lunedì 17 dicembre 2012

Il Concilio Vaticano II e la scuola di Bologna






di P. Giovanni Cavalcoli, OP

Sappiamo bene quanto sono importanti gli studi storici sui Concili Ecumenici e in particolare, oggi, gli studi sulle origini, lo svolgimento, le circostanze e le conclusioni del Concilio Vaticano II. Tra questi studi certamente il più ampio, documentato e famoso, è la storia del Concilio in cinque volumi elaborata dalla Scuola di Bologna guidata da Giuseppe Alberigo, emanazione del ricchissimo Centro di Documentazione per la Scienze Religiose fondato dal Card. Giacomo Lercaro, Arcivescovo di Bologna, uno dei Padri del Concilio, e Giuseppe Dossetti, che fu importante perito del Concilio.

L’opera notevole, di fama internazionale, anche per la quantità di qualificati collaboratori, diretta dall’Alberigo, è stata di recente riedita e riveduta. Essa ha suscitato una notevole discussione fra gli studiosi, come sempre accade, alcuni favorevoli, altri di tendenza critica. Tra questi ultimi emergono gli interventi dell’illustre storico vicino alla S.Sede, il Vescovo Agostino Marchetto, il quale, pur apprezzando i pregi dell’opera, le ha tuttavia rivolto una critica che mette in luce un’interpretazione del Concilio come quella che il Pontefice ha chiamato “esegesi di rottura”: il Concilio proporrebbe l’immagine di una nuova Chiesa finalmente e veramente evangelica, liberata dalla lunga “era costantiniana” di una Chiesa tradizionale sclerotizzata e consegnata al dogma; propone invece una nuova immagine di Chiesa profetica, ecumenica e pneumatica, di “comunione e kerigma”, legata al carattere di “evento” del Concilio stesso, per cui la novità escatologica (“nuova Pentecoste”) dell’evento stesso supererebbe e annullerebbe la continuità con la precedente dogmatica invischiata in una scolastica che ormai ha fatto il suo tempo.

Nell’ultima edizione infatti l’Alberigo, nella presentazione dell’opera, esce in un discorso come il seguente: “E’ sempre più attuale riconoscere la priorità dell’evento conciliare anche rispetto alle sue decisioni, che non possono essere lette come astratti dettati normativi, ma come espressione e prolungamento dell’evento stesso”[1].

Notiamo anzitutto come Alberigo non dice: “E’ sempre più giusto o doveroso”, ma “è sempre più attuale”, il che potrebbe sembrare a tutta prima che egli si limiti ad una semplice constatazione di fatto; ma in realtà il tono dell’espressione lascia intendere l’atteggiamento tipicamente storiricista-modernista di identificare il vero con l’attuale o col moderno, come se non fosse il vero a valutare l’attuale, ma fosse l’attuale a determinare il vero. Per questa mentalità, oggi assai diffusa, se qualcosa è attuale, soprattutto se condiviso da una maggioranza o dalla classe dominante, è necessariamente vero o comunque da assumersi per non apparire superati o invecchiati.

Ma a parte questo partire di Alberigo col piede sbagliato, si possono fare altre osservazioni al suo discorso, che appare evidentemente, così messo nell’introduzione, come discorso programmatico e criterio ispiratore della stessa intera opera. Da qui l’interesse che esso suscita e l’importanza di vagliarlo criticamente.

Osserviamo dunque innanzitutto che è senz’altro lecito, da un punto di vista storico qual è quello dal quale del resto si pone Alberigo, parlare di una “priorità dell’evento” sulle decisioni finali, in quanto è chiaro che l’evento del Concilio contiene fatti, atti, comportamenti, dibattiti, contesti, situazioni, circostanze che vanno al di là delle semplici decisioni finali che pure fanno parte dell’evento.

Tuttavia occorre tener presente che gli insegnamenti del Concilio, contenuti negli atti ufficiali conclusivi, aventi valore di Magistero solenne e straordinario, soprattutto gli insegnamenti dogmatici, danno, quanto meno agli occhi del teologo e del fedele, il senso di fondo e la ragion d’essere essenziali dell’evento del Concilio, in quanto esso si è riunito appunto per prendere delle decisioni, che poi sarebbero state quelle date decisioni che tutti conosciamo.

Quindi, se, dal punto di vista storico, l’evento, con la ricchezza dei suoi elementi o fattori, prevale sul semplice fatto o dato dei documenti finali, questi ultimi, dal punto di vista teologico-dogmatico, presentano per i fedeli e per la Chiesa stessa l’interesse decisivo e principale rispetto a quanto è accaduto durane i lavori del Concilio, senza che perciò siano privi d’interesse o di incidenza sulle stesse conclusioni tutte le altre notizie pazientemente e scientificamente raccolte dallo storico su quelli che furono i lavori del Concilio, le sue origini, le sue vicende, il suo svolgimento, la sua durata, le sue fasi, quanti e chi ne hanno preso parte, la sua recezione, i fatti principali che ne seguirono e le cause storiche ed ideali che portarono alla sua indizione.

E’ chiaro che la conoscenza di tutti quegli elementi storici è di innegabile aiuto per capire meglio il senso e la portata delle decisioni finali, seppure spetti sempre al Magistero della Chiesa il compito della loro definitiva interpretazione.

Quello che invece non si può accettare nel discorso di Alberigo è il tono spregiativo col quale egli parla di “astratti dettati normativi”, pensando di averli messi fuori gioco col semplice qualificarli nominalisticamente come “astratti”. Abstrahentium non est mendacium, dicevano saggiamente i logici scolastici. L’astrarre è funzione naturale del pensiero umano, l’importante è astrarre bene e non ipostatizzare le astrazioni come faceva Platone.

Ogni concetto, anche quello dello storico, tenuto più di altri a guardare al concreto, è un qualcosa di astratto. Indubbiamente anche le norme pratiche devono essere il più concrete possibile, ma anch’esse non possono essere espresse se non in concetti. Oltre a ciò, le norme generali della morale, compresa l’etica cristiana, e le dottrine speculative, come per esempio il dogma, sono per loro natura ancora più astratte, ma ciò non deroga per nulla alla loro verità e quindi alla loro obbligatorietà.

Che le decisioni del Concilio discendano da fatti precedenti o stiano al termine di fatti, atti e dibattiti che le hanno precedute, è evidente, e quindi possiamo accettare che esse ne siano, come dice Alberigo, un loro “prolungamento”. Quanto invece alla qualifica da lui data alle decisioni di essere semplice “espressione” dell’evento, bisogna intendersi. Esse, certo, come ho detto, fanno parte dell’evento conciliare complessivo, tanto da darne il senso intellegibile: un Concilio, come è noto, si riunisce non tanto per creare degli “eventi” - per questo va bene anche il teatro o uno spettacolo televisivo o una partita di calcio -, ma per prendere, sotto l’assistenza dello Spirito Santo, e sulla base della Rivelazione divina, delle decisioni serissime e spesso immutabili, anche se queste ovviamente, una volta prese, sono indubbiamente “eventi”.

Tuttavia occorre dire con chiarezza, soprattutto come cattolici, che gli insegnamenti del Concilio, soprattutto quelli dottrinali-dogmatici, sono sì “espressione” dell’evento del Concilio, ma lo sono proprio in quanto decisioni normative obbliganti e vincolanti le coscienze dei fedeli o in nome dell’autorità della Chiesa o in nome della stessa fede, anche se, come è noto, il Concilio non contiene dogmi definiti o in formula definitoria, il che non vuol dire che non contenga dottrine vere e definitive, in tal senso infallibili.

Per questo, per quanto riguarda un Concilio, è certo importante sapere che cosa è successo, ma, in ordine ad una retta vita cristiana, è importante sapere che cosa ha voluto insegnare. Per questo, ancor oggi come oggi, primario problema riguardo al Concilio, soprattutto per il comune fedele, non è tanto conoscere dettagliatamente il succedersi enormemente complesso degli eventi del suo svolgimento, quanto piuttosto la retta interpretazione dei suoi documenti con l’ausilio indispensabile del Magistero della Chiesa.

Non ha quindi nessun senso, come fa l’Alberigo, contrapporre la normatività delle decisioni conciliari, estenuandola fino quasi ad escluderla, al loro essere state un “evento” contingente e passato, quasi a volerle invalidare, relativizzare o dissolvere nella molteplicità eterogenea e a volte - diciamolo pure - contradditoria dei dibattiti e delle discussioni avvenuti durante i lavori del Concilio, col pretesto di raccontare scientificamente ed esaurientemente tutto quanto è successo durante quei lavori.

Certamente lo storico serio deve informarci su tutto ciò, ma non con la pretesa di invertire l’ordine naturale dei valori, dando più importanza a quegli eventi che si sono verificati durante i lavori, dove emergono evidenti i limiti e le debolezze umani, rispetto alle conclusioni, circa le quali il cattolico non dubita invece dell’assistenza dello Spirito Santo che le rende infallibili, se non nei loro contenuti pastorali-disciplinari-organizzativi, che possono essere rivedibili o mutati o addirittura abrogati, certo in quelli dottrinali-teologico-dogmatici.

Occorre pertanto ricordare con forza contro Alberigo che quegli eventi del Concilio che hanno condotto alla formulazione delle decisioni finali, ben lungi dal dar senso e quasi giustificazione alle dette decisioni, sono essi stessi che da queste traggono la loro ragione d’essere e il senso della direzione che li ha condotti a tali decisioni, essendo essi stati di queste niente più che l’abbozzo, la preparazione e la germinazione.

Nulla toglie che in quei progetti non realizzati o meglio elaborati si trovino elementi o suggerimenti utili che non furono presi in considerazione e che potranno invece essere addirittura approvati o canonizzati in un successivo Concilio. Gli studiosi, esaminando gli schemi preparatori o le proposte avvenute in aula nel corso di certi Concili, come per esempio il Vaticano I o lo stesso Vaticano II, hanno rintracciato interessanti proposte che non furono accettate nei documenti finali, ma che nessuno impedisce che oggi vengano riprese in esame per la loro saggezza e per il vantaggio che si potrebbe trarre per risolvere o illuminare problemi e situazioni del presente.

La dinamica di un Concilio assomiglia al sorgere e al maturare di un organismo vivente: il filosofo che vuol definire per esempio i caratteri essenziali della natura umana, li considera nell’adulto e non nelle fasi precedenti dello sviluppo, quale può essere l’embrione, il fanciullo o il giovane, anche se ovviamente queste fasi sono estremamente interessanti e fanno parte delle scienze umane.

Ma, come diceva il saggio Aristotele, è dalla considerazione dell’atto che si comprende il passaggio dalla potenza all’atto, anche se è vero che nel corso di questo passaggio si può prevedere come andranno le cose. Lo storico ha una sua funzione indispensabile nelle scienze umane, ma, quando ci si pone la domanda sulla natura di valori umani universali e fondamentali, non può avere la pretesa di dar maggiore importanza ai fatti contingenti o al maturare dei valori, più che alla compiutezza finale dei medesimi valori.

Così lo storico della Chiesa deve certo farci conoscere i dinamismi, i fatti e gli stessi contrasti che successivamente conducono alla maturazione o esplicitazione di certe dottrine o direttive pratiche stabilite dal Magistero della Chiesa, ma non è assolutamente autorizzato, pena la deformazione del suo lavoro di storico, a dar maggiore importanza, col pretesto della ricchezza esistenziale e irripetibile dell’evento, all’evento stesso rispetto a quel definitivo e decisivo evento intellettuale e morale che è la formulazione definitiva delle dottrine e delle decisioni morali della Chiesa, mettendo in discussione la loro obbligatorietà davanti alla coscienza del credente, quasi che questi possa trovare una norma superiore nell’intrecciarsi a volte confuso e contradditorio, anche se “concreto”, degli eventi precedenti.

Similmente può essere interessante sapere quali progetti erano stati fatti prima di quello definitivo che ha condotto alla costruzione di un edificio, ma è evidente che chi vuol descrivere mettiamo, per il turista o per il catasto del Comune, il detto edificio così come è risultato ed ora si presenta, non ha bisogno di rifarsi ai progetti precedenti, ma a quello finale.

Così, analogamente, nella costruzione di quella casa di Dio che è la Chiesa, opera certamente l’uomo con i suoi tentativi, le sue incertezze, le sue stesse miserie e contraddizioni, ma poi il credente sa che alla fine chi costruisce la casa non è l’uomo ma è Dio, come dice il Salmo: “Se il Signore non costruisce la casa, invano faticano i costruttori” (Sal 127,1), e questi costruttori siamo tutti noi, dal ragazzino catechista di una parrocchia di campagna sino al Sommo Pontefice, giacchè è vero che il Concilio deve essere guidato e sancito da lui, ma neppure il Papa, quando indice un Concilio, sa esattamente che cosa da esso verrà fuori, anche se è sicuro che il potere di sanzionare le decisioni del Concilio è nelle sue mani, grazie al carisma dello Spirito Santo.

A questo riguardo, gli storici hanno ormai chiarito per esempio che l’idea originaria di Giovanni XXIII era semplicemente quella che la Chiesa proponesse l’immutabile messaggio evangelico al mondo moderno in un linguaggio moderno. In tal senso il Concilio doveva essere solo “pastorale”.

Fu invece Paolo VI, intelligenza più fine e più portata alla speculazione dottrinale (ammiratore di grandi pensatori come S.Agostino, Pascal, Guitton, Maritain e Journet) che non Papa Roncalli, che veniva dalla carriera diplomatica, ad aver l’idea di aggiungere a questa impostazione pastorale, un orientamento dogmatico-dottrinale , - soprattutto l’approfondimento del mistero della Chiesa -, dal quale poi sono scaturite le quattro grandiose “Costituzioni dogmatiche”, le quali, se non contengono nuovi dogmi definiti, certamente chiariscono ed esplicitano molte verità di fede in perfetta linea - come potrebbe essere diversamente? - con la Scrittura e la Tradizione.

Una cosa importante che ci insegnano gli storici, contro l’apriorismo astratto degli idealisti e dei razionalisti, è che il sapere umano e quindi anche il sapere dogmatico della Chiesa non escono dallo nostra testa improvvisamente bell’e fatti o “a priori” come Minerva dalla testa di Giove, ma sorgono da umilissime origini empiriche superando un’originaria totale ignoranza (“tabula rasa”); è il risultato di un’evoluzione, di un’educazione, di un apprendimento e di ardua conquista che si raggiungono quasi sempre faticosamente e rischiosamente, con umiltà e tenacia, dopo vani tentativi, errori e cadute.

Il cammino della Chiesa non ignora affatto questo complesso insieme di eventi a volte dolorosi per non dire drammatici. Il suo divin Fondatore l’ha voluta così, ma nel contempo le ha dato una luce e un forza invincibile che la conduce infallibilmente alla pienezza finale della verità e tutti coloro che vogliono vivere nella Chiesa, seppure con i loro limiti e difetti, finiscono però per vincere ogni ostacolo e partecipare della sua stessa invincibile infallibilità.



[1] Storia del Concilio Vaticano II diretta da Giuseppe Alberigo, Edizioni Peeters, Levun e Il Mulino, Bologna, 2012, vol.I, p.10.

Riscossa cristiana 

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