domenica 11 novembre 2012

La questione dell’ermeneutica del Concilio Vaticano II




Conferenza a Pistoia del 9 novembre 2012






         di Padre Giovanni Cavalcoli, OP

Dal punto di vista del genere letterario - questo lo si dice poco -, i documenti del Concilio devono essere visti anzitutto come testi giuridici emanati dalla legittima autorità, che in questo caso è il Magistero della Chiesa. E’ questa l’angolatura giusta per porre adeguatamente il problema dell’interpretazione dei testi conciliari, a prescindere da quello che comunemente è chiamato “stile pastorale” del Concilio, del quale parleremo più avanti.

         Al riguardo bisogna dire che qualunque testo letterario o giuridico, secolare o religioso, nel nostro caso appartenente agli insegnamenti della Chiesa cattolica, può offrire difficoltà interpretative. L’interpretazione autentica e sicura spetta all’Autorità che ha emanato il testo (direttiva, dottrina, insegnamento o legge). Una prima difficoltà interpretativa è data proprio dal fatto che i testi conciliari, benchè dotati in se stessi di valore giuridico, sono effettivamente espressi in uno stile pastorale che non fa emergere sempre con chiarezza tale forma giuridica.

         Occorre comunque rilevare che il Magistero della Chiesa, per la sua bimillenaria esperienza culturale, giuridica, dottrinale e pastorale, è dotato di un carisma speciale assicuratole dal divin Fondatore, per cui ha sempre avuto doti di chiarezza, semplicità e precisione nel suo linguaggio, sempre preoccupato com’è di farsi capire anche dai semplici e dagli indotti, come una saggia madre che parla al suo piccolo.

         La Chiesa, dovendo insegnare agli uomini i misteri trascendenti, che superano anche le più alte intelligenze, ha tuttavia, attingendo allo stesso linguaggio biblico, una straordinaria dote di spiegare tali misteri a tutti, benchè detti misteri comunque restino oscuri, per cui mancano le parole pienamente adeguate per esprimerli, anche se sono veraci ed appropriate. Questa però è una qualità dello stile giuridico: la legge o la verità devono essere comprese da tutti, anche se naturalmente ciò non esclude all’occorrenza la necessità dell’interpretazione.

         Chiediamoci adesso che cosa è in generale l’interpretazione. Essa è l’attività chiarificatrice del senso di un testo operata dall’interprete, che può essere interprete ufficiale, al fine di far comprendere il vero senso di un testo oscuro o dubbio. L’interprete non insegna nessun contenuto per conto proprio: deve solo far capire che cosa dice un dato testo, senza alterarne il senso. L’interpretazione, soprattutto in documenti di carattere religioso, morale o teologico, è compito delicato, riservato normalmente a persone qualificate o incaricate nei singoli ambiti.

         Nella letteratura religiosa, poetica, filosofica o giuridica l’interprete o critico privato può sbagliare. Si suppone tuttavia che valga l’interpretazione dell’Autorità o dell’Autore che ha pubblicato il documento o l’opera letteraria. Nel caso della Chiesa Cattolica, il Magistero, depositario del dato rivelato, è infallibile nell’interpretare le fonti della Rivelazione, che sono la Sacra Scrittura e la Sacra Tradizione, nonché i documenti emanati dal Magistero stesso di carattere dogmatico e morale. Neppure la Chiesa sbaglia quando condanna come eretica una certa dottrina. Il Magistero però può errare eccezionalmente nel campo giuridico, disciplinare, liturgico-cerimoniale e pastorale.

         Interprete normalmente qualificato degli insegnamenti del Magistero, quindi anche quelli del Concilio, è il teologo in comunione con lo stesso Magistero sotto la guida del Papa. Mentre il Magistero è l’ultima istanza, infallibile, dell’interpretazione delle dottrine di un Concilio ecumenico quale è stato il Vaticano II, l’interpretazione del teologo, per quanto autorevole e dotato di incarichi ufficiali, è fallibile.

         Un grave inconveniente che si è verificato a partire dal postconcilio sino ai nostri giorni è stato quello del sorgere di numerosi teologi, anche di fama e dotati di indubbie qualità, i quali, non essendo stati oggetto di una sufficiente vigilanza da parte dei Vescovi, hanno cominciato da una parte a ignorare, a contraddire e a falsificare l’interpretazione del Magistero e dall’altra ad assumere un atteggiamento di eccessiva autonomia dal medesimo, sino a proporsi audacemente in alcuni casi estremi come alternativa all’insegnamento episcopale e pontificio. E’ nato così quello che con dolore Paolo VI chiamò “magistero parallelo”, certo privo di qualunque carisma di infallibilità, al contrario degli insegnamenti del Magistero ufficiale, che è assistito, come si sa, dalla presenza dello Spirto Santo per esplicita promessa di Cristo.

         Sin dagli anni del postconcilio sono sorte così, tra i teologi e gli esegeti, due correnti di ermeneutica del Concilio, una autoproclamatasi “progressista” (nome di per sé innocuo), ma in realtà di orientamento modernista, la quale ha visto il Concilio come smentita della Tradizione del Magistero precedente e come assunzione globale e acritica della modernità (da qui il nome più appropriato di “modernismo”), sotto pretesto che uno degli scopi del Concilio era quello di far avanzare la conoscenza della Parola di Dio e della santità nella Chiesa (ecco il sano tradizionale progressismo cattolico), in un confronto con la modernità. Esponenti di spicco di tale corrente sono stati Rahner, Schillebeecxk e Küng, i teologi liberazionisti, nonchè l’altrettanto famoso Catechismo Olandese.

         Gli esponenti di questa corrente si fondano, come già il modernismo dei tempi di S.Pio X, su di una gnoseologia fenomenista, relativista, evoluzionista, storicista e soggettivista, che viene a rendere impossibile l’oggettività, immutabilità ed universalità dei concetti dogmatici, per cui viene smarrita o negata la continuità degli insegnamenti della Chiesa dal preconcilio al Concilio e quindi al postconcilio. E’ quella che il Papa chiama “esegesi di rottura”. L’idea del progresso, in sé giusta, è da questi modernisti falsificata secondo il modulo evoluzionista, per il quale il progresso comporta la smentita o la negazione di ciò che in precedenza era ritenuta verità. Dunque la verità di oggi è la negazione della verità di ieri. Essere moderni, essere aggiornati vuol dire respingere come superato e falso ciò che la Chiesa ha insegnato anche come dogma sino al momento del Concilio. Per costoro la verità comincia nel 1962. Prima c’è l’errore.

         Pei modernisti la Chiesa insegna sì un verità, ma solo legata al tempo ed all’attuale situazione storica, cambiata la quale, anche ciò che oggi è vero diventerà falso. La verità è solo nella modernità,  nel senso del momento presente, passato il quale il vero diventa falso e sorge un nuovo vero in contraddizione col precedente. E difatti i modernisti, passati ormai cinquant’anni dal Concilio, lo considerano ormai superato e sostituito dalla loro visione della fede, della Chiesa e del cristianesimo, che peraltro è un coacervo disordinato e sincretistico degli errori più disparati raccolti qua e là dalle diverse dottrine e religioni dell’umanità, antiche e moderne.

         L’altra corrente si è presentata come custode e propugnatrice della “Tradizione” contro le dottrine del Concilio giudicate infedeli alla “Tradizione”. Mi riferisco soprattutto all’ormai famoso Mons.Lefèbvre, il quale accusò le dottrine conciliari di essere inquinate di modernismo, sostenendo che esso aveva ceduto in particolare ai princìpi illuministici e razionalisti della Rivoluzione Francese, nonchè al naturalismo, indifferentismo, ed antropocentrismo del sec.XIX, dando come verità dottrine che in precedenza erano state condannate e falsificando l’immutabile deposito rivelato tradizionale della Chiesa. Per i lefevriani la Chiesa è stata nella verità fino al 1962. Da quella data essa ha deviato dalla Tradizione e i lefevriani si sentono il compito di riportarvela. I lefevriani non negano il primato dei Papi postconciliari e l’autorità del Concilio; tuttavia sostengono che si sono sbagliati.

         Se ci pensiamo, si tratta di accuse gravissime, che suppongono la negazione dell’infallibilità del Magistero conciliare, benchè in linea di principio non si neghi (come invece fanno i modernisti) l’immutabilità del dogma, del dato rivelato e di quello tradizionale.

         Tuttavia c’è la pretesa di vagliare e giudicare le dottrine del Concilio rifacendosi direttamente alla Tradizione, quasi a voler cogliere il Concilio in fallo, a voler “correggerlo” o a respingerlo una volta trovato sbagliato, “alla luce della Tradizione”, dimenticando che l’interpretazione della Tradizione spetta al Magistero della Chiesa ed emerge nello stesso Concilio, sommo testimone della Tradizione, il quale, come ha insegnato Paolo VI, ben lungi dall’aver tradito la Tradizione, l’ha fatta sviluppare, cioè ce l’ha fatta conoscere meglio in continuità col Magistero precedente.

         Discontinuità, contraddizioni, falsificazioni, ambiguità, incoerenze che possono apparire a tutta prima - ci insegnano i Papi del postconcilio - sono solo apparenti, per cui un esame più approfondito ed attento, un’esegesi del “progresso nella continuità”, è tale da renderci consapevoli della verità intangibile delle dottrine del Vaticano II.

         L’ermeneutica del Vaticano II richiede il riferimento ai tre gradi di autorevolezza delle dottrine del Magistero esposta nella Nota illustrativa della Formula conclusiva della Professio Fidei della Congregazione per la Dottrina della Fede in appendice alla Lettera Apostolica di Giovanni Paolo II “Ad tuendam fidem” del 18 maggio 1998.

         Atteso che il grado massimo di autorità del dato rivelato è la Parola stessa del divin Maestro contenuta nel Vangelo, riassunto nel Simbolo della Fede (il “Credo”), subito al di sotto di questa Parola c’è l’insegnamento della Chiesa, la quale, assistita dallo Spirito di Cristo, ci interpreta e ci trasmette infallibilmente il divino messaggio della salvezza ovvero il dato della Rivelazione contenuto nella Scrittura e nella Tradizione.

         Per comprendere esattamente quanto ciascuna delle dottrine del Concilio impegna la nostra adesione alla Parola di Dio mediata ed interpretata alla Chiesa, bisogna far riferimento a questi tre gradi di autorità delle dottrine della Chiesa. Si tratta sempre e comunque di dottrine assolutamente ed immutabilmente vere, quindi in tal senso “infallibili”, perché, iniziando dal grado di massima autorità, di fede teologale esplicita e dichiarata, abbiamo la dottrina detta “di fede definita”, quello che comunemente vien detto “dogma” (I grado). Quando il Magistero dà una definizione di questo tipo, si dice Magistero “solenne e straorinario”. “Solenne” vuol dire “insegnato con la forza massima dell’autorità”; straordinario vuol dire “insegnamento nuovo”. Nei gradi inferiori ci può essere novità, ma comunque meno autorità.    

         Al secondo grado abbiamo ciò che è implicitamente o indirettamente di fede, ossia la dottrina detta “prossima alla fede” o semplicemente “dottrina della Chiesa”, dottrina detta “definitiva ma non definita”, impegnante quindi non la fede teologale, ma la fede nell’infallibilità della Chiesa, detta anche “fede ecclesiastica”.

         Al terzo grado infine abbiamo dottrine che chiedono un’adesione detta “religioso ossequio della volontà”. in questo grado non c’è la certezza, ma  solo probabilità che la proposizione sia di fede. In un tempo successivo questa certezza potrà emergere e la dottrina potrà essere anche elevata alla dignità di dogma definito.

         Una questione importante che interessa l’ermeneutica del Concilio è qual è la natura dei contenuti teologici del Concilio. I Papi del postconcilio ci hanno spiegato e del resto ciò risulta evidente da una semplice lettura dei testi, che questi documenti riguardano i due rami fondamentali della teologia: la dogmatica e la morale. Una distinzione oggi frequente è quella fra l’elemento “dottrinale” e l’aspetto “pastorale”, dove qui per “pastorale” s’intende “morale”, in quanto il Concilio dà direttive ai Pastori su come e dove guidare il Gregge; ma, come vedremo più sotto, con questo termine si fa riferimento anche al linguaggio del Concilio.

         E’ sbagliata pertanto quella interpretazione del Concilio, diffusa tra i lefevriani, secondo la quale il Concilio sarebbe solo pastorale e non dottrinale, così da relativizzare le dottrine del Concilio e poterle liberamente contestare.

         La parte dottrinale o dogmatica non contiene nuovi dogmi definiti, quindi non riguarda il primo grado delle dottrine, se non per la ripresa di dogmi già definiti. Invece abbiamo novità, ossia esplicitazione o chiarimenti dottrinali con l’enunciazione di dottrine di secondo e di terzo grado. Indubbiamente però non è sempre facile, anche per gli esperti, stabilire quali sono di terzo e quali di secondo. Alcuni teologi sostengono che sono tutte del terzo, ma la discussione è aperta.

         Frattanto in questi cinquant’anni il Magistero ci ha fornito una gran quantità di documenti ed insegnamenti che ci aiutano a comprendere il valore e il senso delle dottrine del Concilio, sia soprattutto con documenti pontifici, che con interventi di Dicasteri Romani, soprattutto della Congregazione per la Dottrina della Fede (CDF), con la sua proposta della verità, accompagnata dalla confutazione degli errori. Strumenti ermeneutici preziosissimi sono nel loro rispettivo campo, il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC) e il nuovo Codice di Diritto Canonico (CDC). Compito prezioso è svolto anche dalla Commissione Teologica Internazionale (CTI), benchè essa non costituisca Magistero ma semplice consesso di esperti.

         Ci sono nel Concilio dottrine che ci fanno conoscere meglio certi aspetti della dogmatica, per esempio il concetto di Rivelazione, il rapporto Scrittura-Tradizione, la natura della liturgia, della Chiesa e dei ministeri ecclesiali, il rapporto Chiesa-mondo, i sacramenti, i misteri dell’escatologia, la mariologia. E vi sono altri contenuti che toccano la morale, come per esempio la prassi liturgica, i doveri del Papa, dei vescovi, dei presbiteri, dei diaconi, dei religiosi, dei laici, delle famiglie, dei politici, dei lavoratori, degli artisti, dei missionari, nonché le attività ecumeniche, il dialogo interreligioso e con i non-credenti, l’esercizio della libertà religiosa, ecc.

         Una questione importante che interessa l’ermeneutica del Concilio è evidentemente quella del linguaggio. Essa è strettamente legata alla qualifica di “pastorale” comunemente data al Concilio. Infatti essa può riferirsi a contenuti di carattere morale, concernente l’applicazione della teoria alla prassi, come ho detto sopra, ma può riferirsi anche al particolare tipo di linguaggio che il Concilio ha scelto di proposito per essere più comprensibile o favorevolmente accolto dal mondo d’oggi ed essere più efficace nella diffusione del Vangelo, dato che non dobbiamo assolutamente dimenticare che uno dei fini del Concilio è quello di avviare quella che oggi si chiama “nuova evangelizzazione”.

         In tal modo il Concilio, come ha tenuto in modo speciale ad avviare un rapporto costruttivo col mondo moderno nell’ambito dei contenuti, così ha cercato anche di usare un linguaggio moderno nel modo di esprimersi e di comunicare. Sta qui la cosiddetta “pastoralità” del linguaggio del Concilio in documenti, si badi bene non solo di carattere morale o di contenuto pastorale, il che è abbastanza comprensibile, ma anche in quelli di carattere dogmatico.

         Inoltre,  per “pastorale” del Concilio s’intendono le direttive pratiche su come avviare i rapporti col mondo moderno, a chi rivolgersi, cosa fare, come agire, come muoversi, come parlare, a cosa mirare, per quali motivi, supponendo che il “cosa dire” sia già scontato. Su questo piano la ricchezza delle indicazioni è molteplice.

         Ciò che è stato lamentato da varie parti e che oggi emerge sempre più chiaro è, nel Concilio, soprattutto per quanto riguarda le direttive date ai Pastori, un atteggiamento eccessivamente ottimistico ed in certo modo ingenuo nei confronti delle forze ostili alla Chiesa che tuttora sussistono e che non vengono affrontate con sufficienti energie di espansione e di difesa in nome di una misericordia che rischia di dimenticare la giustizia e l’elemento ascetico della vita cristiana.

         Curiosamente il Concilio non parla di “eresie”, non usa nemmeno la parola, benchè vi siano espressioni equivalenti. In realtà le eresie esistono anche oggi ed andrebbero condannate. Invece in molti è nata l’idea che quella che una volta si chiamava “eresia” era solo un diverso punto di vista che magari successivamente sarebbe stato approvato dalla Chiesa.

         Infatti i modernisti si sforzano di dimostrare con documenti male interpretati, con diffidenza verso quelli autentici e assenza di giusto criterio di valutazione, che molti di coloro che in passato la Chiesa ha condannato come eretici,  - le famose “vittime dell’Inquisizione” - oggi, dopo il Concilio, si è scoperto che avevano ragione - per esempio Lutero - e che erano dei “profeti”. Ma oggi sta sorgendo un’inquisizione modernista peggiore della precedente, se non altro perché almeno questa difendeva la verità, mentre questa difende l’eresia.

         Da qui è nato il ben noto fenomeno del “buonismo”, per il quale nella infondata convinzione che nessuno ha cattiva volontà, tutti siamo in grazia di Dio e tutti ci salviamo, ne consegue che tutto viene scusato e si tende a cadere in un cristianesimo fiacco e deresponsabilizzante. Quei pochi che contestano queste falsità vengono tacciati dai modernisti di essere “preconciliari” o sorpassati.

         A tal proposito alcuni canonisti hanno lamentato l’assenza dei tradizionali “canoni”, che un tempo davano chiarezza, inequivocabilità, sicurezza e precisione  alle disposizioni vincolanti e più importanti, con un salutare timore della pena. Invece il tono del linguaggio è troppo esortativo e troppo poco prescrittivo. Tutto sembra facoltativo e non è sempre facile sapere che cosa c’è di obbligatorio. Lo stesso linguaggio giuridico è quindi difettoso, perché caratteristica di questo linguaggio è invece il tono prescrittivo, tale da incutere il rispetto della legge o della verità.

         Il Vaticano II ha così di proposito rinunciato ad un vocabolario tradizionale di tipo scolastico-giuridico, che caratterizzò maggiormente certi Concili del passato, come per esempio il Concilio di Trento e il Vaticano I, per adottare il linguaggio corrente della cultura moderna: scelta indovinata, ma non priva di rischi, perché il linguaggio corrente della cultura moderna, è spesso equivoco a causa di soggiacenti errori dottrinali.

         Il Concilio ha voluto correre questo rischio. Certo il risultato è stato quello di un linguaggio accessibile al comune fedele, più comunicativo, più attraente, ma a volte troviamo espressioni non chiare, equivocabili, quindi assolutamente bisognose di una buona interpretazione. Ci si è dimenticati che anche il fedele deve saper apprendere il linguaggio della Chiesa. Va bene facilitargli le cose, ma anche lui deve fare lo sforzo di imparare.

         Il Magistero di questi cinquant’anni si è sforzato in vari modi, come abbiamo visto, di rimediare a questo difetto, e molto ha fatto. Ma il persistere, anche da parte di dotti e di esperti, di interpretazioni contrastanti, nonostante ogni buona volontà, circa certi insegnamenti, testimonia l’effettiva realtà di queste difficoltà, che vanno risolte. E chi in definitiva può farlo? Evidentemente il Magistero della Chiesa, sotto la guida del Papa, che per noi cattolici resta sempre il definitivo punto di riferimento per l’interpretazione autentica ed infallibile della Parola di Dio.
        
                                                        P.Giovanni Cavalcoli, OP

                                                                               Bologna, 6 novembre 2012
(Il grassetto è dell'Autore)


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