per fare spazio solo alla Bibbia, che facilmente però, come diecevamo, scade nel libero esame, in una fede adogmatica, che oggi si direbbe “fai da te”. Si è smarrito il criterio dell’essere cristiani. La forma del cattolicesimo. Non basta la Bibbia, è necessaria anche la Chiesa. Quel «non crederei al Vangelo se non mi ci inducesse l’autorità della Chiesa», rivolto da S. Agostino ai donatisti, oggi è di un’attualità imprescindibile e potrebbe essere riformulato anche così: non avrei il Vangelo, né lo capirei, se non mi venisse dato e spiegato dalla Chiesa. La Scrittura come regola di se stessa, del suo esserci, di barthiana memoria, non regge. C’è prima la Chiesa e poi la stesura del Vangelo, prima la trasmissione di quanto il Signore aveva detto e fatto e poi la sua elaborazione scritta. Questo “prima” è da intendersi in senso cronologico, che distingue in modo ontologico l’alterità tra Tradizione e Scrittura e ne determina la loro impossibile riduzione ad unum. Nella “Tradizione apostolica”, poi, che riceve e trasmette la Parola del Signore, s’innesta e si salda nell’unicità dello stesso tradere la “Tradizione ecclesiastica”, quale fedele deposito e l’accresciuta comprensione nel tempo della Chiesa di quelle verità di fede, che sempre identiche, crescono con colui che le medita, lasciando alla Chiesa il compito di scrutarle, di interpretarle rettamente e di insegnarle senza possibilità di errore. Anche quando le Parole del Signore furono messe per iscritto, la Tradizione (orale) non perse la sua efficacia, non solo al fine di interpretare rettamente le divine Scritture, ma per approfondire la stessa fede. Così, con quella divina suggestio dello Spirito Santo (cf. Gv 14,26), si arrivò alla comprensione e alla definizione di verità, quali la Verginità perpetua di Maria, l’Immacolata Concezione, il numero settenario dei Sacramenti, ecc.: non altre verità, ma quelle che il Signore aveva insegnato e che la Tradizione aveva ininterrottamente consegnato, attraverso le Scritture e attraverso la trasmissione orale dell’unico insegnamento del Signore Gesù. Unico è il deposito della fede, identico e immutabile, due però le vie, i rivoli se si vuole, per riceverlo e ritrasmetterlo accresciuto fino a quando il Signore verrà: quella scritta e quella orale.

Come si vede, Tradizione non è un elemento opzionale, facilmente superabile tacendone la sua essenza o riducendolo al mero momento dell’interpretazione scritturistica. Non è neanche un discrimen politico, come purtroppo da diversi anni a questa parte viene inteso. Sì, forse è stata questa la ragione del suo progressivo accantonamento: una Chiesa (politicamente) più aperta al domani, al progresso, al mondo, all’evoluzione (-ismo), avrebbe dovuto rinunciare al dato antico, al suo passato, al suo ieri, immagine di una Chiesa fissista. L’oggi invece è, per tanti, quello di una Chiesa capace d’avanguardie. Emanciparsi dalla Tradizione (dal mistero in definitiva) era l’urgenza dei tempi nuovi. Anche qui però si era impostato il problema in modo surrettizio: la Tradizione non era l’identità di un partito conservatore della Chiesa, era ed è la sua vita, la sua possibilità di essere, ieri come oggi. Se si rinuncia alla Tradizione, dimenticando quello che la Chiesa era, si smarrisce il vero fine di quello che la Chiesa dovrà essere. Un ritorno alla genuina e cattolica identità della Chiesa, è indispensabile per superare le divisioni nell’unico Corpo di Cristo e per dare speranza al futuro come presenza dell’unico ed indiviso Cristo nel mondo, per mezzo della Chiesa.

2. Il dato della Tradizione in Dei Verbum:

I numeri della Costituzione sulla Divina Rivelazione riguardanti la Tradizione orale che maggiormente ci interessano sono il n. 9 e 10, i quali recitano rispettivamente:
«La sacra Tradizione dunque e la sacra Scrittura sono strettamente congiunte e comunicanti tra loro. Poiché ambedue scaturiscono dalla stessa divina sorgente, esse formano in certo qual modo un tutto e tendono allo stesso fine. Infatti la sacra Scrittura è la parola di Dio in quanto consegnata per iscritto per ispirazione dello Spirito divino; quanto alla sacra Tradizione, essa trasmette integralmente la parola di Dio – affidata da Cristo Signore e dallo Spirito Santo agli apostoli – ai loro successori, affinché, illuminati dallo Spirito di verità, con la loro predicazione fedelmente la conservino, la espongano e la diffondano; ne risulta così che la Chiesa attinge la certezza su tutte le cose rivelate non dalla sola Scrittura e che di conseguenza l’una e l’altra devono essere accettate e venerate con pari sentimento di pietà e riverenza» (n. 9).
«È chiaro dunque che la sacra Tradizione, la sacra Scrittura e il magistero della Chiesa, per sapientissima disposizione di Dio, sono tra loro talmente connessi e congiunti che nessuna di queste realtà sussiste senza le altre, e tutte insieme, ciascuna a modo proprio, sotto l’azione di un solo Spirito Santo, contribuiscono efficacemente alla salvezza delle anime» (n. 10).

3. Il dato della Tradizione in Trento e nel Vaticano I

L’insegnamento relativo alla Tradizione, letta nelle “tradizioni non scritte”, è contenuto nel decreto Sacrosancta del Concilio di Trento, promulgato nella IV sessione dell’8 aprile 1546, che dice:

«[…] il sinodo sa che questa verità e disciplina è contenuta nei libri scritti e nelle tradizioni non scritte, che raccolte dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo e dagli stessi apostoli, sotto l’ispirazione dello Spirito santo, tramandate quasi di mano in mano, sono giunte fino a noi, seguendo l’esempio dei padri della vera fede, con eguale pietà e venerazione accoglie e venera tutti i libri, sia dell’antico che del nuovo Testamento, essendo Dio autore di entrambi, e così pure le tradizioni stesse, inerenti alla fede e ai costumi, poiché le ritiene dettate dalla bocca dello stesso Cristo o dallo Spirito Santo, e conservate nella chiesa cattolica in forza di una successione mai interrotta»1.

Secondo alcuni critici, tra i quali J.R. Geiselmann, Y. Congar, P. de Vooght, scomparsa nel testo tridentino definitivo la particella partim e sostituita con la congiunzione et, alquanto innocua, da sola sarebbe stata incapace di definire la Tradizione come canale della Rivelazione, distinto e indipendente dalla Scrittura. Per questi autori, il Concilio di Trento avrebbe assunto con l’et una posizione descrittiva più che esplicativa, limitandosi ad affermare che accanto alla Scrittura ci sono anche tradizioni apostoliche non scritte. Così arrivavano alle seguenti conclusioni:
a) la Scrittura contiene tutta la rivelazione («principio, questo, comune sia ai cattolici che ai protestanti, della sufficienza materiale della “Scriptura sola”»);
b) la Scrittura per essere rettamente capita necessita della Tradizione (principio dell’insufficienza formale delle Scritture, non in comune con i protestanti);
c) di conseguenza la Tradizione ha solo una funzione interpretativa e dichiarativa della Scrittura.

In realtà, come ripeterà il Vaticano I, la Chiesa attinge e dalla Scrittura e dalle tradizioni non scritte la sua fede. Pertanto, c’è anche una Tradizione costitutiva della fede.
Il testo principale del Vaticano I, che tratta della Tradizione, è la Costituzione Dei Filius, promulgata nella III sessione del 24 aprile 1870 che, mentre riproduce quasi letteralmente il decreto Sacrosancta del Tridentino, s’intrattiene più diffusamente sulla Scrittura, per rispondere ai problemi e alla necessità di quel tempo. I Padri del Vaticano I chiedono fondamentalmente due cose al primigenio testo della Commissione dottrinale: riprodurre fedelmente il testo del Tridentino, e togliere quelle piccole aggiunte che erano state apportate. Così recita il testo definitivo:

«Questa rivelazione soprannaturale, secondo la fede della chiesa universale, proclamata dal santo concilio di Trento, è contenuta “nei libri scritti e nella tradizione non scritta, che, ricevuta dagli apostoli dalla bocca dello stesso Cristo o trasmessa quasi di mano in mano dagli stessi apostoli, per ispirazione dello Spirito Santo, è giunta fino a noi”»2.

Il padre francescano Umberto Betti, acuto conoscitore del Vaticano I, membro della Commissione dottrinale del Vaticano II e relatore sul cap. II della Dei Verbum, commentando questo testo della Dei Filius, riconosce che anche nelle precedenti formulazioni del testo, «mai è affiorato qualche dubbio sull’uguale importanza della parola di Dio scritta e non scritta». Pertanto «non è arbitrario pensare che se i Padri conciliari ne avessero avuto l’occasione avrebbero dato anche sulla Tradizione un insegnamento ufficiale conforme alla convinzione comune che ne avevano. Ed essa era appunto che la Tradizione è fonte di rivelazione nello stesso modo che lo è la Scrittura»3.

4. Un “nuovo” concetto di Tradizione o una scelta pastorale del Vaticano II?

Perché però il Vaticano II preferisce non ritornare sulla dottrina delle due fonti della Rivelazione – magari anche migliorando il lemma “fonte” con uno nuovo più perfetto dal punto di vista teologico – e spiegare la Tradizione come trasmissione della Parola di Dio e dell’insegnamento degli Apostoli, tralasciando la definizione ormai matura e opportuna della insufficienza materiale delle Scritture? Chiaramente, qui si enuclea il fine del Concilio che è pastorale e una delle sue principali preoccupazioni: l’ecumenismo nel dialogo con gli esponenti della Riforma. Il fine del Concilio permea anche un documento così importante quale la Costituzione sulla Divina Rivelazione. La non-infallibilità (generale o generica) dei documenti del Vaticano II, che non significa affatto fallibilità ma unicamente non-definitività, perciò suscettibilità di verifica e di miglioramento, in vista di un eventuale pronunciamento ex cathedra, in questo caso, mentre spiega la ragione di una scelta e di una riduzione così importanti, diventa sprone per un’analisi attenta, in ragione soprattutto degli effetti deleteri di un’ermeneutica della discontinuità applicata alla Costituzione sulla Divina Rivelazione rispetto al patrimonio dottrinale della Chiesa su questo dato così centrale.
Perciò, non si può prescindere dalla scelta pastorale del Concilio, quale vero metro di confronto dottrinale.

Questa scelta pastorale di dire la dottrina della Tradizione attraversa l’intero Concilio e limita, allo stesso tempo, anche l’insegnamento propriamente dogmatico al tempo che si voleva incontrare, nulla vietando che il Magistero possa nuovamente pronunciare su questo tema in modo definitivo, chiarendo l’in sé della Tradizione della Chiesa, e riprendendo così quanto era già unanime. Non è in discussione l’opportuno approfondimento teologico del concetto di “Rivelazione”, ma la cogenza della Tradizione, oggi e domani, per la costituzione della fede cattolica.

Dalla Dei Verbum in poi c’è stata comunque una vera svolta teologica. La Tradizione normalmente è presentata come sola trasmissione della Scrittura. È solo un caso il possente biblicismo impostosi a scapito della Parola di Dio letta nella fede della Chiesa e interpretata con un’esegesi veramente teologica e non solo o meramente storico-critica?
Si è verificata una vera inversione che puntualmente viene così sintetizzata da Mons. Gherardini:

«…la disgregazione dell’identità cattolica, dovuta ad un’insostenibile reinterpretazione delle fonti cristiane, con conseguente alterazione dei dati storici, relativizzazione della parola di Dio orale e scritta e una rilettura della Tradizione apostolica sullo sfondo dello storicismo hegeliano e del relativismo dottrinale4.

È prevalso poi l’attributo “vivente” applicato alla Tradizione, inteso come progresso in sé, mutazione evolutiva, non nell’alveo dell’eodem sensu eademquae sententia, ma del nuovo voluto per se stesso e spesso in contraddizione con l’antico. Facendo ingresso la categoria “storia” nell’impianto della fede, la fede stessa, libera da un canone quale regola fidei proxima et norma normans fidei, ovvero la Tradizione, è stata soggetta ad ogni divenire. Anche al divenire della fede. Quell’adattamento al mondo era possibile perché la fede poteva diventare anche altro, poteva assumere anche un’altra forma da quella cattolica.

La Tradizione della Chiesa, invece, è un baluardo di difesa, un vero progresso, è il criterio della verità, la sua misura, perché radicata nella verità di Cristo. Di quell’unica verità è annunziatrice, di quella Verità che ininterrottamente ci raggiunge oggi, ed è la sola che può assicurare alla fede la sua consistenza e durata, ieri come oggi e nel futuro.
Non si tratta di fare un processo al Vaticano II, ma di vedere con realismo i punti di svolta rispetto alla dottrina definita sulla Tradizione (orale). Questo non per affossare il Concilio, ma per capirlo correttamente e collocarlo nella sua giusta dimensione: non un tutto o il tutto della fede, ma uno sforzo di dialogo pastorale che certamente promana dalla dottrina, che però talvolta risente, in larga misura, dello stesso sforzo pastorale ed ecumenico.

NOTE
1. DH 1501.

2. DH 3006.

3. U. Betti, La Tradizione è una fonte di rivelazione?, in «Antonianum» 38 (1963) 41.

4. B. Gherardini, Quod et tradidi vobis. La Tradizione vita e giovinezza della Chiesa, Frigento 2010, p. 230.http://www.conciliovaticanosecondo.it 20 settembre 2012

Che male c'è?







di Costanza Miriano

Quando sono arrivata a scuola di giornalismo il mio ideale di cronista era Erodoto, mentre l’ultimo evento politico di cui avevo avuto notizia era il crollo dell’impero romano. Il mondo dei giornali era per me del tutto nuovo, per cui quando mi hanno insegnato che i giornalisti raccontano la realtà me la sono bevuta.
Adesso, a diciotto anni dal passaggio da Tacito a Montanelli, le idee mi si sono un po’ chiarite: i giornali non raffigurano affatto la realtà. Se va bene raccontano le notizie, cioè quello che si discosta dalla norma (il famoso uomo che morde il cane, o nel mio caso, che so, una mattina che mi sveglio e trovo subito gli occhiali), ma il più delle volte cercano di plasmarla, la realtà.

Sui temi che mi stanno più a cuore – la vita, il suo fine e il suo inizio, la famiglia, l’identità maschile e femminile – circolano vagonate di bugie, e sono diffuse da talmente tante fonti, e con effetto più che stereo, dolby surround direi, che è quasi impossibile non venirne contaminati. E, per la famosa regola, una bugia a forza di ripeterla diventa vera.

Uno dei temi sui quali sembra si siano coalizzati quasi tutti i mezzi di comunicazione è quello dell’ideologia dell’identità di genere, che possiamo riassumere grosso modo così: maschio e femmina non sono identità naturali e donate dal Creatore, ma orientamenti fluidi che possono essere influenzati dalle nostre scelte, dalla cultura, dalle esperienze. Mi sfugge quale sia il disegno che rende così fissati i miei colleghi su questo tema, ma non c’è giorno in cui i giornali mainstreaming non buttino giù un pezzettino di muro, nel tentativo di distruggere qualche metro delle fondamenta naturali su cui si fonda la nostra civiltà. Non c’è giorno che non esca articolo per dire quanto siano dolci gli uomini che fanno cose da donne, allegre le famiglie allargate, magari con due sedicenti genitori dello stesso sesso, meritevoli le neomamme cinquantacinquenni, responsabili quelle che abortiscono se non è il momento, realizzate quelle che fanno carriera, simpatici gli omosessuali che fingono di andare contro i tabu (mentre l’ultimo tabu rimasto è al contrario dire che potrebbero essere persone che non hanno avuto uno sviluppo completamente armonioso della personalità – teoria ampiamente diffusa tra gli psichiatri – tanto che si voleva rendere addirittura un reato l’esprimere questa posizione).

Alla fine, insisti insisti, succede che ti trovi l’Internazionale con in copertina il titolo “Che male c’è se un bambino si veste da femmina”, e all’interno un articolo a mio avviso delirante tradotto dal New York Times, giornale non solo diffusissimo ma anche influente, letto dalla gente che conta e fa opinione. L’articolo racconta di genitori alle prese con bambini dall’identità sessuale incerta (come se non fosse normale che i bambini questa identità la vadano strutturando crescendo, e possano formarla solo rapportandosi a due genitori, maschio e femmina, che offrano modelli positivi dei due sessi), ed è talmente tendenzioso da rendere incredibile il fatto che la sua autrice insegni giornalismo alla Columbia University. Descrive i genitori che mandano i “figli rosa” (che nome orribile) in vacanza in campi per bambini di genere variante (che nome ridicolo), e li descrive come spaventati, assediati, criticati da noi orribili benpensanti che ancora pensiamo che un maschio sia un maschio e una femmina una femmina. Come se si trattasse degli unici illuminati in una società cattiva che, pensa, pretende addirittura di sostenere che ci sia una realtà, un bene oggettivo e assoluto, che ci sia qualcosa che non dipenda dalla nostra opinione. Solo a un certo punto, per sbaglio, sfugge all’autrice, Ruth Padawer, un barlume di verità: “quasi tutti i genitori che consentono ai figli di vivere nello “spazio intermedio” erano persone aperte (notare la tendenziosità) anche prima di avere un bambino rosa, pronti a difendere i diritti dei gay (parola che vuol dire contento, e dunque di nuovo tendenziosa) e l’uguaglianza (uguaglianza a che?) delle donne e a mettere in discussione il confine tradizionale (sei tu quella vecchia, cara Ruth) tra virilità e femminilità”. Questa per me è la chiave: sono i genitori a trasmettere l’identità sessuale, e se in loro questa non è armoniosa può succedere che anche il figlio non l’abbia chiara.
Il messaggio dell’articolo invece è “non li turbate, non li aiutate, lasciateli stare se sono incerti in un momento del loro sviluppo”. Io non so quanto funzionerà questo martellamento culturale, continuo, ossessivo. L’unica consolazione è che al momento, se guardo i miei figli e i loro amichetti, mi sembra che certi miei colleghi il mondo reale non lo vedano manco col cannocchiale.

A casa mia per esempio se una cosa è veramente brutta le bambine dicono: “ma che schifo, è da maschio!”, e i loro fratelli: “ma che schifo è da femmina!”, con espressione parimenti schifata. Anche noi in casa siamo per la parità.

http://costanzamiriano.com   25 settembre 2012

Conservatori? No, autentici progressisti









Antonio Ucciardo

Siamo alla vigilia dell'Anno della Fede. Ad essere onesti, pare che l'attenzione dei media sia concentrata più sul Cinquantesimo del Vaticano II che sull'anno indetto da Benedetto XVI. I due eventi sono in correlazione, ma la memoria del Concilio fornisce l'occasione per imprimere nuovo slancio alla necessaria opera della nuova evangelizzazione. La quale - giova richiamarlo - altro non è se non la riproposta della fede a cattolici immersi nella secolarizzazione e dall'identità offuscata. Non c'è da essere allegri, se si considera il paradosso del dover annunziare nuovamente il vangelo a cristiani. Si comprende bene la radicale differenza tra l'annuncio costante della fede, che caratterizza la missione della Chiesa, e questo dover ridire Cristo nell'attuale contesto. E tuttavia c'è da essere ottimisti, sapendo che questa indispensabile ri-evangelizzazione è segno dell'incessante azione dello Spirito Santo. Il rapporto dialettico tra l'ultimo Concilio e l'Anno della Fede è racchiuso in quella propositività che si può riscontare, per esempio, nelle parole del Papa ai vescovi di recente nomina: "Il Beato Giovanni XXIII, aprendo la grande assise del Vaticano II prospettava «un balzo innanzi verso una penetrazione dottrinale ed una formazione delle coscienze», e per questo - aggiungeva - «è necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che risponda alle esigenze del nostro tempo» (Discorso di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962). Potremmo dire che la nuova evangelizzazione è iniziata proprio con il Concilio, che il Beato Giovanni XXIII vedeva come una nuova Pentecoste che avrebbe fatto fiorire la Chiesa nella sua interiore ricchezza e nel suo estendersi maternamente verso tutti i campi dell'umana attività" (Benedetto XVI, 20 settembre 2012).

Penetrazione dottrinale e formazione delle coscienze! Ed insieme l'esigenza di approfondire e presentare la dottrina certa ed immutabile. I due elementi non sono in contrasto. Il balzo è stato fatto e i frutti di grazia sono evidenti in aspetti molteplici della vita e della testimonianza cristiana. E, tuttavia, non mancano i problemi. Spesso si pensa, con evangelica semplicità, che la presenza di aspetti contrastanti sia dovuta al fisiologico assestamento di un Concilio nella vita della Chiesa. Il paragone con il sinodo tridentino viene rilanciato ad ogni piè sospinto quando si tratta di indagare sulle ragioni di una stagione tanto conflittuale. Forse è necessario che alla semplicità, sempre apprezzabile, si accosti anche la prudenza, anch'essa di chiara impronta evangelica (cf. Mt 10,16). Possiamo certamente fidarci, se non altro, di Paolo VI, l'osannato Papa del Concilio. Le sue mirabili catechesi sul Concilio, i suoi ripetuti interventi contro interpretazioni errate, la sua lucida denuncia del passaggio dal culto di Dio alla religione dell'uomo, appaiono determinanti nel tentativo di comprensione del fenomeno che oggi viviamo, e che Mons. Müller, neo-prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, ha così descritto: "'In molti Paesi e' forte la polarizzazione, il contrasto, tra cosiddetti tradizionalisti e cosiddetti progressisti. Dobbiamo superare questa opposizione, dobbiamo trovare una nuova unita' di fondo nella Chiesa'' (intervista alla Radio Vaticana, 19 settembre 2012). Qualche recensore ha sostituito il termine tradizionalisti con quello di conservatori, probabilmente di diverso effetto mediatico. Un'intervista non è certamente il modo migliore per poter comprendere fino in fondo un ragionamento, ma l'osservazione di Mons. Muller è suffragata dall'evidenza.

Ora, a questa ovvia considerazione, noi possiamo applicare un tentativo di lettura che ha la capacità di circoscrivere il fenomeno a quanto ci interessa, vale a dire i problemi concreti sorti in questi ultimi decenni:

"Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato e porta frutti.

Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare "ermeneutica della discontinuità e della rottura"; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'"ermeneutica della riforma", del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino.

L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito" (Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana, 22 dicembre 2005).

Mi permetto di citare quanto ho avuto modo di esporre in una conferenza dello scorso anno:

"Coloro che si sono fatti assertori della cosiddetta ermeneutica della discontinuità, hanno recepito un concetto di progresso totalmente statico. E' questo, a mio modo di vedere, l'estremo paradosso della loro posizione. Essi hanno guadagnato un consenso sempre più vasto con la corsa parallela della nostra società verso un concetto statico di progresso. Quest'affermazione può apparire una contraddizione in terminis, ma di fatto quel che viene presentato quale progresso, risulta totalmente privo di slancio. Pensiamo al relativismo e ai suoi asserti di fondo, come pure alla cosiddetta società liquida. Se ad imporsi è soltanto l'io e le sue voglie - per citare una celebre espressione del Card. Ratzinger - il futuro, comunque lo si immagini, perde del tutto il suo carattere di trascendenza. A livello di fede, la caratterizzazione escatologica del cristianesimo viene dissolta nell' immanentismo. Si pensa che la tradizione sia sinonimo di fissità, e non ci si avvede che il proprio pensiero risulta incapace di trascendersi. Questo non è un dato assolutamente marginale. Quel che può apparire un progresso, fondato sullo slancio propositivo verso qualcosa che si distacca dalla tradizione, appare in realtà come un salto nel vuoto. Non si tratta, in ultima analisi, di un rifiuto del passato, di forme determinate di vita cristiana e di espressione della fede, bensì di un autentico ripudio della Verità. Bisogna chiedersi, infatti, cosa abbia consentito la coesione di epoche tanto diverse, cosa l'omogeneità di venti secoli e cosa la coesistenza della sostanza fondo con le sue variegate espressioni. Quando si ha un ripudio della Tradizione, normalmente non si rifiuta questo o quel secolo, questa o quella scuola teologica, questo o quel Concilio. Si procede alla rimozione di un unico blocco, genericamente detto Tradizione. Si salvano soltanto i primi secoli, e non sempre nel loro sviluppo coerente, in quanto ritenuti prossimi all'evento fondatore e non ancora adulterati dagli sviluppi successivi. Cosa, dunque, ha garantito la coesione di venti secoli di cristianesimo? La Verità. Per essere più concreti: la convinzione delle generazioni cristiane di dover conservare e trasmettere la Verità. Se non si vuol credere alle verità trasmesse, bisogna almeno riconoscere che questo compito è stato vissuto da uomini diversi e lontani nel tempo come il solo vincolo di comunione tra di loro. In uno dei Sermoni all'Università di Oxford, il beato John Henry Newman scrive questa considerazione: "La verità è rimasta salda nel mondo non per virtù di un sistema, non grazie a libri od argomentazioni, non per merito del potere temporale, ma grazie all'influenza personale di uomini come quelli che vi ho ricordato, uomini che ne sono in pari tempo i maestri e i modelli (...) Essi (i santi, ndr) sono quanti bastano per continuare nel tempo la silenziosa opera di Dio. Tali furono gli Apostoli; altri potrebbero essere ricordati, fra quanti, di generazione in generazione, succedettero loro in santità.Essi comunicano la loro luce a un gran numero di fiaccole minori, che la distribuiscono a loro volta nel mondo intero, mentre le prime fonti luminose rimangono invisibili, persino alla maggior parte dei cristiani sinceri - invisibili come il supremo Autore della Luce e della Verità, sorgente prima di ogni bene. Pochi uomini altamente dotati salveranno il mondo per i secoli a venire (...) Tali uomini sono, come il profeta, sentinelle sulla torre, e accendono i loro fanali sulle alture. Ciascuno di essi riceve e trasmette la fiamma sacra, gareggiando nello zelo con i suoi predecessori, per ritrasmetterne la luce brillante quanto era giunta a lui. In tal modo è lo stesso fuoco, acceso un giorno sul Monte Moria - ma poi quante volte sembrato sul punto di spegnersi - che è giunto acceso fino a noi, e sarà ugualmente tramandato, ne siamo certi, fino alla fine dei secoli" (J. H. NEWMAN, Il contagio personale della verità, in Sermoni su temi di attualità. Sermoni all'Università di Oxford, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, nn. 26. 35, pp. 496. 500).

Su cosa fondano i fautori della discontinuità le loro argomentazioni? Fatto salvo il principio del rifiuto della Tradizione, cosa rende omogenee le loro idee? Quale scuola di pensiero, quale esegesi, quale utilizzo delle fonti, può consentire al loro sforzo di essere trasmesso come una sola realtà facilmente individuabile e, per ciò stesso, capace di conservarsi nel tempo? Questo è il vizio di fondo del pensiero che oggi guarda con indifferenza al passato. Questo è il paradosso: che si parli di Cristo, dello Spirito e della verità, e che non si riconosca alcuna valenza alle parole del Signore: " “Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità” (Gv 16,13). Se questa guida è stata soffocata nel corso della storia o, peggio ancora, se essa è cominciata soltanto nel 1962, siamo davvero da compiangere più di tutti gli uomini (cfr. 1 Cor 15, 19)".

Non si tratta, quindi, di tradizionalisti e di progressisiti. Solo impropriamente, e per comodità, si può fare ricorso a questi termini esemplificativi. Sappiamo bene come alcuni cosiddetti tradizionalisti rifiutino in gran parte alcuni testi del Vaticano II. Non è corretto considerare tali anche i tanti cattolici che riconoscono quale magistero autentico quello del Concilio ed intendono interpretarlo alla luce dell'autentica Tradizione, sotto la guida del Successore di Pietro. Bisogna anche considerare che sovente questi cattolici sono stati definiti tradizionalisti da quanti hanno scelto di far propria la logica contrapposta. Le due ermeneutiche richiamate dal Papa costituiscono, a tutt'oggi, il solo, serio tentativo di porre un argine alla conflittualità.

Se dobbiamo considerare le logiche in campo secondo le categorie scelte da mons. Müller, allora dobbiamo decisamente riconoscerci tra i conservatori, ma nel senso in cui il termine è consegnato alla fede dei credenti dalla Rivelazione divina. Si tratta infatti di conservare, o meglio di custodire, il dono della fede, secondo la raccomandazione di S. Paolo a Timoteo: "Ti ordino di conservare senza macchia e in modo irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo" (1 Tm 6, 14. Cf anche v. 20, e 2 Tm 1,14). Ai Corinzi viene invece rivolta questa raccomandazione: "Vi proclamo poi, fratelli, il Vangelo che vi ho annunciato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi e dal quale siete salvati, se lo mantenete come ve l'ho annunciato" (2 Cor 15, 1-2). Conservare e trasmettere, dunque, quanto Cristo ha affidato agli Apostoli. Non c'è conservazione che non sia originata dalla trasmissione e che non diventi traditio essa stessa. E non c'è trasmissione che non sia anche una crescita nella compensione, come ricorda proprio il Concilio Vaticano II: "“Questa Tradizione di origine apostolica progredisce nella Chiesa con l'assistenza dello Spirito Santo.” (Costituzione dogmatica Dei Verbum, 8). Il greco paratheke ( il deposito di 1 Tm 6, 20) contiene già l'idea stesa del movimento. Dio non si è manifestato perchè la sua Rivelazione rimanesse inerte o divenisse oggetto di contemplazione da parte di iniziati. La Tradizione è la garanzia migliore che il cristianesimo non è speculazione di intelletti sapienti, bensì dono di Dio.

Il balzo del Concilio non era che questa rinnovata comprensione dell'unico vangelo affidato alla Chiesa. Uno scatto di identità, potremmo dire con linguaggio mutuato da altri ambiti. I tempi apparivano maturi per presentare ad un mondo in evoluzione crescente la sapienza del Vangelo e per ridestare nei membri della Chiesa uno slancio che consentisse, con rinnovata consapevolezza, di essere luce e sale. Dove si è agito con questo spirito - il solo spirito del Concilio- i frutti sono stati evidenti. Dove a questo spirito si è sostituita l'elaborazione del cosiddetto spirito del Concilio, abbiamo avuto gli effetti contrari, specialmente nella pratica pastorale e nella dissociazione tra il pensiero ispirato alla fede e la vita. Non è compito nostro dire come e quando questo presunto spirito sia stato elaborato e come sia divenuto dominante. Non mancano autorevoli tentativi in tal senso. Noi possiamo prendere atto dei ripetuti interventi dei Papi, puntualmente disattesi da quanti hanno sostituito il proprio pensiero a qualsiasi altra norma. Così il progresso, sganciato dalla Tradizione, è divenuto un idolo. Facendo nostre le parole di Joseph Ratzinger, possiamo dire che "avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi portare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni" (Omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontifice, 18 aprile 2005). Non più il necessario confronto con la modernità, bensì l'assunzione delle sue categorie per interpretare i dati della Rivelazione. Non più l'offerta della verità, ma la ricerca di vie per giungere alla verità. Non più un Dio che assume la debolezza dell'uomo per redimerla, ma piuttosto un uomo che ha nella sua debolezza intellettuale, morale e spirituale, lo "strumento" della salvezza. Spesso si è rivestita di citazioni scritturistiche e di pensieri teologici l'assurda pretesa che il mondo ha di potersi salvare da sè. Altre volte si ha l'impressione, invece, che si ricerchino nel dialogo con il mondo i motivi di plausibilità della fede, come se si provasse vergogna per ciò che si custodisce; come se si dovesse in qualche modo giustificare il fatto che esistano dei cristiani. Una volta la fede generava cultura. Oggi una pseudocultura finisce per modificare anche la visione che deriva dalla fede.

Questo è il pensiero che si è affermato in misura sempre più crescente e che ha finito di condizionare tanto l'evangelizzazione quanto la pastorale. In maniera paradossale, coloro che pretendevano di poter finalmente sganciarsi dal "dogmatismo" rimproverato alla Chiesa, hanno finito per crearne uno che non ammette nessuna apertura a quanto è considerato in opposizione al presunto spirito del Concilio. Essi sanno di cosa ha bisogno il popolo di Dio. Non hanno bisogno di maestri, e neppure di pastori, perchè la Chiesa che essi vagheggiano non è più un mistero di fede, ma una creazione della loro capacità di programmazione e di risposta alle richieste del mondo. Non è affatto un caso che a risentire di questi "venti" sia innanzitutto la liturgia. Una comunità che si appalude, è l'esatta misura di ciò che stiamo vivendo!

Dobbiamo chiederci, tuttavia, se per caso il Vaticano II non abbia effettivamente voluto questo progresso, che somiglia più ad un salto con l'asta che ad un balzo. Ora, il presunto spirito del Concilio non si fonda sui documenti, ma sulle intenzioni dei padri, sulla larghezza di vedute del B. Giovanni XXIII, su quello che sarebbe stato lo schema tal dei tali se non fosse intervenuto questo e quest'altro. Quando si citano i documenti è soltanto per attribuire ad essi il proprio pensiero, senza riferimento alcuno al contesto, alla genesi, all'insieme del magistero di cui vogliono essere espressione. Mi è capitato, per esempio, di leggere un breve commento ad un testo della Dichiarazione Dignitatis humanae di Paolo Gamberini. Il commento, riportato sul sito Viva il Concilio, riguarda quest'affermazione: "Mite ed umile di cuore, ha attratto pazientemente i discepoli "(DH 11). Questa la spiegazione che viene fornita: "Dio, rivelandosi, non esercita alcuna coercizione né esterna, né interna sull’uomo. Come afferma l’evangelista Giovanni (1,11) «Dio venne tra i suoi». L’umanità non è qualcosa di esterno ed estraneo a Dio, ma appartiene alla Sua stessa identità.

L’umiltà di Gesù manifesta l’humus di Dio, l’«umanità» di Dio. L’humanum non è diminuzione e nemmeno espressione impropria del divinum, ma la sua espressione più adeguata, e trova in Gesù di Nazareth il suo culmine e la sua realizzazione piena. Gesù non impone ma propone; la sua relazione è coinvolgente e (com) muove dal e nell’intimo la creatura. La mitezza e l’umiltà sono il giogo di Gesù e queste attraggono e invitano con pazienza ogni uomo.

Ogni qualvolta la religione preferisce i diritti di Dio a quelli dell’uomo, preferisce l’osservanza della Legge al bene dell’uomo, giustificando anche l’uso della violenza, fisica e psicologica, finisce per violare l’onòre di Dio poiché nega quello dell’uomo. «Il sabato è fatto per l'uomo, non l’uomo per il sabato» (Mc 2,27). Dio non vuole alcuna marionetta, ma partner liberi di alleanza. La parola e l’agire di Gesù sono intenzionati alla maturità dell’uomo e non alla sua soggezione. L’umiltà di Cristo rivela così come Dio stesso agisce con noi, senza sostituirsi all’umano e senza prenderne il posto, ma mettendosi a nostro servizio".

E' chiaro che alcune affermazioni sono perfettamente condivisibili. Dio non impone, e l'alleanza presuppone creature libere. Alcuni termini, tuttavia, mi hanno lasciato perplesso. Probabilmente una spiegazione più articolata avrebbe indotto l'estensore, gesuita e docente di Cristologia a Napoli, a fondare meglio, soprattutto dal punto di vista esegetico (non è il Concilio che ha riportato la Scrittura al centro dell'attenzione dei teologi?), il suo discorso. Quando cessano i diritti di Dio? Quando cominciano quelli dell'uomo? Chi può determinare quale sia l'estensione dei diritti di Dio? Davvero l'umano è l'espressione più adeguata del divino? Cosa si intende con umano? Ci si riferisce alla concretezza della carne assunta dal Figlio di Dio, alla creazione dell'uomo ad immagine e somiglianza di Dio, o alla semplice evidenza creaturale? E' sufficiente che vi sia un uomo perchè si possa dire di essere alla presenza di Dio? Cos'è la Legge? Si intende la Legge veterotestamentaria, che Cristo non ha abolito, o le norme della Chiesa? Si intendono i comandamenti di Dio o la risposta dell'uomo? Quando termina la pazienza (per nostra fortuna infinita!) e comincia l'attrattiva? Comunque, non ci interessa qui prendere in esame lo scritto, proposto tra l'altro nella rubrica "Perle del Concilio", ma semplicemente considerare se questa lettura corrisponda effettivamente alle "intenzioni" dei padri conciliari. Cosa afferma la Costituzione Dignitatis humanae nel suo proemio (chiave di lettura dell'intero documento) ?: "Anzitutto, il sacro Concilio professa che Dio stesso ha fatto conoscere al genere umano la via attraverso la quale gli uomini, servendolo, possono in Cristo trovare salvezza e pervenire alla beatitudine. Questa unica vera religione crediamo che sussista nella Chiesa cattolica e apostolica, alla quale il Signore Gesù ha affidato la missione di comunicarla a tutti gli uomini, dicendo agli apostoli: « Andate dunque, istruite tutte le genti battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, insegnando loro a osservare tutto quello che io vi ho comandato » (Mt 28,19-20). E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli.

Il sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore. E poiché la libertà religiosa, che gli esseri umani esigono nell'adempiere il dovere di onorare Iddio, riguarda l'immunità dalla coercizione nella società civile, essa lascia intatta la dottrina tradizionale cattolica sul dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l'unica Chiesa di Cristo. Inoltre il sacro Concilio, trattando di questa libertà religiosa, si propone di sviluppare la dottrina dei sommi Pontefici più recenti intorno ai diritti inviolabili della persona umana e all'ordinamento giuridico della società."

Come si può notare, il Concilio dichiara che tutti gli uomini sono tenuti a cercare la verità e ad aderire ad essa. Dichiara pure che questa verità si impone (verbo decisamente scomodo...) per la forza della verità stessa, "la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore". Se Dio è la Verità, dobbiamo supporre che egli operi attraverso una mozione che è, allo stesso tempo, soave e vigorosa. Da qui deriva che alcuni doveri possano vincolare la coscienza, vale a dire l'intimo della creatura. Dichiara, infine, che esiste un dovere di onorare Dio. Di diritti dell'uomo, almeno qui, non si parla.

Veniamo al testo di DH 11. E' bene riportarlo integralmente: " Dio chiama gli esseri umani al suo servizio in spirito e verità; per cui essi sono vincolati in coscienza a rispondere alla loro vocazione, ma non coartati. Egli, infatti, ha riguardo della dignità della persona umana da lui creata, che deve godere di libertà e agire con responsabilità. Ciò è apparso in grado sommo in Cristo Gesù, nel quale Dio ha manifestato se stesso e le sue vie in modo perfetto. Infatti Cristo, che è Maestro e Signore nostro, mite ed umile di cuore ha invitato e attratto i discepoli pazientemente. Certo, ha sostenuto e confermato la sua predicazione con i miracoli per suscitare e confortare la fede negli uditori, ma senza esercitare su di essi alcuna coercizione. Ha pure rimproverato l'incredulità degli uditori, lasciando però la punizione a Dio nel giorno del giudizio. Mandando gli apostoli nel mondo, disse loro: « Chi avrà creduto e sarà battezzato, sarà salvo. Chi invece non avrà creduto sarà condannato » (Mc 16,16)". Come si vede, il testo non afferma che la non coercizione da parte di Cristo non determini una responsabilità nella creatura. Il testo parla, addirittura, di punizione. Che il Concilio stesso sia anticonciliare?

Chiaramente l'esame esaustivo del testo esula da queste considerazioni. L'esempio rende con sufficiente chiarezza quello che intendo dire. Di simili esempi abbondano i testi elaborati, ad ogni livello, negli ultimi decenni. Il rispetto che si deve alla persona non significa che ci si debba prostrare davanti all'uomo, per quanto egli sia stato creato da Dio e porti in sè un germe di verità. Noi dobbiamo coltivare quel germe, destare l'apertura della mente e del cuore, con il metodo stesso di Dio: dolcezza e vigore. Non si tratta di giudicare o di imporre, come spesso si ripete per giustificare la totale inattività nella proposta della fede. Si tratta di credere che si è, effettivamente, collaboratori di Dio, anche in ordine alla piena realizzazione di quell'umanità che tanto sta a cuore ai progressisti. Questa è l'autentica dottrina del Concilio. E' sufficiente leggere con attenzione e in maniera organica i suoi testi di carattere pastorale.

Non può restare fuori dalle nostre argomentazioni il papa che volle il Vaticano II. Se non fosse stato il Papa dell'aggiornamento, oggi sarebbe guardato con distanza, se non altro per il suo "tradizionalismo". Il suo "Diario dell'anima" sta allo "spirito" del Concilio come Cimabue sta all'astrattismo. Ecco cosa pensava - per stare ai documenti ufficiali e non privati- quel sant'uomo di Giovanni XXIII: "Nell’indire questa grandiosa assemblea, il più recente e umile Successore del Principe degli Apostoli, che vi parla, si è proposto di riaffermare ancora una volta il Magistero Ecclesiastico, che non viene mai meno e perdura sino alla fine dei tempi; Magistero che con questo Concilio si presenta in modo straordinario a tutti gli uomini che sono nel mondo, tenendo conto delle deviazioni, delle esigenze, delle opportunità dell’età contemporanea.

Iniziando questo Concilio universale, il Vicario di Cristo, che vi sta parlando, guarda, com’è naturale, al passato, e quasi ne percepisce la voce incitante e incoraggiante: volentieri infatti ripensa alle benemerenze dei Sommi Pontefici che vissero in tempi più antichi e più recenti, e che dalle assemblee dei Concili, tenuti sia in Oriente che in Occidente dal quarto secolo fino al Medio Evo e agli ultimi tempi, hanno trasmesso le testimonianze di tale voce veneranda e solenne. Esse acclamano senza sosta al trionfo di quella Società umana e divina, cioè della Chiesa, che assume dal Divin Redentore il nome, i doni della grazia e tutto il suo valore.

Se questo è motivo di letizia spirituale, non possiamo tuttavia negare che nella lunga serie di diciannove secoli molti dolori e amarezze hanno oscurato questa storia. Fu ed è veritiero quello che il vecchio Simeone con voce profetica disse a Maria Madre di Gesù: "Egli è qui per la rovina e la risurrezione di molti..., segno di contraddizione". E Gesù stesso, cresciuto in età, indicò chiaramente come nei tempi si sarebbero comportati gli uomini verso di lui, pronunziando quelle misteriose parole: "Chi ascolta voi ascolta me". Questo disse inoltre: "Chi non è con me, è contro di me; e chi non raccoglie con me, disperde", come vediamo scritto in San Luca, che riferisce anche le espressioni precedenti.

Dopo quasi venti secoli, le situazioni e i problemi gravissimi che l’umanità deve affrontare non mutano; infatti Cristo occupa sempre il posto centrale della storia e della vita: gli uomini o aderiscono a lui e alla sua Chiesa, e godono così della luce, della bontà, del giusto ordine e del bene della pace; oppure vivono senza di lui o combattono contro di lui e restano deliberatamente fuori della Chiesa, e per questo tra loro c’è confusione, le mutue relazioni diventano difficili, incombe il pericolo di guerre sanguinose" (B. Giovanni XXIII, Discorso per l'apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II, 11 ottobre 1962).

Cos'è la Tradizione? E' il permanere nello sguardo di Cristo, che accompagna la Chiesa da due millenni. Cos'è il progressismo? Il semplice rifiuto di essere guardati da Cristo. Forse non è un caso che Gesù abbia scelto i bambini come immagine dei discepoli. L'autentico progresso scaturisce soltanto dal rimanere là dove lo sguardo può giungere. Dobbiamo poter vedere sempre Cristo quando ci impegniamo a rendere comprensibile il Vangelo alla nostra generazione. Un cristianesimo non "pensato" diventa archeologismo. Un cristianesimo "elaborato" diventa, però, una spiritualizzazione di istanze mondane, una setta di fratelli universali.

Ci piaccia o no, dobbiamo prendere atto che stiamo vivendo, per certi aspetti, quanto Paolo Vi aveva confidato a Jean Guitton: ""Ciò che mi colpisce, quando considero il mondo cattolico, è che all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte. Ma esso non rappresenterà mai il pensiero della Chiesa. Bisogna che sussista un piccolo gregge, per quanto piccolo esso sia".

Voler essere parte del piccolo gregge è propriamente ciò che si definisce spirito di conservazione. Non voler assumere per se stessi il pensiero dominante non significa essere tradizionalisti. Significa, piuttosto, voler essere inseriti in quel progresso di santità e di salvezza che avrà il suo compimento nella visione beatifica di Dio.






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