martedì 8 maggio 2012

La Divina Liturgia





Interventi del Vescovo di Albenga-Imperia alla “Tre giorni del Clero” (18-20 settembre 2007)

di S.E. Mons. Mario Oliveri




L’IMMUTABILE NATURA DELLA LITURGIA

Il mio discorso consisterà nell’esposizione di alcuni principi che vogliono essere guida per vivere e far vivere la Liturgia in modo giusto, degno e fruttuoso. Quando si parla di principi, si può essere tentati di abbreviare il discorso per giungere subito alle applicazioni pratiche o ai modi concreti di applicazione. Il discorso sui principi va invece sempre fatto con grande cura ed attenzione, ed essi vanno costantemente tenuti presenti durante il procedimento della loro pratica applicazione. Tema del mio intervento è “L’immutabile natura della Liturgia”; esso mi permette di parlare della realtà intrinseca, della sostanza della Liturgia. La definizione di Liturgia farà immediatamente comprendere perché il contenuto delle azioni liturgiche è immutabile, ed illuminerà in pari tempo sul valore e sull’importanza delle forme portatrici del contenuto, e su che cosa - sul piano delle forme ed espressioni - può, e talvolta deve, essere cambiato nella Liturgia.




REALTÀ INTANGIBILI, FORME MUTEVOLI

Dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II si è vissuto un periodo di numerosi cambiamenti, molti dei quali - sia perché non spiegati a sufficienza o nel modo dovuto, sia perché non compresi talvolta nella loro reale entità e finalità - hanno finito per generare in non pochi l’idea che si sia cambiata la sostanza delle azioni liturgiche, anche là dove cambiamento non ci può essere. A quanto detto sta sottinteso che nella Chiesa ci sono realtà sostanziali, intangibili, immutabili, e ci sono cose mutevoli, accidentali, di forma. In termini filosofici si direbbe: c’è la sostanza e ci sono gli accidenti. La sostanza non può mutare, gli accidenti cambiano. Il pericolo è che cambiando forme e accidenti si dia l’impressione che cambia la sostanza. Così è anche per la Liturgia. Pertanto, in tempi di forti cambiamenti di forme, di espressioni, di realtà accidentali - contingenti, è utile fissare lo sguardo, soprattutto sulla sostanza, sul contenuto delle forme ed espressioni, per non essere fuorviati nel nostro giudizio e nella nostra piena e fedele partecipazione alla vita della Chiesa. Ciò invita anche ad essere estremamente prudenti quando si ha a che fare con forme, segni, gesti, parole portatrici di un contenuto soprannaturale, divino.




AZIONE DI CRISTO E DELLA CHIESA

Che cos’è la Liturgia, la sua vera natura, la realtà sostanziale e profonda di essa? Il Concilio Vaticano II, sul solco naturalmente di precedenti documenti del Magistero e della Tradizione della Chiesa, afferma: “Giustamente... la Liturgia è ritenuta l’esercizio del Sacerdozio di Gesù Cristo; in essa, per mezzo di segni sensibili viene significata e, in modo ad essi proprio, realizzata la santificazione dell’uomo, e viene esercitato dal Corpo Mistico di Gesù Cristo, cioè dal Capo e dalle sue membra, il culto pubblico integrale. Perciò ogni celebrazione liturgica, in quanto opera di Cristo Sacerdote e del suo Corpo, che è la Chiesa, è azione sacra per eccellenza e nessun’altra azione della Chiesa, allo stesso titolo ed allo stesso grado, ne uguaglia l’efficacia” (Sacrosanctum Concilium, n.7).
Dunque, la Liturgia è l’esercizio, nello spazio e nel tempo, del Sacerdozio di Cristo, Verbo di Dio Incarnato, Mediatore della Nuova, Unica ed Eterna Alleanza; è la realizzazione, nello spazio e nel tempo, attraverso segni appropriati, dell’azione umano-divina di Cristo Mediatore, affinché sia continuamente attuale l’opera della Redenzione, a Gloria della Trinità Santissima. È opera di Cristo, ed è perciò al tempo stesso opera di tutta la Chiesa, poiché Cristo è il Capo e il Signore del suo Corpo Mistico, che è la Chiesa. È azione sacra per eccellenza, è azione soprannaturale; non è, nella sua realtà sostanziale attività che si colloca nell’ordine della natura; si pone a livello della Grazia, a livello dell’intervento speciale, assolutamente libero e gratuito, di Dio, a livello di Mistero. Le azioni che ivi si compiono, quantunque esternamente, per molti aspetti, sembrino identiche ad altre azioni che si compiono nella vita profana, acquistano invece nuovo significato, nuovo valore e nuova realtà, e producono nuovi effetti. Sono infatti segni sensibili che, assunti come strumento dal Verbo di Dio Incarnato, hanno il potere di produrre ciò che significano.

La Liturgia, lo si deduce immediatamente, è quindi per sua natura sacramentale, in senso globale, non nel senso che tutta la Liturgia sia un sacramento strettamente parlando, ma nel senso che tutte le azioni liturgiche veramente tali ricevono la loro efficacia dal “Magnum Sacramentum”, che è l’Umanità del Verbo di Dio Incarnato. È ovvio, peraltro, che tutti i Sacramenti sono azione liturgica per eccellenza, e lo è in modo particolare la celebrazione sacramentale del Divin Sacrificio di Cristo, che offre Se stesso al Padre in supremo atto di obbedienza, di ringraziamento, di espiazione e di propiziazione. È ancora il Concilio Vaticano II che afferma solennemente: “Sul Sacrificio di Cristo e sui Sacramenti si impernia tutta la vita liturgica della Chiesa” (S.C. n.6). È nel Sacrificio di Cristo, sacramentalmente ri-presentato, ed è nei Sacramenti che si attua, nello spazio e nel tempo, l’opera della salvezza, che la Chiesa annuncia con la predicazione della Parola di Dio e con tutta se stessa.

Un’altra conseguenza deriva dal fatto che la Liturgia è l’esercizio, per mezzo di segni sensibili, del Sacerdozio di Cristo, nella continua realtà della Chiesa, nella continuità del tempo e nello spazio: la Liturgia è per sua natura ministeriale. Ciò significa che non si può avere vera e propria azione liturgica senza Ministro e senza stretto ed indissolubile legame con la natura ministeriale di tutta la Chiesa. È attraverso l’azione ministeriale che quello che si compie nella Liturgia diventa esercizio del Sacerdozio di Cristo. Perché si abbia vera azione liturgica c’è bisogno di chi sia capace di agire come ministro di Cristo, “in persona Christi et Ecclesiae”. Ora, sappiamo che la “capacitas agendi in persona Christi et Ecclesiae” non si realizza senza Ordinazione sacra, senza Ordinazione Sacramentale, e senza un autentico inserimento nel solco della vera e reale Successione Apostolica. Il Ministro, quindi, della Sacra Liturgia agisce in forza della potestà sacra ministeriale che gli deriva dalla ontologica-sacramentale conformazione a Cristo Sacerdote-Mediatore-Verbo Incarnato, e dalla comunione gerarchica.

Di qui nascono delle conseguenze pratiche di fondamentale importanza, di cui dirò in seguito, menzionando l’Autorità competente in materia liturgica. Si tratterà di competenza in cose di origine ecclesiastica, non di origine rivelata, si parlerà di competenza sul piano della forma e non della sostanza, perché in questo ambito la competenza di chiunque si riduce ad assicurare l’autentico collegamento alla volontà di Cristo ed alla Tradizione Apostolica.
Ritengo ancora opportuno insistere nel ricordare che la Liturgia nella sua essenza è azione di Cristo, ed è azione di tutta la Chiesa proprio perché è azione di Cristo, non viceversa. Se Cristo Capo e Signore agisce, tutta la Chiesa agisce, tutto il Corpo Mistico agisce, certamente in maniera misteriosa, ma reale; certamente in maniera non constatabile, seppure attraverso realtà sensibili, ma reale. È questione di fede, ovviamente.




LA LITURGIA COME INIZIATIVA DI DIO E RISPOSTA DELL’UOMO

Una riflessione a questo punto si impone. Tutto ciò che può offuscare la vera natura della Liturgia; tutto ciò che può far ingenerare la falsa idea che l’azione liturgica è azione della comunità particolare che si raduna; tutto ciò che può portare a far pensare che l’azione liturgica è semplicemente umana, efficace solamente nella misura in cui muove i sentimenti, ed esprime e colma certi bisogni contingenti della persona umana nell’ordine sociale; tutto ciò che diminuisce od offusca l’immediata percettibilità del carattere e della natura sacra di ogni autentica azione liturgica; tutto ciò che sminuisce o altera il ruolo del Ministro sacro, facendolo assomigliare a quello di un animatore o di una guida di assemblea; ebbene tutto questo è da evitare con la massima attenzione, perché è contro la natura della Chiesa, corrompe la sacralità della celebrazione dei divini misteri, mette in pericolo il cuore, la radice, la fonte della missione della Chiesa.

C’è oggi, ed in qualche modo - più o meno - c’è sempre stata all’interno della vita della Chiesa, una tendenza a sottolineare, in maniera non giusta e certamente esagerata, la parte che l’uomo può giocare di sua iniziativa nell’ambito delle realtà sacre, nell’ambito della Redenzione, sul piano della Grazia. È la tendenza pelagiana, secondo la quale è messo appunto sempre in evidenza quello che l’uomo fa, la sua azione, il suo impegno, le sue realizzazioni. L’azione dell’uomo diventa meritoria dell’intervento divino! Su tale strada si arriva facilmente all’eresia dell’azione, e tutto lo sforzo dell’attività pastorale è rivolto a spingere il cristiano a fare, a fare sempre in modo nuovo, a trasformare in continuità ogni cosa. L’uomo diventa il creatore (di tutto,) del suo bene, della sua felicità, del suo futuro destino, ecc... L’uomo diventa il centro (antropocentrismo, antropologismo...).
Il pelagianesimo, nelle sue varie gradazioni, è sempre un pericolo per la vita della Chiesa (anche quando non si parla quasi mai della Grazia, anche quando non si conosce quasi per nulla il contesto nel quale è nato ed ha avuto acuta manifestazione). Se la mentalità pelagiana viene applicata alla Liturgia, si arriva ad insistere di più e a dare più importanza all’azione esteriore che l’uomo ivi compie, che a quello che Cristo compie attraverso l’azione ministeriale strumentale di chi è stato da Lui reso capace di agire “in persona Christi et Ecclesiae”, attraverso la Parola che è annunciata, attraverso i segni che sono compiuti. Si arriva a dimenticare che quello che conta è l’azione divina, dello Spirito, della Grazia, non quella dell’uomo, sia esso il singolo fedele, la comunità o lo stesso Ministro (questi infatti agisce - come si è detto - “in persona Christi et Ecclesiae”).




ASCOLTO E ACCOGLIENZA COOPERAZIONE CON LA GRAZIA DIVINA

La prima, ed essenziale attitudine di chi partecipa all’azione liturgica è quella dell’ascolto, dell’aprirsi, del ricevere, non quella del fare; di ricevere la Grazia di Dio; quello che Lui vuole operare in noi; la trasformazione della mente e del cuore; la redenzione, l’elevazione e la santificazione del nostro essere, di modo che in Cristo diventiamo capaci di adorare Dio come si conviene, di offrirGli il culto a Lui gradito, di riconoscere il suo assoluto dominio ed il suo infinito Amore, di riconoscere i nostri peccati, la nostra reale miseria ed indegnità, il nostro radicale bisogno di Misericordia e di Perdono. Di tutto questo l’uomo è incapace, se non è reso capace da Dio; è incapace per i limiti della sua stessa natura, e perché è ferito, malato, colpito dal peccato. Tutti i suoi sforzi, se sono soltanto suoi, sono vani, non possono raggiungere un fine che è al di sopra delle sue capacità.

È ovvio che ricevere non significa restare passivi, non significa restare disinteressati a quanto avviene; ma la partecipazione che conta è quella interiore; partecipare significa cooperare (perché resi capaci di farlo) con la Grazia di Dio e tale cooperazione può essere suscitata in noi in molti modi, con tanti segni e parole, con appropriate azioni e simboli; ma è certo che l’attività esterna, per quanto grande possa essere e magari anche crescere ogni domenica ed ogni giorno, non è quella che basta per poter parlare di vera partecipazione all’azione liturgica. L’adunarsi insieme per la celebrazione della Sacra Liturgia non è (e nulla deve farlo pensare) un buon incontro sociale, un momento felice ed interessante, per sentirci più buoni, più socialmente uniti nel combattere i mali e le ingiustizie che sono nel mondo, per incitarci ad opere di bene, e così via... Tutto questo ed altro può e deve anche derivare, come conseguenza, dall’azione liturgica; ma questa ha come suo fine specifico quello di compiere ben di più ed altro, deve realizzare qualcosa che sorpassa tutto ciò che l’uomo può compiere e sperare di fare, deve far diventare partecipi del Mistero dell’Incarnazione del Verbo di Dio, del Mistero della sua Morte e Risurrezione, affinché in Lui, in Cristo, possiamo compiere tutto quello che comporta l’essere un Sacerdozio santo: avere accesso a Dio: Padre, Figlio, Spirito Santo; conoscerLo, adorarLo, ringraziarLo, amarLo, servirLo; possedere la sua stessa vita e vivere con tutto il nostro essere orientati al momento quando il nostro ingresso nella vita trinitaria sarà completo, e noi contempleremo Dio faccia a faccia.

Di fronte a tali realtà che cosa può fare l’uomo se non ricevere, se non accettare e quindi cooperare nel più profondo del suo animo con l’azione gratuita e misericordiosa di Dio? Il pericolo della desacralizzazione, della “umanizzazione” della Liturgia (di trattarla e di viverla come realtà non sacra, non soprannaturale, soltanto umana) è un pericolo reale (è stato rilevato da un documento della Santa Sede, al quale farò riferimento in seguito), e va di pari passo con l’offuscamento o la perdita del senso del soprannaturale e con il tentativo di razionalizzare tutto e di ridurre tutto alla portata dell’uomo, alla portata della sua immediata comprensione e delle sue capacità naturali.




AMARE COME DIO AMA

Spesso si ragiona in termini di cose di questo mondo, non in termini di fede, non in termini di vita nuova, di vita divina, di vita eterna. Si discorre quasi continuamente dell’uomo e della sua vita in questo mondo, del suo futuro terreno, della sua condizione terrena, dell’organizzazione della sua vita in questo mondo (“antropocentrismo”, “antropologismo”). Si parla troppo poco di Dio, della Trinità, di Gesù Cristo, dell’Assoluto, delle verità eterne, della vita eterna, della diversa sorte finale di chi avrà amato come Dio ama e di chi non avrà amato come Dio ama. Si parla continuamente dei diritti e dei doveri sociali dell’uomo, senza fondarli con sufficiente chiarezza nei doveri radicali che l’uomo ha verso Dio, che la creatura ha verso il Creatore.

È troppo evidente che non si può accedere e partecipare alla Liturgia, comprenderla nel suo significato e natura, coglierne i frutti spirituali e soprannaturali, senza la fede. La fede è il primo dono di Dio; non è possibile giustificazione senza la fede; possesso della Grazia redentrice e santificante senza la fede. Ed è proprio per questa ragione che il Concilio Vaticano II, mentre ha detto e ripetuto che “La Liturgia è il culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana la sua virtù” (“virtus”, nel senso di capacità di azione), ha ricordato anche che la Liturgia non abbraccia tutta l’attività della Chiesa.

La predicazione della Fede, l’annuncio, la catechesi, infatti, non avvengono soltanto nella Liturgia e mediante la Liturgia. La fruttuosa e piena partecipazione all’azione liturgica esige la fede e la conversione. Ma è anche vero che è nella Liturgia e mediante la Liturgia che la fede si nutre, si corrobora, si fortifica, e quindi conduce alla perfetta adorazione, in Cristo, del Padre, della Trinità Santissima; e quindi porta alla piena adesione alla Divina Volontà, all’Amore di Dio; e quindi il fedele diventa capace di vivere in pienezza le virtù della fede, della speranza e della carità.

Né va dimenticato che il Sacramento del Battesimo - che inserisce nel Mistero della Morte e della Risurrezione di Cristo - liberando dal peccato e generando a vita nuova dà la “capacitas” soprannaturale “credendi, sperandi et amandi”. Ed inoltre deve effettivamente tenersi presente che dal Mistero Eucaristico la Chiesa trae tutta la sua forza di Evangelizzazione e di Carità. Non è pertanto possibile una vera vita cristiana senza partecipazione alla celebrazione dei Divini Misteri, che la Chiesa incessantemente celebra, o meglio - che Cristo incessantemente compie associando a Sé tutta la Chiesa, suo Corpo Mistico.




AUTORITÀ COMPETENTE IN MATERIA LITURGICA NELLA VARIAZIONE DELLE SUE FORME E RITI

Avendo detto della natura e dei fini della Liturgia, si possono facilmente compiere alcune considerazioni sull’Autorità competente in materia liturgica e su che cosa possa, o talvolta debba, essere mutato in tale campo. Poiché la Liturgia nella sua vera natura è azione di Cristo, è azione sacra per eccellenza, soprannaturale, umano-divina, le realtà umane, i segni, le parole, i gesti, i riti, tutto ciò che di umano c’è nella Sacra Liturgia è assunto come strumento di operazioni e di azioni soprannaturali, e pertanto non può e non deve mai essere trattato come si trattano le realtà profane.

Tutto deve chiaramente indicare la natura sacra-soprannaturale della Liturgia; tutto deve condurre all’idea che si celebrano i Divini Misteri, e pertanto tutte le azioni, gesti e parole sono strumento della Grazia Divina, dello Spirito Santo, per operare le “mirabilia Dei”. Nessuna Autorità ha il diritto ed il potere di toccare o cambiare il contenuto immutabile delle azioni liturgiche; tale contenuto dipende da Cristo, Figlio di Dio Incarnato; soltanto Lui può dare forza redentiva e santificante a delle realtà sensibili e visibili; il contenuto della Liturgia è la Grazia di Dio, è la partecipazione alla vita di Dio; è la partecipazione al Mistero della Redenzione operata dall’Incarnazione del Verbo di Dio, dalla Morte del Figlio di Dio sulla Croce e della sua Risurrezione.

Voler toccare il contenuto della Liturgia significherebbe negare o tentare di sconvolgere il disegno di Dio per la salvezza dell’uomo. È nella Liturgia che l’essere dell’uomo è trasformato, diventa nuovo, ed anche la sua capacità di agire viene quindi trasformata; è l’essere nuovo che rende capaci di adorare Dio, di riconoscere il suo assoluto dominio ed il suo amore, di sottomettersi a Lui con tutta la mente e con tutto il cuore - come ha fatto Cristo sulla Croce - di desiderarLo, di amarLo, di entrare definitivamente in comunione con Lui nella vita eterna.

Se il contenuto della Liturgia è immutabile, e lo è nel modo più assoluto, la forza e le espressioni portatrici di tale contenuto non lo sono nello stesso modo e nella stessa misura. Occorre intanto fare distinzione tra i segni, gesti e parole che provengono dalla Rivelazione, da Cristo stesso e dalla Tradizione Apostolica (come per es. il pane di frumento ed il vino d’uva per la celebrazione del Sacrificio della Messa; l’acqua per il Battesimo, ecc...), e quelli che sono invece frutto della elaborazione storica della vita della Chiesa. La prima categoria di segni, parole, ecc... è data alla chiesa, la seconda è determinata dalla Chiesa. Sulla prima categoria la Chiesa non ha potere di disporre: essa, sia Gerarchia sia fedeli, ha il dovere di riceverli con fede e venerazione, di conservarli intatti religiosissimamente, di proteggerli con opportuna legislazione e con costante vigilanza. Voglio richiamare un antichissimo testo dei primi secoli della Chiesa, contenuto nell’“Indiculus”, o Capitoli antipelagiani, annessi alla Lettera “Apostolici Verba”, indirizzata dal Papa Celestino I, nel Maggio 431, ai Vescovi della Gallia: “Obsecrationum quoque sacerdotalium sacramenta respiciamus, quae ab Apostolis tradita in toto mundo atque in omni Ecclesia catholica uniformiter celebrantur, ut legem credendi lex statuat supplicandi. Cum enim sanctarum plebium praesules mandata sibimet legatione fungantur, apud divinam clementiam humani generis agunt causam, et tota secum Ecclesia congemiscente, postulant et precantur”. “Consideriamo con doverosa attenzione le realtà sacre delle preghiere
sacerdotali, le quali trasmesse e consegnate dagli Apostoli si celebrano in modo uniforme in tutto il mondo ed in ogni Chiesa cattolica, affinchè le norme del culto (o regole della Preghiera della Chiesa) indichino e determinino la regola della Fede. Quando infatti coloro che presiedono alle sante comunità dei fedeli esercitano l’ufficio di legazione loro affidato, essi perorano la causa dell’intero genere umano presso la Divina Misericordia, e - in unione con tutta la Chiesa che con loro implora gemendo - innalzano suppliche e preghiere”.

Dunque: si crede come si prega; si crede come si celebra; la Liturgia esprime e determina la Fede della Chiesa. Mutamenti radicali nella Liturgia, e nel come si celebra, comporterebbero inevitabilmente conseguenze sul piano della Fede. Pertanto, non solamente non si può mutare il divino contenuto della Sacra Liturgia, ma neppure si possono toccare le forme esterne che provengono dalla Rivelazione, da Cristo e dalla Tradizione Apostolica, e che quindi sono inscindibilmente connesse, per divina volontà, col contenuto stesso della Liturgia, col contenuto stesso dell’Opera Divina dell’Incarnazione e della Redenzione. Che cosa invece nella Liturgia, con massima prudenza ed attenzione, da chi ne ha la “sacra potestas”, può - e talvolta deve - essere mutato, in ciò che è stabilito dalla Chiesa? Qual’è il criterio che deve regolare il cambiamento?

Se qualcosa (segni, gesti, parole, riti, formule, ecc.. che non rientrino nella categoria menzionata sopra) non è più atto od è meno atto a condurre i fedeli alla comprensione autentica delle divine realtà immutabili che avvengono nella celebrazione della Liturgia, va convenientemente cambiato, ordinandolo in modo che sia ora adatto, o meglio adatto ad indicare che cosa si realizza nelle sacre celebrazioni. Questo principio permette di comprendere la grande e delicata opera di “rinnovamento” liturgico intrapresa dal Concilio Vaticano II; permette di capire perché nel corso della storia della Chiesa alcune forme esterne di culto sono state modificate, ed altresì perché alcuni segni, gesti e simboli possano essere diversi in diversi luoghi od in diverse Chiese locali, nell’Oriente e nell’occidente, senza guastare il contenuto della Sacra Liturgia.

A chi spetta determinare che cosa appartiene al deposito immutabile delle forme liturgiche e stabilire quali nuove forme possono essere assunte in quegli aspetti dove il cambiamento è possibile? Per rispondere occorre riferirsi alla natura della Liturgia ed alla natura stessa della Chiesa. Spetta in definitiva a chi nella Chiesa può garantire la successione Apostolica, a chi ha la capacitas - generata e sostenuta dallo Spirito di Dio - di formare, di leggere e di interpretare il “sensus fidelium”; a chi ha ricevuto la potestà ed il mandato di far sì che nella Chiesa di Cristo si realizzi, nella continuità del tempo e nello spazio, l’Opera della Redenzione, si conservi integra la Divina Rivelazione, l’umanità intera sia redenta e santificata. Spetta a coloro che per divina capacità sacramentale possono agire, nel solco della Tradizione e della legittima Successione Apostolica, “in persona Christi et Ecclesiae”. Se altri lo fanno, la loro azione non solamente è illegittima, ma è anche vana e nulla, perché essi mancano della capacità autentica di farlo, creano confusione, mettono in pericolo il valore delle celebrazioni e la fede stessa della Chiesa.

Questa “capacità”, che agisce e si manifesta sia sul piano della celebrazione dei Divini Misteri, sia sul piano dell’insegnamento, sia sul piano della legislazione e del governo, non deriva, a chi la detiene, da una deputazione della comunità, da una “commissio” umana, da un atto estrinseco di elezione, da un consenso generale o da qualcosa di simile; deriva radicalmente dal Sacramento dell’Ordine e dalla legittima Successione Apostolica. Senza queste realtà ben precise e ben determinate non si può diventare Ministri della Chiesa, non si può diventare capaci di celebrare i Misteri di Dio; non si può esercitare il culto pubblico della Chiesa intera; non si può operare sacramentalmente la redenzione e la santificazione dell’uomo; non si può interpretare la sapienza comune dei fedeli, il “sensus fidelium”, il “sentire” soprannaturale dell’insieme dei fedeli.

Non spetta dunque al sacerdote singolo, né a gruppi di Sacerdoti, né a comunità cristiane particolari; non spetta neppure ai singoli Vescovi o a gruppi di Vescovi cambiare, mutare, determinare ciò che concerne le regole del culto pubblico. I singoli Vescovi, o gruppi di Vescovi, o Conferenze Episcopali, non rappresentano tutta la Chiesa; essi la rappresentano quando sono ed agiscono tutti uniti in comunione col Vescovo della Sede di Pietro. Ed è precisamente il Successore di Pietro che, come tale, ha la “capacitas”, che gli deriva per divina volontà, di rappresentare “et personam gerere totius Ecclesiae”. Il ricordare che è grave introdurre nella Liturgia cambiamenti non permessi non significa scoraggiare di fare buon uso, saggio e prudente uso, degli adattamenti contemplati dalle norme generali o dalle norme particolari; tanto meno significa scoraggiare una attiva ed attenta preparazione; anzi: nulla deve essere lasciato all’improvvisazione, alla fretta, all’approssimazione. Non significa neppure voler essere sordi al “sensus fidelium”, quando esso è davvero tale e giustamente letto ed interpretato da chi ha la “capacitas” per farlo.
Non v’è dubbio che il rinnovamento liturgico voluto dal Vaticano II ha come scopo una migliore partecipazione interiore dei fedeli; un migliore raggiungimento dei fini propri della Liturgia; ed a tale scopo ha disposto alcuni mutamenti da introdursi, con adeguata preparazione, nelle forme liturgiche, nelle celebrazioni liturgiche, in quelle cose che rientrano nella “potestas” della Chiesa.

Ma è sempre reale il pericolo di dare più importanza alle cose che cambiano che a quelle che non mutano, né possono mutare. Come reale è il pericolo di un “incrinamento della sacralità della Liturgia, indulgendo a forme che ne alterano il significato e la sostanza”. In una Lettera inviata nel 1981 alla 32ma Settimana Liturgica Nazionale, la Santa Sede rilevava tra l’altro: “Non ci si può nascondere che il genuino orientamento conciliare è stato spesso disatteso, con atteggiamenti dottrinali e pratici in contrasto con i principi e le direttive della riforma liturgica stessa. In alcuni casi si è sottovalutato il pericolo di un progressivo e fatale incrinamento della sacralità della Liturgia, indulgendo a forme che alterano il significato e la sostanza; spesso si è trascurato il legame con la tradizione, con il rischio conseguente di tradire gli stessi contenuti dell’azione liturgica: a volte abusando delle possibilità creative offerte dai nuovi riti, si è preteso di imporre ai fedeli esperimenti che nulla hanno a che fare con le esigenze di nobile semplicità ed essenzialità della liturgia della Chiesa.

Accanto a questi deplorevoli abusi, è doveroso segnalare il contributo positivo che tante Comunità Locali, sotto la guida illuminata dei loro Pastori e con il sano e volenteroso apporto dei loro membri, hanno saputo dare alla progressiva realizzazione di una riforma liturgica volta a calare - secondo lo spirito del Concilio e nella fedeltà alla Tradizione - il Mistero della Salvezza nella vita delle Comunità Cristiane e dei fedeli dei nostri giorni”.




PRESENTAZIONE DEL MOTU PROPRIO “SUMMORUM PONTIFICUM”

La riflessione che abbiamo compiuto questa mattina sulla natura immutabile della Liturgia rende facile ed agevole la comprensione del significato e del valore del Motu Proprio “Summorum Pontificum” circa la celebrazione della Santa Messa in forma ordinaria, secondo la riforma del Messale promulgata dal Papa Paolo VI, ed in forma straordinaria, secondo il Messale del 1962 di Giovanni XXIII, che ha apportato semplici variazioni rispetto al Messale di San Pio V, o meglio, che ha introdotto le variazioni avvenute sotto il Pontificato di Pio XII.

Il significato ed il valore – a mio giudizio di fondamentale importanza – del Motu Proprio di Benedetto XVI consiste nell’aver ricordato, implicitamente e sebbene “non expressis verbis” che la riforma liturgica, voluta e chiesta dalla Costituzione Conciliare “Sacrosanctum Concilium”, e quindi attuata sotto il Pontificato di Papa Paolo VI, non ha mutato la natura o la sostanza della Divina Liturgia, non ha toccato – non ha voluto farlo né lo poteva fare – ciò che appartiene all’essenza del Divin Sacrificio della Santa Messa: intatta è rimasta la Santa Messa in ciò che essa è per istituzione divina, intatta è rimasta la sua natura sacrificale (di vero Sacrificio, di vera ri-presentazione sacramentale del Sacrificio del Calvario, come anticipato da Cristo stesso nell’Ultima Cena, della Santa Cena sacrificale di Cristo con i suoi Discepoli, con quelli che Egli aveva scelti perché fossero i suoi Apostoli, con coloro che per sua volontà aveva chiamati a diventare capaci di rendere presente il Mistero di Cristo Salvatore, nel tempo e nello spazio, “donec veniat”, fino al compimento del Regno).

Intatto dunque, e del tutto indispensabile affinché si realizzi sacramentalmente il Sacrificio di Cristo, è rimasto il ministero voluto dal Signore Gesù, il ministero del Sacerdozio santo, partecipazione del suo Sacerdozio, attraverso il quale soltanto può rendersi presente il Mistero di Cristo, può costituirsi la Nuova ed Eterna Alleanza, può costituirsi il Popolo della Nuova ed Eterna Alleanza, può attuarsi il culto spirituale gradito a Dio. Intatta, la riforma liturgica, ha lasciato la necessità che tutti i riti ed i segni liturgici manifestino il vero contenuto e la vera natura di ogni autentica azione liturgica, manifestino cioè che la Liturgia, ed in maniera eminente e suprema la Santa Messa, è azione di Cristo, è azione che avviene per mezzo del ministero sacerdotale, è azione tutta rivolta a Dio, alla Trinità Santissima, è azione che prende tutti coloro che rigenerati dalla Grazia della Redenzione diventano capaci di diventare, in Cristo, offerta gradita al Padre, diventano addirittura oggetto del compiacimento del Padre (il Quale pone nel Figlio tutto il suo compiacimento, compiacimento che si riversa su tutti quelli che sono del Figlio, che sono di Cristo).

Chi potrebbe ragionevolmente negare che tutte queste caratteristiche emergevano con evidenza nella Celebrazione della Divina Liturgia prima della riforma liturgica? Sono esse diventate meno evidenti con la riforma liturgica? Se qui e là è, ahimè, avvenuto non è certamente in forza della volontà del Concilio e dell’Autorità della Sede di Pietro che ha approvato la riforma liturgica, ma è perché l’interpretazione e l’applicazione concreta delle variazioni generate dalla riforma liturgica, qui e là, da parte di non pochi, non sono state attuate secondo la lettera, né secondo la “mens” della Costituzione Conciliare, sono avvenute sotto l’influsso e la spinta di una visione liturgica incompleta e talvolta anche errata (quasi come se si fosse davvero cambiata la concezione di che cosa è la Liturgia, di che cosa è la Santa Messa).

Non ha forse dovuto il Papa Giovanni Paolo II, con l’Enciclica “Ecclesia de Eucharistia” richiamare con forza il carattere sacrificale della Santa Messa, la verità della mirabile “transustanziazione”, e quindi della verità della presenza nell’Eucaristia, vera, reale e sostanziale del vero Corpo e del vero Sangue di Cristo, dunque di Gesù Cristo vivo e vero, dunque del suo vero Sacrificio, dunque del vero Pane di Vita eterna? Per quale ragione, secondo la vera riforma liturgica, sarebbe - per esempio - diventato necessario celebrare anche la parte più specificamente eucaristica della Santa Messa, cioè la parte consacratoria e sacrificale, in modo che il Sacerdote celebrante abbia il volto verso l’assemblea? In base a quale giustificazione, di testi conciliari e post-conciliari, chi avesse continuato a celebrare quella parte della Messa non rivolto al popolo veniva considerato di agire contro la riforma del Concilio? Contro il Concilio?

Se pertanto la riforma liturgica non può essere espressiva di cambiamento di fede e di dottrina (circa il Sacrificio della Messa, circa la vera natura della Liturgia, circa la differenza essenziale del Sacerdozio ministeriale dal sacerdozio battesimale o comune a tutti i fedeli, a tutto il Popolo di Dio, circa l’adorazione dovuta all’Eucaristia nella celebrazione e fuori della celebrazione, circa – in una parola – a tutto ciò che la Chiesa ha creduto, professato ed insegnato sino al Concilio Vaticano II), se la riforma liturgica non può essere espressiva di cambiamento radicale e sostanziale (NB. Che il Concilio Vaticano II non abbia voluto mutare, né abbia di fatto mutato, la Dottrina della Chiesa sulla Chiesa, e perciò su tutto ciò che appartiene alla sua vera realtà, è stato ribadito dalle risposte ai quesiti, riguardanti soprattutto la giusta interpretazione dell’espressione della Costituzione “Lumen Gentium”: “Ecclesia Christi subsistit in Ecclesia catholica”, pubblicati in data 29 Giugno 2007 dalla Congregazione per la Dottrina della Fede), allora è legittimo e doveroso chiedersi e ben comprendere qual è il fine per cui il Concilio Vaticano II ha voluto la riforma liturgica, ha voluto che ai riti, all’insieme dei segni e delle azioni liturgiche, fossero apportate delle variazioni (variazioni non sostanziali, non tali da toccare il contenuto immutabile della Divina Liturgia).

Le variazioni e gli adattamenti voluti dal Concilio dovevano essere idonei a favorire la comprensione di ciò che veramente avviene nella Liturgia e la fruttuosa partecipazione di tutti i fedeli ai frutti sacramentali, spirituali e divini, della Liturgia. Dovevano, le correzioni, essere tali da raggiungere e muovere l’animo dei fedeli cosicché potessero accogliere con tutto l’animo l’azione divina che si attua nella Liturgia per mezzo dei segni sacramentali, per mezzo del mistero sacro, “per mano dei ministri” (come dice una bella delle espressioni della Tradizione Liturgica della Chiesa). Era certamente opportuno che le variazioni mostrassero alcune caratteristiche dell’azione liturgica, (soprattutto della Santa Messa), in verità non cancellate dal modo con cui la Liturgia era celebrata sino allora, ma che erano divenute meno percepibili, se non con l’ausilio di buona catechesi e di accorgimenti adeguati (come quello di provvedere messalini tradotti nella lingua parlata dal popolo). Soprattutto era opportuno che le variazioni sottolineassero che l’azione liturgica, azione divina che si rende presente attraverso il ministero sacerdotale, deve coinvolgere e rendere partecipi la mente e il cuore di tutta l’assemblea, che diventa non solo spiritualmente, ma anche visibilmente attiva.

La riforma liturgica non ha avuto altra vera intenzione se non quella di avvicinare il più possibile tutti i fedeli alla ricchezza soprannaturale, immutabile, della Divina Liturgia, della celebrazione dei Divini Misteri, come la Chiesa l’aveva sempre custodita e proposta per la salvezza eterna di chi, per mezzo della fede e dei sacramenti può davvero divenire nuova creatura in Cristo, membro del Popolo della Nuova ed Eterna Alleanza, figlio adottivo di Dio, erede della vita eterna. Ma è ovvio che tale processo di vera partecipazione ai Divini Misteri non si raggiunge soltanto per mezzo delle variazioni al rito liturgico, ma richiede catechesi adeguata, richiede il ricorso a tutto ciò che favorisce la fede e la consapevolezza nel popolo cristiano circa quello che veramente si realizza nella celebrazione della Divina Liturgia.

L’avvicinamento della Liturgia alla vita del Popolo di Dio non avviene se essa sposa gesti e parole e modi di espressione più simili a quanto è in uso nella vita profana dell’uomo, nella sua vita nel secolo, ma se il Popolo coglie meglio che il vero contenuto di essa è tale da rendere nuova la sua vita, da rendere santa la sua vita, da rendere la sua vita conforme al disegno salvifico di Dio, da renderlo dunque capace di trascendere la vita nel tempo e nello spazio, immettendolo all’interno dell’adempimento dell’Eterno Mistero della Volontà di Dio. La Liturgia, e dunque la Chiesa stessa, è viva quando fa vivere i fedeli della vita divina, quando trasmette i doni soprannaturali della Grazia Divina, quando attraverso i suoi segni e parole (segni e parole desunti dalla Divina Rivelazione e dalla vita della Chiesa e dalla sua saggezza soprannaturale) raggiunge l’animo dell’uomo, lo afferra, lo possiede elevandolo sì che egli raggiunga il compimento della sua divina vocazione. Le variazioni in materia così grave e così vitale per la fede e per la vita cristiana, da sostenere e da nutrire, vanno sempre introdotte ed applicate con timore e tremore, mai alla leggera, mai superficialmente, mai dando la benché minima impressione di voler imitare ciò che avviene nella vita del mondo, ciò che appartiene alla vita profana.




COMMENTO ALL’ART. 2 DEL MOTU PROPRIO “SUMMORUM PONTIFICUM”

L’articolo usa l’espressione “Messe celebrate senza il popolo”. Qual è il significato di tale espressione, che non appariva più in altri recenti documenti della Santa Sede riguardanti la Sacra Liturgia? Vuol dire “Santa Messa celebrata senza popolo convocato per quella precisa celebrazione”, oppure Messa che non sia celebrata in una Parrocchia “ad orario”, affinché il popolo (qualsiasi fedele appartenente a quella comunità particolare) possa parteciparvi. Si può anche dire che “Messa senza il popolo” è quella non parrocchiale o di altra comunità stabilita. A quella Messa il popolo non è convocato, ma ciò non significa che i fedeli del popolo non possano essere presenti e partecipanti.

N.B. Il Sacerdote che non celebra “cum populo” è caldamente esortato a celebrare quotidianamente “cum ministro” (con la presenza di qualcuno che nella Messa svolga il servizio che compete ad un ministro o ad un ministrante). Ma il Sacerdote che in qualche circostanza trovasse difficoltà ad essere assistito da un ministro, non per questo tralasci la Celebrazione della Santa Messa, a suo beneficio spirituale ed a beneficio di tutta la Chiesa e per la redenzione del mondo. Quella Santa Messa è perfettamente il Sacrificio di Cristo che nello spazio e nel tempo è ri-presentato sacramentalmente, per la salvezza del mondo.




COMMENTO ALL’ART. 5, § 1 DEL MOTU PROPRIO “SUMMORUM PONTIFICUM”

Come intendere l’espressione “gruppo di fedeli” aderenti alla precedente tradizione liturgica, esistente in una Parrocchia “stabilmente” (“continenter”, con continuità)? La “mens” del Motu Proprio, le finalità che esso si propone e l’insieme delle sue norme, permettono di interpretare l’articolo nel modo seguente:

1. Per “gruppo di fedeli” non si intende un’associazione che si sia data un assetto giuridico, con la istituzione di responsabili eletti e
stabiliti secondo delle regole. Ciò che “raggruppa” (o rende “gruppo”) quei fedeli è il loro “animus” (l’“animus” dell’uno trova affinità, comprensione e sostegno nell’“animus” di un altro, di diversi altri).

2. Anche l’espressione “aderenti alla precedente tradizione liturgica” non significa che vi debba essere una organizzata e pubblica professione di tale adesione; si tratta di un profondo “sentire” che nasce dall’educazione cristiana ricevuta od anche desiderata, dalla conoscenza della vita della Chiesa e della sua storia, dal modo in cui si vede celebrata al presente la Divina Liturgia in molti luoghi e da molti celebranti, da un affetto ed amore alla “Traditio Ecclesiae” che ha bisogno per penetrare gli animi di segni e di adeguate espressioni, da un amore alla continuità nella vita della Chiesa che rende prudenti di fronte ai cambiamenti che possono toccare la sostanza, ecc…

3. Questo profondo “sentire” di più persone, di più fedeli, può sinora non aver trovato la giusta e legittima possibilità di esprimersi; può non essere sinora giunto alla richiesta di ricorrere all’indulto speciale che aveva concesso il Papa Giovanni Paolo II (anche perché in molte parti della Chiesa, l’esortazione rivolta ai Vescovi da quel Papa, cioè di “usare largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero”, non fu molto ascoltata).

4. Se il “gruppo di fedeli” aderenti, con il loro animo, alla precedente tradizione liturgica non ha trovato sinora la sua legittima espressione non significa che non la possa legittimamente trovare adesso; non significa che ora non possa coagularsi in gruppo l’animo dei fedeli che aderiscono “con tanto amore ed affetto alle antecedenti forme liturgiche”. E ciò può tanto più avvenire per il fatto che – secondo l’art. 4 – alle Celebrazioni della Santa Messa “senza il popolo” (nel senso spiegato prima) possono essere ammessi quei fedeli che lo chiedessero di loro spontanea volontà.

5. È evidente che il desiderio e la richiesta del “gruppo di fedeli” debbono nascere dall’anelito sincero di trovare beneficio spirituale per la propria vita di devoti figli della Chiesa, ma questo il pastore della Chiesa lo deve supporre fin tanto che non vi siano chiare prove in contrario. È pienamente legittimo e può diventare anche lodevole, da parte dei fedeli, un amore alla “Traditio Ecclesiae” che non va affatto contro l’unità, ma la ricerca nutrendo al meglio la propria spiritualità. Nessuno dei Pastori della Chiesa ha il diritto di giudicare male quei Sacerdoti che esprimono il loro amore ed affetto alle forme liturgiche antecedenti la riforma post-conciliare.




CIRCA IL RIORDINO DEI PRESBITERII E LA POSIZIONE DELL’ALTARE

Alcuni principi di primaria importanza; alcuni criteri che toccano l’opportunità di procedere o no a determinati cambiamenti Di primaria importanza:

• L’altare è il centro della Celebrazione Eucaristica, nella sua parte più specificamente eucaristica e sacrificale; è il luogo dove avviene l’azione divina per mezzo del ministero sacerdotale; quello che lì avviene è eminentemente rivolto a Dio, Santissima Trinità;

• L’altare è il centro del presbiterio, verso il quale tutta la celebrazione deve essere orientata, ma che deve distinguersi dall’aula assembleare, che contiene la fisica presenza del popolo di Dio partecipante (questo principio esclude la presenza del popolo dentro il presbiterio ed esclude la presenza del presbiterio, e dell’altare quindi, dentro l’aula assembleare);

• La posizione del celebrante all’altare deve primariamente indicare l’orientamento di tutti e di tutto a Dio (in stato di adorazione, di accoglimento dell’azione divina, attraverso parole e segni), e solo secondariamente – ed in assenza di altri modi di realizzazione – può pedagogicamente favorire la maggiore vicinanza dell’animo dei fedeli a ciò che avviene sull’altare (le disposizioni dei “Praenotanda” al “Missale Romanum” di Papa Paolo VI, riguardanti il distacco dell’altare dalla parete sicché si possa girarvi attorno, e la posizione del celebrante possa essere “versus populum”, non avevano altro scopo se non quello di favorire la partecipazione dell’animo dei fedeli, e da attuarsi “ubi possibile est” e “expedit”. Ma la buona logica dice che ove la partecipazione dell’animo dei fedeli sia ugualmente possibile con la posizione del celebrante e del popolo orientati allo stesso modo, cioè “versus orientem” – o “versus absidem” che simboleggia il “versus orientem” – ciò non è contrario allo spirito della riforma liturgica post-conciliare, ma anzi è significativo che la posizione del celebrante e fedeli indichi l’orientamento di tutti e di tutto a Dio.


Alla luce di questi importanti principi e di tutta la legislazione liturgica (che ha avuto sviluppi e variazioni a partire dal dopo-concilio sino al Motu Proprio “Summorum Pontificum”), ecco alcune opportunità da applicare nella nostra Diocesi, tenuto conto della disposizione dei presbiterii e degli altari dentro le nostre chiese di antica costruzione:

• È grandemente opportuno giungere quanto prima alla eliminazione degli altari posticci, non pochi dei quali veramente indegni di essere il centro dell’azione liturgico-divina-sacramentale;

• È grandemente opportuno che si provveda a togliere anche gli altari stabili costruiti fuori dei presbiteri o dentro il presbiterio però apportando devastanti modifiche ad esso; certamente con retta intenzione, ma obiettivamente in modo inavveduto;

• Dentro lo stesso presbiterio è del tutto inconveniente avere due altari stabili, tanto più quando il presbiterio non è di tale ampiezza da potervi svolgere dignitosamente ed agevolmente tutte le azioni liturgiche con la buona partecipazione dei ministri e dei ministranti (non si dimentichi che dentro il presbiterio deve avere degna collocazione, oltre l’altarE, anche l’ambone e la sede del celebrante e dei ministri ed altresì – pressoché in tutte le nostre chiese – il Tabernacolo);

• Se il presbiterio è invece così ampio da poter ipotizzare l’edificazione in esso di un nuovo altare stabile e degno (ma questo soltanto nel caso che la collocazione dell’antico altare sia tale da impedire la vera partecipazione dell’animo dei fedeli all’azione sacramentale-divina che si compie sull’altare – caso che vedo davvero difficile potersi realizzare nelle nostre chiese), il nuovo altare non appaia come un corpo estraneo dentro la struttura architettonica dell’intero edificio e non rompa l’armonia dell’insieme. In questo caso l’antico altare non deve più comportare i segni specifici che lo mostrano come altare della celebrazione; ma sarà dignitosamente addobbato come luogo degno per la conservazione e l’adorazione del Santissimo Sacramento;

• Dove l’altare antico è in posizione centrale e ben visibile per tutta l’assemblea, per cui non v’è ragione che l’azione sacerdotale – sacramentale – divina che in esso si compie non possa essere ben seguita e partecipata spiritualmente da tutta l’assemblea, ivi si può legittimamente, e per certi aspetti lodevolmente, celebrare il Divino Sacrificio di Cristo, che diventa anche mensa celeste per il Popolo di Dio, mantenendo il Sacerdote la posizione “versus orientem” o “versus absidem”, non quindi “versus populum”, il quale si troverà nella stessa posizione del Sacerdote celebrante i Divini Misteri.

• È possibile, negli altari antichi, staccare la mensa, sicché – senza rompere l’assetto armonico del presbiterio – il Sacerdote celebrante possa essere “versus populum”, ed essere meglio osservato e seguito dall’assemblea nello svolgimento del suo ministero specificamente sacerdotale? Dal punto di vista liturgico, poiché non v’è dubbio che anche da quella posizione può essere inculcata l’idea che il Sacerdote non è soltanto il “presidente” dell’azione dell’assemblea, ma colui che agisce “in Persona Christi et totius Ecclesiae”, e che perciò presenta tutto il popolo a Dio, lo guida e lo precede nella Grande Preghiera, e che quindi potrà dare al popolo i doni della mensa celeste, lo stesso Corpo e Sangue di Cristo, la Comunione di vita con Lui, la cosa è senz’altro fattibile ed evita gli inconvenienti della costruzione di un nuovo altare stabile, soprattutto in quei presbiterii (quasi tutti nella nostra Diocesi) dove un nuovo altare non ci può stare. Ma la realizzazione può incontrare (e di fatto ha incontrato) delle forti opposizioni da parte della Sopraintendenza ai Beni Culturali, e forse anche non senza ragioni, dal loro punto di vista.

Vorrei, in ultimo, osservare che nella nostra Diocesi vi sono diverse chiese dove, o da quando è andata in vigore la riforma liturgica od in anni recenti, si celebra nell’altare antico, “versus orientem” o “versus absidem”. In quelle Parrocchie il bene spirituale dei fedeli non ne ha avuto scapito, né si sono avute ragionate reazioni di intolleranza.




QUESTIONI PER I LAVORI DI GRUPPO (mercoledì pomeriggio 19/9/2007)

1. La celebrazione della Liturgia, ed innanzitutto della Santa Messa, richiede il primo e massimo impegno e cura da parte dei Parroci, dei Sacerdoti e ministri ordinati, dei Collaboratori pastorali e liturgici. Si può essere soddisfatti della qualità delle celebrazioni liturgiche nelle Parrocchie? Quali iniziative sono ritenute necessarie ed opportune per migliorarla, da prendersi a livello di Parrocchia, di Vicariato, di Diocesi? Quali iniziative possono e debbono prendersi per assicurare che le celebrazioni avvengano in perfetta fedeltà alle Norme Liturgiche?

2. La qualità delle Celebrazioni Liturgiche dipende per la massima parte da come il Sacerdote celebra e si prepara a celebrare; dipende anche in buona parte dalla buona e corretta collaborazione dei ministri e dei ministranti. Quali iniziative sono ritenute necessarie ed opportune per garantire la buona preparazione liturgica e pastorale dei ministri e ministranti (lettori, accoliti, ministri straordinari della Comunione, chierichetti…)? Vi sono iniziative da prendersi a livello della Parrocchia, del Vicariato, della Diocesi?

3. Quale ruolo, in materia liturgica, potrebbe svolgere l’Ufficio diocesano per la Liturgia?




ALCUNE DISPOSIZIONI DELLA ISTRUZIONE “REDEMPTIONIS SACRAMENTUM” CHE QUA E LÀ, ANCHE NELLA NOSTRA DIOCESI, NON HANNO
FEDELE OSSERVANZA O SUFFICIENTE ATTENZIONE

N. 45: “Si deve evitare i rischio di oscurare la complementarietà tra l’azione dei chierici e quella dei laici…”

N. 47: “È veramente ammirevole che persista la nota consuetudine che siano presenti dei fanciulli o dei giovani, chiamati di solito ‘ministranti’, che prestino servizio all’altare alla maniera dell’accolito…”

N. 51: “Non si può tollerare che alcuni Sacerdoti si arroghino il diritto di comporre preghiere eucaristiche o modificare il testo di quelle approvate dalla Chiesa, né adottarne altre composte da privati”.

N. 59: “Si ponga fine al riprovevole uso con il quale i Sacerdoti, i Diaconi o anche i fedeli mutano e alterano a proprio arbitrio qua e là i testi della Sacra Liturgia da essi pronunciati. Così facendo, infatti, rendono instabile la celebrazione della Sacra Liturgia e non di rado ne alterano il senso autentico”.

N. 55: “In alcuni luoghi è invalso l’abuso per cui il Sacerdote spezza l’ostia al momento della consacrazione durante la celebrazione della Santa Messa. Tale abuso si compie però, contro la tradizione della Chiesa e va riprovato e molto urgentemente corretto”.

NN. 64-66-67: “L’omelia, che si tiene nel corso della santa Messa ed è parte stessa della Liturgia, di solito è tenuta dallo stesso Sacerdote celebrante o da lui affidata a un Sacerdote concelebrante, o talvolta, secondo l’opportunità, anche dal Diacono, mai però a un laico… Il divieto di ammissione dei laici alla predicazione durante la celebrazione della Messa vale anche per i seminaristi, per gli studenti di discipline teologiche…”; “Soprattutto si deve prestare attenzione affinché l’omelia si incentri strettamente sul mistero della salvezza…”

NN. 71-72: “Si mantenga l’uso del Rito romano di scambiare la pace prima della Santa Comunione, come stabilito nel Rito della Messa…”; “Conviene che ciascuno dia la pace soltanto a coloro che gli stanno più vicino, in modo sobrio. Il Sacerdote può dare la pace ai ministri, rimanendo tuttavia sempre nel presbiterio… Così ugualmente faccia se, per qualche motivo ragionevole, vuol dare la pace ad alcuni fedeli”.

N. 77: “In nessun modo si combini la celebrazione della santa Messa con il contesto di una comune cena, né la si metta in rapporto con analogo tipo di convivio. Salvo che in casi di grave necessità non si celebri la Messa su di un tavolo da pranzo o in un refettorio o luogo utilizzato per tale finalità conviviale, né in qualunque aula in cui sia presente del cibo, né coloro che partecipano alla Messa siedano a mensa nel corso stesso della celebrazione”.

N. 79: “Va considerato nel modo più severo l’abuso di introdurre nella celebrazione della Santa Messa elementi contrastanti con le prescrizioni dei libri liturgici, desumendoli dai riti di altre religioni”.

N. 83: “Talora avviene che i fedeli si accostino alla sacra mensa in massa e senza il necessario discernimento. È compito dei pastori correggere con prudenza e fermezza tale abuso”.

N. 87: “Si premetta sempre alla Prima Comunione dei bambini la confessione sacramentale e l’assoluzione…”.

N. 88: “Soltanto laddove la necessità lo richieda, i ministri straordinari possono, a norma del diritto, aiutare il Sacerdote celebrante…”.

N. 151: “Soltanto in caso di vera necessità si dovrà ricorrere all’aiuto dei ministri straordinari nella celebrazione dell’Eucaristia…”.

N. 154: “I ministri ordinari della Santa Comunione sono i Vescovi, i Sacerdoti e i Diaconi, ai quali dunque spetta distribuire la Santa Comunione ai fedeli laici… (N.B. non esistono ministri straordinari dell’Eucaristia).

N. 155: “Oltre ai ministri ordinari c’è l’accolito istituito, che è per istituzione ministro straordinario della Santa Comunione anche al di fuori della celebrazione della Messa. Se inoltre ragioni di autentica necessità lo richiedano, il Vescovo diocesano può delegare, a norma del diritto, allo scopo anche un altro fedele laico come ministro straordinario, ad actum o ad tempus… Soltanto in casi particolari e imprevisti, può essere dato un permesso ad actum da parte del Sacerdote” celebrante. (N.B. In presenza di più Sacerdoti e Diaconi, non v’è mai la necessità di ricorrere ai ministri straordinari della Comunione).

N. 157: “Se è di solito presente un numero di ministri sacri (Vescovo, Sacerdoti e Diaconi) sufficiente alla distribuzione della Santa Comunione, non si possono deputare a questo compito i ministri straordinari della Santa Comunione. In simili circostanze, coloro che fossero deputati a tale ministero, non lo esercitino. È riprovevole la prassi di quei Sacerdoti che, benché presenti alla celebrazione, si astengono comunque dal distribuire la Comunione, incaricando di tale compito i laici”.

N. 90: “I fedeli si comunicano in ginocchio o in piedi, come stabilito dalla Conferenza dei Vescovi, e confermato da parte della Sede Apostolica. Quando però si comunicano in piedi, si raccomanda che prima di ricevere il Sacramento facciano la debita riverenza, da stabilire dalle stesse norme”.

N. 91: “…Non è lecito negare a un fedele la Santa Comunione per la semplice ragione, ad esempio, che egli vuole ricevere l’Eucaristia in ginocchio oppure in piedi”.

N. 92: “Benché ogni fedele abbia sempre il diritto di ricevere, a sua scelta, la Santa Comunione in bocca, se un comunicando … vuole ricevere il Sacramento sulla mano, gli sia distribuita la Sacra Ostia. Si badi tuttavia con particolare attenzione che il comunicando assuma subito l’Ostia davanti al ministro, di modo che nessuno si allontani portando in mano le specie eucaristiche. Se c’è pericolo di profanazione, non sia distribuita la Santa Comunione sulla mano dei fedeli”.

N. 94: “Non è consentito ai fedeli di prendere da sé e tanto meno passarsi tra loro di mano in mano la Sacra Ostia o il Sacro Calice. In merito inoltre va rimosso l’abuso che gli sposi durante la Messa nuziale si distribuiscano
in modo reciproco la Santa Comunione”.

N. 101: “Per amministrare la Santa Comunione ai fedeli sotto le due specie si dovrà tenere appropriatamente conto delle circostanze, sulle quali spetta anzitutto ai Vescovi diocesani dare una valutazione. Ciò si escluda assolutamente quando esista rischio, anche minimo, di profanazione delle sacre specie…”.

N. 123: “Nella Messa e nelle altre azioni sacre direttamente collegate con essa, veste propria del Sacerdote celebrante è la casula o pianeta, se non viene indicato diversamente, da indossarsi sopra il camice e la stola. (N.B. La cosiddetta ‘tri-stola”, cioè due strisce che cadono davanti ed una dietro le spalle, non è una casula né una pianeta). Parimenti, il Sacerdote che porta la casula secondo le rubriche non tralasci di indossare la stola”.

N. 126: “È riprovevole l’abuso per cui i ministri … celebrano la santa Messa senza le vesti sacre o indossando la stola sopra la cocolla monastica o il normale abito religioso o un vestito ordinario. Gli Ordinari provvedano
a correggere quanto prima tali abusi…”.

N. 129: “È necessario che si promuovano certe forme cultuali di adorazione non solo privata, ma anche pubblica e comunitaria istituite o approvate validamente dalla stessa Chiesa” (vedi anche NN. 134-135-136).

N. 130: “Il Santissimo Sacramento sia conservato nel tabernacolo in una parte della chiesa di particolare dignità, elevata, ben visibile e decorosamente ornata, nonché in virtù della tranquillità del luogo, dello spazio davanti al tabernacolo e della presenza di panche o sedie e inginocchiatoi, adatta alla preghiera”.

N. 140: “È particolarmente raccomandabile che nelle città o almeno nei comuni di maggiori dimensioni il Vescovo diocesano designi una chiesa per l’adorazione perpetua, in cui però si celebri frequentemente, e per quanto possibile anche quotidianamente la santa Messa…”.


Peagna, 18-20 settembre 2007



fonte: sito web ufficiale della Diocesi di Albenga-Imperia
http://www.webdiocesi.chiesacattolica.it/cci_new/diocesi/pagine/25794/Vescovo_la_divina_liturgia.pdf



(07/05/2012)

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