venerdì 12 ottobre 2012

Le cinque giornate "conciliari" del papa




Con sei interventi sul Vaticano II, a cinquant'anni dal via. A seguire, una nota di Pietro De Marco sul "paradigma esterno" che condiziona l'interpretazione e la recezione di quell'evento

di Sandro Magister


ROMA, 12 ottobre 2012 – Nei cinque giorni che hanno congiunto l'inizio del sinodo dei vescovi sulla nuova evangelizzazione all'apertura dell'anno della fede, Benedetto XVI è intervenuto sei volte sulla questione che nella Chiesa è la più controversa e scottante: il concilio Vaticano II.

Con accenti ogni volta diversi. E a tratti sorprendenti.


1. L'OMELIA DI DOMENICA 7 OTTOBRE


Nella messa d'inizio del sinodo, durante la quale ha annoverato tra i dottori della Chiesa san Giovanni d'Avila e santa Ildegarda di Bingen, il papa ha rimarcato che "una delle idee portanti del rinnovato impulso che il concilio Vaticano II ha dato all’evangelizzazione è quella della chiamata universale alla santità".

Sono i santi "i veri protagonisti dell’evangelizzazione". E ha proseguito:

"La santità non conosce barriere culturali, sociali, politiche, religiose. Il suo linguaggio – quello dell’amore e della verità – è comprensibile per tutti gli uomini di buona volontà e li avvicina a Gesù Cristo, fonte inesauribile di vita nuova".


2. LA "LECTIO DIVINA" DI LUNEDÌ 8 OTTOBRE


Nella riflessione che ha tenuto ai padri sinodali, dopo la recita dell'ora terza nella prima mattina dei lavori, Benedetto XVI ha insistito sul primato di Dio nel "fare" la Chiesa:

"Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Dio. La Chiesa non comincia con il 'fare' nostro, ma con il 'fare' e il 'parlare' di Dio. Così gli apostoli non hanno detto, dopo alcune assemblee: Adesso vogliamo creare una Chiesa, e con la forma di una costituente avrebbero elaborato una costituzione. No, hanno pregato e in preghiera hanno aspettato, perché sapevano che solo Dio stesso può creare la sua Chiesa. [...] Come in quel tempo solo con l’iniziativa di Dio poteva nascere la Chiesa, [...] così anche oggi solo Dio può cominciare; noi possiamo solo cooperare, ma l’inizio deve venire da Dio".

Traspare qui, nell'accenno polemico del papa a una "costituente", la sua critica all'identificazione fatta da alcuni tra il concilio Vaticano II e un'assemblea volta a dare alla Chiesa una "costituzione", in analogia con gli Stati.

Lo studioso che più ha sostenuto questa tesi, sia pure con tutte le cautele del caso, è Peter Hünermann, della facoltà teologica di Tubinga, curatore di un imponente commento teologico al concilio Vaticano II in cinque volumi editi da Herder.


3. L'UDIENZA GENERALE DI MERCOLEDÌ 10 OTTOBRE


Nell'udienza ai fedeli del 10 ottobre, papa Joseph Ratzinger ha ricordato che la convocazione del Vaticano II non fu mossa, come invece avvenne per altri concili, da errori di fede da correggere o da condannare, ma dal proposito di "presentare a questo nostro mondo, che tende ad allontanarsi da Dio, l’esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e in tutta la sua purezza".

In altre parole:

"La cosa importante oggi, proprio come era nel desiderio dei padri conciliari, è che si veda – di nuovo, con chiarezza – che Dio è presente, ci riguarda, ci risponde. E che, invece, quando manca la fede in Dio, crolla ciò che è essenziale, perché l’uomo perde la sua dignità profonda e ciò che rende grande la sua umanità".

Come bussola in questa navigazione, il papa addita i documenti del concilio, "a cui bisogna ritornare, liberandoli da una massa di pubblicazioni che spesso invece di farli conoscere li hanno nascosti".


4. LA PREFAZIONE AGLI SCRITTI SUL CONCILIO


"Fu una giornata splendida": così Benedetto XVI ricorda l'11 ottobre 1962, nella prefazione ai due volumi della sua "opera omnia" con gli scritti relativi al concilio Vaticano II, di imminente uscita in Germania.

Questa prefazione è stata anticipata da "L'Osservatore Romano" nel pomeriggio di mercoledì 10 ottobre. In essa il papa entra più che mai nel vivo della controversia.

Premesso che “Giovanni XXIII aveva convocato il concilio senza indicargli problemi concreti o programmi” e fu questa la sua “grandezza e al tempo stesso la difficoltà”, il papa scrive che c'era però "un'aspettativa generale".

E la riassume così, di nuovo riconoscendone i limiti:

"La Chiesa, che ancora in epoca barocca aveva, in senso lato, plasmato il mondo, a partire dal XIX secolo era entrata in modo sempre più evidente in un rapporto negativo con l’età moderna, solo allora pienamente iniziata. Le cose dovevano rimanere così? La Chiesa non poteva compiere un passo positivo nei tempi nuovi? Dietro l’espressione vaga ‘mondo di oggi’ vi è la questione del rapporto con l’età moderna. Per chiarirla sarebbe stato necessario definire meglio ciò che era essenziale e costitutivo dell’età moderna. Questo non è riuscito nello ‘Schema XIII’. Sebbene la costituzione pastorale esprima molte cose importanti per la comprensione del ‘mondo’ e dia rilevanti contributi sulla questione dell’etica cristiana, su questo punto non è riuscita a offrire un chiarimento sostanziale”.

Subito dopo questa nota critica alla "Gaudium et spes", il papa però così prosegue:

“Inaspettatamente, l’incontro con i grandi temi dell’età moderna non avvenne nella grande costituzione pastorale, bensì in due documenti minori, la cui importanza è emersa solo poco a poco con la recezione del concilio”.

I due documenti sono la dichiarazione “Dignitatis humanae” sulla libertà religiosa e la dichiarazione “Nostra aetate” sulle relazioni con le religioni non cristiane.

Riguardo alla "Dignitatis humane", Benedetto XVI ribadisce ciò che ha sostenuto più volte, anche contro le obiezioni dei lefebvriani e dei tradizionalisti. E cioè che il concilio ha sì contraddetto il magistero dei papi degli ultimi secoli, rivelatosi "insufficiente", ma per ritornare alla tradizione originaria, al principio della libertà religiosa portato dai primi cristiani nel mondo pagano dell'epoca.

Secondo Benedetto XVI è stato "certamente provvidenziale" che, dopo il concilio, vi sia stato un papa come Giovanni Paolo II, arrivato dalla Polonia comunista, cioè "da una situazione che assomigliava a quella della Chiesa antica, sicché divenne nuovamente visibile l’intimo ordinamento della fede al tema della libertà".

Quanto alla "Nostra aetate", Benedetto XVI scrive che "ha inaugurato un tema la cui importanza all’epoca non era ancora prevedibile”. Ma ne evidenzia anche il limite:

“Quale compito esso implichi, quanta fatica occorra ancora compiere per distinguere, chiarire e comprendere, appaiono sempre più evidenti. Nel processo di recezione attiva è via via emersa anche una debolezza di questo testo di per sé straordinario: esso parla della religione solo in modo positivo e ignora le forme malate e disturbate di religione, che dal punto di vista storico e teologico hanno un’ampia portata; per questo sin dall’inizio la fede cristiana è stata molto critica, sia verso l’interno sia verso l’esterno, nei confronti della religione”.


5. L'OMELIA DI GIOVEDÌ 11 OTTOBRE


Nella messa d'inizio dell'anno della fede il papa ha ribadito che la volontà dei padri conciliari era di "ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano".

Ma poi accadde che "invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del 'depositum fidei', che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità".

Se quindi oggi la Chiesa propone un anno della fede – ha proseguito – "non è per onorare una ricorrenza, ma perché ce n’è bisogno, ancor più che cinquant'anni fa".

In questi decenni è avanzata una "desertificazione" spirituale. "E nel deserto c’è bisogno soprattutto di persone di fede che, con la loro stessa vita, indicano la via verso la terra promessa e così tengono desta la speranza".

Quanto alle contrapposizioni, nell'interpretazione del concilio, tra spirito e lettera, tra continuità e rottura, il papa così si è espresso:

"Ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla 'lettera' del concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne anche l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità".


6. LA BENEDIZIONE DELLA SERA DELL'11 OTTOBRE


Infine, la sera di giovedì 11 ottobre, Benedetto XVI si è affacciato dalla finestra del suo studio, su una piazza San Pietro affollata e con miriadi di piccole luci, come la sera dell'11 ottobre 1962, giorno d'inizio del concilio.

E ha parlato a braccio. Così:

"Cinquant’anni fa in questo giorno anche io sono stato qui in piazza con lo sguardo verso questa finestra dove s’è affacciato il buon papa, il beato papa Giovanni, e ha parlato a noi con parole indimenticabili, parole piene di poesia, di bontà, parole del cuore. Eravamo felici, direi pieni di entusiasmo.

"Il grande concilio ecumenico era inaugurato. Eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste, una nuova presenza forte della grazia liberatrice del Vangelo.

"Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant'anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce sempre di nuovo in peccati personali che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. Abbiamo visto che nella rete di Pietro si trovano anche i pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con il vento contrario, con tempeste che minacciano la nave. E qualche volta abbiamo pensato: il Signore dov’è? ci ha dimenticato! Questa è una parte delle esperienze fatte in questi cinquant'anni.

"Ma abbiamo avuto anche la nuova esperienza della presenza del Signore, della sua bontà della sua forza. Il fuoco dello Spirito Santo, il fuoco di Cristo, non è fuoco divoratore, distruttivo. È un fuoco silenzioso, è una piccola fiamma di bontà, di bontà e di verità che trasforma, dà luce e calore.

"Abbiamo visto: il Signore non ci dimentica. Anche oggi, col suo modo umile, il Signore è presente e da calore ai cuori, mostra vita, crea carismi di bontà e di carità che illuminano il mondo e sono per noi garanzia della bontà di Dio.

"Sì, Cristo vive, è con noi anche oggi e possiamo essere felici anche oggi perchè la sua bontà non si spegne, è forte anche oggi. Alla fine oso fare mie le parole indimenticabili di papa Giovanni. Andate a casa date un bacio ai bambini e dite: è del papa. Con questo di tutto il cuore imparto la mia benedizione".

*

Fin qui gli interventi di Benedetto XVI sul concilio, nei giorni scorsi.

Ma prevedibilmente egli interverrà ancora più volte. In una discussione che si è fatta di nuovo molto accesa.

La discussione è vivace anche su che cosa fu realmente il concilio Vaticano II, mezzo secolo fa.

Dell'evento conciliare si è largamente imposta una lettura in cui hanno giocato un ruolo determinante gli osservatori esterni, a cominciare dai media.

Nella nota che segue, il professor Pietro De Marco sottopone a critica proprio questo "paradigma esterno" che ha così profondamente influenzato l'interpretazione e la recezione del concilio più mediatico della storia.

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IL CONCILIO E IL SUO PARADIGMA ESTERNO






di Pietro De Marco



Bernard Dumont, direttore della rivista francese "Catholica", l'ha di recente ribadito. Tutti i concili hanno sperimentato il gioco delle pressioni esterne da parte di forze politiche, di gruppi dissidenti, eccetera. Tuttavia il Vaticano II, anche su questo terreno, appare come un concilio speciale, unico.

Si è svolto nel momento in cui i mezzi di comunicazione di massa varcavano una soglia nuova, in cui l'arte della propaganda si dotava di nuovi strumenti tecnici. Lungi dal distanziarsi, gli attori di questo concilio – curia romana, vescovi, teologi e per primo Giovanni XXIII – sono entrati in questo gioco. Nel quale settori di punta della cultura laica dominante, sia "liberal" che marxista, si affiancavano a correnti interne alla Chiesa di tipo neomodernista.

Già durante il concilio, il centro d'informazione dell'episcopato olandese si è trasformato in gruppo di pressione, con il nome di "I-Doc", diretto da Gary McEoin e Leo Alting von Geusau. Successivamente, la rivista internazionale di teologia "Concilium" ha funzionato come base di una rete d'influenza estesa a tutta la Chiesa. L'università di Lovanio ha fatto da centro motore di quella che sarebbe diventata la teologia della liberazione. Insomma, una rete di "foyer" ideologici e di centri di irraggiamento ecclesiali ha imprigionato la Chiesa anche dopo il concilio, per almeno un quindicennio.

Tale imprigionamento – come una gabbia dorata e per molti un incantesimo irresistibile – si è in seguito indebolito. Ma solo col pontificato di Benedetto XVI, rotta questa gabbia, si è riaperto “il dibattito sull’essenziale del concilio, su testi ed eventi finalmente considerati in se stessi e non attraverso la loro costruzione mediatica”.


IL CONCILIO CONCEPITO DA FUORI


In effetti, la presa dei media e dell’opinione pubblica sul concilio Vaticano II nell’intero arco del suo svolgimento, compresi i mesi di attesa, è non solo un dato che nessuna ricostruzione storica può sottovalutare, come documenta il recentissimo volume di Federico Ruozzi, "Il concilio in diretta. Il Vaticano II e la televisione", edito dal Mulino. È anche una componente non eludibile della sua interpretazione.

Fu così fin da subito. Il "concilio oltre il concilio", fuori dell’aula e dei palazzi vaticani e romani dove vivevano e operavano i padri conciliari, venne esaltato dall'opinione progressista come la prova della sua immediata consentaneità al mondo. E questo giudizio si è solidificato nella storiografia. Anche la ricostruzione fatta da Alberto Melloni, in un libro del 2000, dell’interesse rivolto da ambasciate e cancellerie di tutto il mondo agli eventi romani dell'epoca insiste su questa appartenenza, e felice subalternità, del concilio alla storia.

Nulla di nuovo, se nel celebrare questa consentaneità con la storia non fosse implicito un paradosso rivelatore. Il rilievo del rapporto tra il concilio e la storia risiederebbe infatti, per molti giudizi di allora e di oggi, nell’influenza in sé positiva della storia e del mondo sul concilio, non viceversa.

Non va dimenticato che, per una serie di equivoci teoretici nascosti in fortunate formule del tipo “l’autonomia delle realtà terrene”, il mondo, più propriamente il "mondo storico", negli anni Sessanta, fu considerato portatore, in sé e per sé, di valore e di verità.

Si sosteneva che il mondo penetrava e cooperava in un concilio "aperto", nonostante le resistenze di settori della Chiesa e dei partiti di curia. Il mondo era visto agire dalla parte dello Spirito.

E questa osmosi con il mondo diventava criterio dell'interpretazione del concilio, divulgata con autorità, anche in anticipo e indipendentemente rispetto alle risoluzioni dell'assise dei vescovi.

Nei quattro anni del concilio, tra il 1962 e il 1965, si è dunque creato un dislivello, forse uno iato, tra le intenzioni e i contenuti dei diversi documenti conciliari, da un lato, e la loro anticipazione, descrizione e recezione pubblica dall'altro.

Nella lettura pubblica del concilio operarono congiuntamente:

a) l'ordinaria selezione giornalistica dei fatti, ossia di ciò che "fa notizia",
b) la costellazione dei "vaticanisti" cattolici, spesso prestigiosi,
c) il lavoro capillare dei centri di diffusione anzitutto intraecclesali e, di concerto, extraecclesiali.

Attraverso l’opera del giornalismo religioso ogni notizia del concilio si colora e si qualifica. Questo giornalismo specializzato finisce col dettare a tutti gli osservatori le regole di individuazione e costruzione di ciò che conta nel e del concilio.

Si costruisce così un paradigma conciliare esterno che si radica nel mondo dei media e si consolida a livello man mano più alto di riflessione: nell’articolo, nella conferenza, nel saggio di rivista specialistica, nel libro.

Questo paradigma, prodotto per il mondo e per effetto del mondo, diviene un vero e proprio canone ricostruttivo e interpretativo del concilio. E ognuno dei "foyer" internazionali, spesso in concorrenza tra loro, tenderà a darne una propria versione, sempre però entro un fronte comune.

Si è suggerita, per il rapporto tra concilio e quadro storico, l’analogia delle onde concentriche che, come in uno specchio d’acqua, dal concilio, unica sorgente, si allargano verso il mondo e dal mondo, non solo cattolico, ritornano al concilio come riflessi o echi del mondo.

Ma le sorgenti che producono movimento sono due opposte; ve n'è anche una esterna che tenta di penetrare con i propri impulsi fino ai padri. E non tutto si spegne sui margini perturbati del concilio.

Questo comporta, fuori di metafora, l’esistenza di una storia esogena del concilio, accanto alla sua storia interna e, in particolar modo, di cause esogene nella definizione della sua immagine e del suo "spirito".


LO SPIRITO CONTRO LA LETTERA


Anche quando nel dopoconcilio molti di quei "foyer" si estinguono o si trasformano, il paradigma esterno perdura con vita propria e si afferma nella letteratura teologica come nella divulgazione, nella pastorale come nelle tesi di dottorato delle facoltà teologiche.

Esso converge sostanzialmente con ciò che viene invocato, negli ambienti militanti, come “spirito del Concilio”.

Novità, discontinuità, futuro sono i significati prevalenti dello "spirito del concilio". La coincidenza col paradigma esterno è rivelatrice. Come la nozione di "spirito" evoca la distinzione-opposizione con la "lettera", così il paradigma esterno sceglie ciò che gli serve entro la "lettera" dei documenti conciliari. È canone a se stesso. Si perpetua come una narrazione funzionale alla "rivoluzione" conciliare.

Resta fondamentale, per riconoscere questa prassi, la categoria di "gnosi politica"’ elaborata da Eric Voegelin a partire dall’uso selettivo delle Sacre Scritture nel movimento puritano, ma comune ad ogni cultura rivoluzionaria come ad ogni fondamentalismo nel rapporto con i testi fondanti.

Rivelatrice è anche la terminologia che in saggi, convegni, grandi opere, caratterizza il paradigma generato dai media esterni al concilio. È la terminologia del discernere, del separare dal resto le "parti trainanti" o "portanti" del concilio, sia individuate nei documenti, opportunamente vagliati e purificati dai "compromessi", sia postulate come l'intenzione "vera" dei padri.

Il papato, alcuni episcopati, alcuni circoli teologici ed ecclesiastici si sono sempre tenuti fuori da questa gabbia. Roma l’ha contrastata, non senza difficoltà. Ma il paradigma esterno – sia pure in una versione indebolita o, per dirla con Zygmunt Bauman, allo stato liquido – condiziona ancora, dopo cinquant’anni, la recezione diffusa del Vaticano II.

Una delle costruzioni del paradigma esterno più sistematiche e longeve, forse perché più organizzate in termini di autopromozione, è quella di Hans Küng.


UN CASO EMBLEMATICO: LA "SCUOLA DI BOLOGNA"


Tra i centri che operano attorno al concilio, prima, durante e dopo il suo svolgimento, uno dei più attivi e influenti è l’Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, inizialmente denominato Centro di Documentazione.

Il successo di questo istituto è dipeso dall’aver offerto una forma dotta al paradigma esterno sopra descritto, tentando di mostrare, con piena convinzione e conforto di altre intelligenze, che tale paradigma è in realtà fondato nella storia interna e nei testi del concilio stesso.

Il coronamento di tale impegno sono stati i cinque volumi della "Storia del Concilio Vaticano II", pubblicata in prima edizione tra il 1995 e il 2001, tradotta in più lingue e divenuta opera di base in tutto il mondo.

È interessante rileggere come l'istituto bolognese è arrivato a tale sbocco.

Negli anni Sessanta i suoi studi facevano asse sul concilio di Trento, la riforma protestante, la riforma cattolica. Il nume tutelare era il tedesco Hubert Jedin, ma anche un grande storico laico italiano, Delio Cantimori. Il monastero di Monteveglio, attorno a don Giuseppe Dossetti, contribuiva alla riflessione dell’istituto, e vi era osmosi tra le ricerche storiche e gli studi patristici e storico-liturgici. La costellazione italiana ed europea di amici e colleghi era costituita da storici della teologia e della Chiesa, da esegeti, da patrologi. La guida dell'istituto, Giuseppe Alberigo, aveva l'ambizione di produrre ricerche di livello immediatamente internazionale, secondo le richieste che egli riteneva venissero alle scienze religiose dalla Chiesa universale.

Il disegno era di opporre la formula dell'istituto a quella delle facoltà ecclesiastiche, anzitutto quelle teologiche romane, con una competizione in programmi di formazione, in dotazione di libri, in temi e metodi di ricerca. La convinzione era di non essere inferiori a nessuno dei prestigiosi luoghi francesi, belgi, olandesi, tedeschi ove si faceva teologia. A Bologna la teologia era concepita come "sapere storico", praticando il quale ci si sentiva più avanti delle facoltà teologiche, con i loro insegnamenti manualistici e dottrinali.

Il cemento ideale del gruppo era certamente la riforma della Chiesa, ma con distacco rispetto alle forme militanti del dissenso cattolico degli anni Sessanta e Settanta. La "Chiesa dei poveri" propugnata in concilio dal cardinale Giacomo Lercaro, arcivescovo di Bologna, doveva nascere dalla sua riforma "in capite et membris", non dall'agitazione sociale e ideologica dei gruppi.

Il prestigio dell’istituto derivava, dunque, da un lavoro condotto in un solco "ortodosso" e destinato a un esteso movimento e sentimento conciliare presente anche nelle gerarchie della Chiesa.

Perché allora questa espressione dotta, tra le più agguerrite ma anche cauta (almeno fino agli anni Novanta), dello "spirito del concilio" appare oggi così eccentrica rispetto alla ricerca del paradigma conciliare originario aperta nella Chiesa da Benedetto XVI?

Offre forse una risposta a questa domanda il decadere, di decennio in decennio, dei programmi di ricerca dell'istituto, da quelli "tridentini" degli anni Sessanta a quelli attuali, dopo aver bloccato per lungo tempo il lavoro sulla "Storia del Concilio Vaticano II", preziosa ma tutta predefinita nei risultati. Questa "Storia" è infatti il monumento scientifico al paradigma conciliare esterno, già costruito da tempo.

Ma oggi quel paradigma è in piena involuzione. È palese la sua banalizzazione e liquidificazione, tra ceti "teologici" improvvisati. E i membri odierni dell'istituto bolognese, più polemici e antiromani, più antidogmatici e spiritualisti di quanto non fosse la generazione dei maestri, sembrano non sapersi opporre a questa decadenza oggettiva.

Oggi il lavoro storiografico dell’istituto resta utile come ogni lavoro accademico, ma non è più organico a niente di solido. Serve, involontariamente, all'animazione a distanza di un clero e di un laicato che non leggono e non saprebbero come usare il lavoro prodotto dall’istituto. Simile sorte pare toccare anche ad altri centri europei.


OLTRE IL PARADIGMA ESTERNO


La via d'uscita mi pare obbligata. L’ermeneutica del concilio deve mostrarsi capace di una svolta di metodo, di una rigorosa messa tra parentesi del paradigma esterno, tipico prodotto di un fronte di intellettuali teologi venato di utopia rivoluzionaria e permeabile al modernismo latente nella cultura religiosa europea. Una mescolanza che ha generato una crisi tremenda nella Chiesa degli anni Settanta e successivi.

L'equilibrio conciliare vero, quello "interno", ha obbedito sempre, in ultima istanza, ad una logica di composizione tra i fondamenti, cioè la Tradizione, e le regole di una loro trascrizione comunicativa per "l'uomo d'oggi". I risultati furono di diversa portata, ma voluti in coscienza dai vescovi del mondo.

Questa adattazione dei fondamenti alle attese di una recezione produsse testi spesso duramente negoziati, ma quei testi e l'intenzione dell'intero corpo conciliare, assieme al papa, costituiscono il terreno e l’oggetto dell’ermeneutica del Vaticano II. Non ciò che un’intelligencija ambiziosa strappò dalle mani dei vescovi per esibirne i brandelli nella vetrina della modernità.

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Pietro De Marco insegna all'università di Firenze e alla facoltà teologica dell'Italia centrale. Ha fatto parte del cenacolo di studiosi dell'Istituto per le Scienze Religiose di Bologna, negli anni iniziali.

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