martedì 27 novembre 2012

Paolo VI e la fede del popolo







di Andrea Tornielli

Erano passati solo cinque anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, e Papa Paolo VI pubblicava l’esortazione apostolica «Quinque iam anni» (8 dicembre 1970), intervenendo con chiarezza nel travaglio vissuto dalla Chiesa nel post-concilio. Colpisce come già allora, il Papa del dialogo con il mondo evidenziasse con estrema chiarezza la tendenza a mettere in discussione l’essenziale della federichiamando il dovere dei vescovi a difendere la fede dei semplici. Ve ne propongo alcuni brani.

«Molti fedeli sono turbati nella loro fede da un cumulo di ambiguità, d’incertezze e di dubbi che la toccano in quel che essa ha di essenziale. Tali sono i dogmi trinitario e cristologico, il mistero dell’Eucaristia e della presenza reale, la Chiesa come istituzione di salvezza, il ministero sacerdotale in mezzo al popolo di Dio, il valore della preghiera e dei sacramenti, le esigenze morali riguardanti, ad esempio, l’indissolubilità del matrimonio o il rispetto della vita umana. Anzi, si arriva a tal punto da mettere in discussione anche l’autorità divina della Scrittura, in nome di una radicale demitizzazione. Mentre il silenzio avvolge a poco a poco alcuni misteri fondamentali del cristianesimo, vediamo delinearsi una tendenza a ricostruire, partendo dai dati psicologici e sociologici, un cristianesimo avulso dalla Tradizione ininterrotta che lo ricollega alla fede degli Apostoli, e ad esaltare una vita cristiana priva di elementi religiosi».


«Eccoci allora chiamati – noi tutti che abbiamo ricevuto, con l’imposizione delle mani, la responsabilità di conservare puro e integro il deposito della fede e la missione di annunciare incessantemente il Vangelo – a offrire la testimonianza della nostra comune obbedienza al Signore. Per il popolo, che ci è stato affidato, è diritto imprescrittibile e sacro il ricevere la parola di Dio, tutta la parola di Dio, di cui la Chiesa non ha cessato di acquistare una sempre più profonda comprensione. Per noi è grave e urgente dovere di annunciargliela instancabilmente, perché esso cresca nella fede e nella intelligenza del messaggio cristiano e dia testimonianza, con tutta la sua vita, della salvezza in Gesù Cristo».
«Nell’attuale crisi che investe il linguaggio e il pensiero, spetta a ciascun Vescovo nella propria Diocesi, a ciascun Sinodo, a ciascuna Conferenza Episcopale curare attentamente che questo sforzo necessario non tradisca mai la verità e la continuità della dottrina della fede. Bisogna segnatamente vigilare affinché una scelta arbitraria non coarti il disegno di Dio entro le nostre umane vedute, e non limiti l’annuncio della sua Parola a quel che le nostre orecchie amano ascoltare, escludendo, secondo criteri puramente naturali, quel che non è di gradimento ai gusti odierni. “Ma anche se noi – ci previene l’apostolo Paolo – o anche un angelo del Cielo vi annunciasse un vangelo diverso da quello che noi vi abbiamo annunciato, sia anatema” (Gal. 1, 8)».

«Infatti, non siamo noi i giudici della parola di Dio: è essa che ci giudica e che mette in luce il nostro conformismo alla moda del mondo. “Le manchevolezze dei cristiani, anche di coloro che hanno la missione di predicare, non saranno mai nella Chiesa un motivo per attenuare il carattere assoluto della parola. Il filo tagliente della spada (Cfr. Hebr. 4, 12; Apoc. 1, 16; 2, 16) non potrà mai essere smussato. Essa mai potrà parlare della santità, della verginità, della povertà e dell’obbedienza diversamente da Cristo” (Hans Urs von Balthasar, Das Ganze im Fragment, Einsiedeln, Benziger, 1963, p. 296).

Lo ricordiamo di passaggio: se le inchieste sociologiche ci sono utili per meglio conoscere la mentalità dell’ambiente, le preoccupazioni e le necessità di coloro ai quali annunciamo la parola di Dio, come pure le resistenze che le oppone l’umana ragione nell’età moderna, con l’idea largamente diffusa che non esisterebbe, fuori della scienza, alcuna forma legittima di sapere, le conclusioni di tali inchieste non potrebbero costituire di per se stesse un criterio determinante di verità».

«All’indomani di un Concilio, che è stato preparato con le migliori conquiste della scienza biblica e teologica, un considerevole lavoro resta da compiere, specialmente per approfondire la teologia della Chiesa e per elaborare un’antropologia cristiana adeguata allo sviluppo delle scienze umane e alle questioni che esse pongono all’intelligenza dei credenti. Chi di noi non riconosce, con l’importanza di questo lavoro, le sue esigenze e non ne comprende le inevitabili incertezze? Ma, dinanzi alla rovina che causa oggi nel popolo cristiano la divulgazione di ipotesi avventate o di opinioni che turbano la fede, noi abbiamo il dovere di ricordare con il Concilio che la vera teologia si basa come su un fondamento perenne sulla parola di Dio scritta, inseparabile dalla sacra Tradizione (Cfr. Dei verbum, 24; A.A.S., LVIII (1966), p. 828)».

«Non ci riduca al silenzio, Fratelli carissimi, il timore delle critiche sempre possibili e a volte fondate. Per quanto necessaria la funzione dei teologi, non ai sapienti però Dio ha affidato la missione di interpretare autenticamente la fede della Chiesa: questa s’innesta nella vita di un popolo, di cui responsabili dinanzi a Dio sono i Vescovi. Tocca appunto a loro di annunciare a questo popolo quel che Dio gli domanda di credere».



andreatornielli.it  27 novembre 2012


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