giovedì 23 febbraio 2012

Non padroni, ma servi della Liturgia






Orientamento al Signore, servizio liturgico e fedeltà al rito: le caratteristiche del vero culto.

Costruire una pastorale liturgica attraverso il ministero


di d. James DeViese



In questa riflessione, intendo esaminare la liturgia da un punto di vista pastorale e pratico. Esploreremo brevemente le questioni che ho posto nella mia precedente conversazione [trascritta di seguito]: il come, dove, chi e che cosa della Messa. Guarderemo alla vera natura del ministero, daremo un rapido sguardo al ministero pastorale, e faremo un accenno a due delle frasi che circolano di più nella liturgia odierna: l'"ermeneutica della continuità" e l'"arricchimento reciproco".

1. L'orientamento della Liturgia

Quando si usa il termine "orientamento" riferito alla Messa, la maggior parte della gente subito pensa al sacerdote "che volge le spalle ai fedeli" o "tutti rivolti verso la stessa direzione" o "tutti rivolti ad oriente". Libri come "Spirito della Liturgia" del Cardinal Ratzinger e "Volgersi verso il Signore" di Michael Lang hanno affrontato in modo convincente questo tipo di orientamento liturgico dal punto di vista storico, teologico e spirituale. Non ripeterò perciò tutto quello che essi hanno già detto o scritto.

Intendo concentrarmi invece su un aspetto più fondamentale dell'orientamento liturgico, e cioè sul punto focale del culto liturgico. Nell'era post-moderna, il culto liturgico viene ridotto ad "atto della comunità" che si indirizza, attira l'attenzione e si concentra sull'assemblea riunita. Canti come "Raccoglici insieme", "Noi siamo la Chiesa" ecc., hanno consolidato questa tendenza nella mente di tanti cattolici. Abbiamo perso contatto con il vero scopo della sacra liturgia, che è il culto di Dio, e Dio solo.

Mi trovo a dovermi confrontare quasi ogni giorno con i miei parrocchiani, cercando di far capire loro la ragione per cui celebriamo la Messa, e perché è importante. E ripeto sempre lo stesso concetto: "non c'è niente di più sublime o più profondo dell'azione sacra con la quale rendiamo culto al Dio unico, vivo e vero. Ripeto ancora: "Non c'è niente di più sublime e più profondo dell'azione sacra con la quale rendiamo culto al Dio unico, vivo e vero". Tutti i nostri sforzi e la disposizione della nostra mente e del nostro cuore si devono focalizzare univocamente su questa realtà. La Messa è per Dio, non per noi.

Non è certo una frase popolare questa, ma lasciatemi spiegare. Il Divino Sacrificio della Messa, in quanto è la ri-presentazione incruenta del sacrificio di Cristo sul Calvario per la salvezza del mondo, attualizza ogni volta per noi la salvezza nella quale siamo stati battezzati e nella quale siamo tutti membra del Corpo Mistico. Il sacramento della santa Eucaristia, reso presente nella Messa, è - come tutti i sacramenti - per la santificazione e l'edificazione del popolo di Dio. Ma nella sua essenza, la Messa resta il nostro atto di culto a Dio - il nuovo sacrificio del tempio, l'agnello senza macchia immolato dal sacerdote nel Santo dei Santi ad espiazione del peccato - l'offerta del popolo a Dio perché sia a Lui gradita. E' così che si rende culto, né più né meno!

Eppure, non è affatto raro vedere quanto ciò sia trascurato, ridimensionato o perfino del tutto rigettato in favore di una interpretazione più protestantizzata, post-moderna, chiusa dentro la comunità autoreferenziale, privando così la Messa del suo significato di culto indirizzato al Divino, e lasciando il guscio vuoto di una riunione che celebra gli esseri umani e il loro rapporto con Dio (che - avete mai notato?! - è sempre perfetto). E' questa la mancanza di orientamento di cui sto parlando.

Ora, per non sembrare unilaterale, c'è realmente un aspetto "noi" nella Messa. Mons. Guido Marini nella sua relazione ad "Adoratio 2011", la prima Conferenza internazionale sull'Adorazione eucaristica tenuta a Roma nel giugno dell'anno scorso [2011], parla della necessaria relazionalità della Messa. Afferma: "siamo richiamati ad alcune delle dimensioni tipiche ed indispensabili della liturgia. Mi riferisco innanzitutto alla dimensione della cattolicità, costitutiva della Chiesa fin dall'inizio. Nella cattolicità, l'unità e la varietà si uniscono in armonia tanto da formare una realtà sostanzialmente unita, malgrado la diversità legittima delle forme.

E poi c'è la dimensione della continuità storica, in virtù della quale lo sviluppo ordinato appare essere quello di un organismo vivente che non rinuncia al suo passato, progredisce nel presente ed è orientato verso il futuro. E ancora vi è la dimensione della partecipazione alla liturgia del Cielo, per cui è appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il Cielo scende sulla terra. Solo per fare un esempio, considerate le parole della prima Preghiera Eucaristica, quando domandiamo: '..fa' che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull'altare del cielo, davanti alla tua maestà divina..'.

E per ultimo, c'è la dimensione della non-arbitrarietà, che evita la soggettività del singolo o del gruppo, e che appartiene invece a tutti come dono ricevuto, da custodirsi e trasmettere. La liturgia non è una sorta di intrattenimento dove uno si sente di dover aggiungere o sottrarre all'improvviso qualcosa a seconda del proprio gusto per soddisfare la propria bella creatività. La liturgia non è un festino in cui si deve sempre trovare qualcosa di nuovo per suscitare l'interesse dei partecipanti. La liturgia è la celebrazione del Mistero di Cristo dato alla Chiesa, nel quale siamo chiamati sempre ad entrare con grande intensità, soprattutto in virtù della ripetizione provvidenziale e sempre nuova del rito.

Per entrare nel "noi" della Chiesa mediante l'Eucaristia, significa anche essere trasformati nella logica di quella cattolicità che è amore, o l'apertura del cuore secondo la misura del Cuore di Cristo. Essa abbraccia tutto, piega l'egoismo alle esigenze del vero amore, ed è disposto a dare la vita senza riserve. L'Eucaristia è la vera sorgente d'amore della Chiesa ed è nel cuore di ciascuno. Dall'Eucaristia la Chiesa prende forma ogni giorno nell'amore, che è lo stile evangelico al quale siamo chiamati".

Dobbiamo dunque cambiare la nostra mentalità su come accostarci alla Messa e all'Eucaristia. L'orientamento non deve essere verso se stessi, ma ad un autentico volgersi interiore verso il Signore.

2. Il servizio liturgico

Avendo ora una migliore comprensione della natura dell'atto liturgico e il fine proprio al quale esso è diretto, possiamo guardare qual è la nostra funzione all'interno dell'azione sacra. Pongo perciò la domanda: che cos'è un ministro? Il termine "ministro" viene dal latino "ministrare", che significa "servire". "Minister" in latino è un servitore. Pertanto, per comprendere nel modo giusto il ruolo di un ministro, dobbiamo accettare che il rapporto tra liturgia e ministro sia un rapporto di subordinazione, di servizio. Il servo non cerca di dominare il padrone, di sottometterlo, di piegarlo alla propria volontà. Il servo buono e fedele è quello che si compiace di essere umile e obbediente. E la ricompensa del servo buono e fedele è la fiducia e l'ammirazione del padrone, che conduce ultimamente a maggior libertà.

Come ministri della sacra liturgia, noi siamo per prima cosa servitori della liturgia, servitori della Chiesa. Anche la parola "liturgia" denota questa relazione. La sua radice in greco, si dice comunemente che voglia dire "l'opera del popolo" - e ciò era e rimane lo slogan tanto sbandierato dai sapienti progressisti per giustificare le grandi libertà che si prendono con la Messa. Tuttavia, "liturgia" è composta da due termini greci: "laos" che significa popolo o il pubblico, e "ourgia", che significa "servizio". Liturgia non è "l'opera" del popolo, ma "il servizio" del popolo.

Quali ministri della sacra liturgia, noi siamo in fondo dei servi che non devono presumere di imporre il proprio stile, atteggiamento, ideologia ecc., sulla liturgia. La nostra missione non è di creare la liturgia, ma di essere formati dalla liturgia. Come servitori, la nostra missione è di presentare fedelmente al popolo di Dio la liturgia come ci è donata dalla Chiesa per la nostra edificazione e santificazione, e ciò può essere fatto solo in uno spirito di vero e umile servizio.

Qual è dunque la nostra ricompensa per essere servi buoni e fedeli? Tanto per cominciare, va da sé che l'adesione alla Chiesa e la fedeltà ai suoi comandi sono graditi a Dio e, sullo stesso piano d'importanza, serve per soffocare il peccato dell'orgoglio nel nostro cuore. Fedeltà e umiltà nel ministero sono al cuore della liturgia. Se guardiamo ai santi, possiamo vederne tanti che sono cresciuti nella santità semplicemente mettendo la Chiesa al di sopra dei propri bisogni e desideri. Santa Teresa del Bambin Gesù scrive mirabilmente di quanto amasse fare la sacrestana, lucidare i vasi sacri e stendere sull'altare le tovaglie e i paramenti, tanto che non avrebbe voluto essere in nessun altro posto diverso da quello. Potrà sembrare eccessivo ad alcuni, ma il suo amore era radicato nel fatto di essere una vera e umile serva. Aveva capito così bene la profonda natura della sacra liturgia che, come la donna evangelica che soffriva di emorragia, desiderava toccare il lembo del mantello di Cristo per sentirsi realizzata dalle più semplici e umili delle azioni. Questa è un'immagine che dovremmo portare sempre con noi quando ci accostiamo alla sacra liturgia da veri ministri.

3. Essere "pastorali"

Senza ombra di dubbio, il termine più abusato e male usato nel vocabolario ecclesiastico post-conciliare è "pastorale". Per quelli che sono attorno ai cinquant'anni, è una parola che è diventata sinonimo di un atteggiamento disposto a infrangere qualsiasi regola, direttiva e norma, a qualsiasi livello, per rendere più facile la vita. Dalla mia esperienza di avvocato canonista, ricevo costantemente critiche da parte dei miei superiori ogni volta che emetto una sentenza negativa nei casi di nullità matrimoniale. La ragione è sempre la stessa: non è "pastorale" non dare alla gente quello che vuole. Ovviamente, rispondo che non dipende da me se una persona ha contratto validamente o meno il matrimonio, che io sono obbligato alla verità, non a scansare la verità nell'interesse di lasciare la gente ad "andare avanti nella vita". Come potete immaginare, mi hanno bollato quale orribile conservatore non-pastorale e integralista che non gli importa della gente. Figuratevi!

Il termine "pastorale" è ovviamente un aggettivo che denota qualcosa che attiene "al pastore od è come un pastore". Almeno questo era il significato originario. E io sono qui a dichiarare che è giunta l'ora che questa parola venga liberata da coloro che se ne sono impossessati, gli antinomisti [NdT: seguaci della dottrina eretica che sostiene essere inutile e non obbligante obbedire alla legge morale, in quanto giustificati per la sola fede ], e torni al suo significato più naturale. Per una nuova definizione di "pastorale", mi avvalgo di un'idea di Jason Pennington, autore del saggio "Il musicista pastorale: un vero pastore o un ladro alla porta?" pubblicato il 29 dicembre 2005 sul blog "Christus vincit". Mentre Pennington orienta tutte le sue osservazioni sul concetto di musicista pastorale, io prendo a prestito il suo paradigma di base con la speranza di allargarlo e di applicarlo per la riabilitazione di questa povera, pietosa parola.

Pennington scrive: "La risposta più semplice ed immediata alla domanda di cosa significhi essere pastorale, è: agire come un pastore, pascere il gregge. La tradizione occidentale permea la nostra percezione del 'pascere'. Il poeta romano Virgilio descrive con vivida immaginazione la vita pastorale (o bucolica) nella Egloga. La letteratura, lungo i secoli, sia religiosa che laica, offre varie descrizioni di pastorale. La vita pastorale è calma e gentile, è pacifica e serena. Gli agnelli saltellano mentre il pastore suona il flauto sotto l'ombra di un grande albero.

L'analogia con il Salmo 23 è notevole, guardiamo infatti come si armonizza: "Il Signore è il mio pastore; non manco di nulla". E' il Signore che ha la supremazia, è il Buon Pastore, il vero pastore, e si prende cura di tutte le mie necessità. Essere pastorali vuol dire vegliare sui bisogni del gregge, far sì che riceva il meglio. Notate che non vi è cenno di quello che il gregge "desidera". Il vero pastore sa quello che ci vuole. Non si preoccupa di quello che manca. "Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Rinfranca l'anima mia". Il ministro pastorale crea un'atmosfera di pace e di sicurezza. Non sovraccarica il gregge, cerca piuttosto di ringiovanirne lo spirito - ancora una volta, con quello di cui ha bisogno, non con quello che vuole.

"Anche se vado per una valle oscura, non temo alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza". Qui arriviamo al cuore della questione. Il rapporto tra pastore e gregge non è tutto rose e fiori! C'è il bastone e il vincastro. Pennington scrive: "il bastone e il vincastro del pastore hanno due scopi. Il pastore li usa come armi per tenere lontano i pericoli dal suo gregge. Li usa anche per tenere ben ordinate le pecore. Il bastone del pastore ha dopo tutto un'estremità ricurva per trattenere la pecora che si è smarrita. Certamente, il vincastro e il bastone confortano perché proteggono dai pericoli, ma dispensano anche disciplina. Il pastore dà alle pecore ciò che vogliono, ma soprattutto, dà quello di cui hanno bisogno, che piaccia o no. Conduce il gregge a gustosi pascoli, ma lo tiene anche insieme sulla buona strada. Se il pastore desse loro solo quello che vogliono, il gregge si frazionerebbe e vagherebbe in tutte le direzioni: "noi tutti eravamo sperduti come pecore" (Is. 53, 6).

Il gregge vuole ed esige di essere viziato, di essere coccolato. Ma questo non è essere pastorali, semmai è non fare loro favori. Uno dei miei professori di diritto canonico a Roma spiegava il termine "pastorale" così: "Il vero strumento pastorale risiede nell'osservare la norma, non nell'ignorarla". Il nostro dovere sempre è di garantire i diritti di tutti. L'autentica giustizia cristiana esige che noi garantiamo i diritti del fedele cristiano. Ogni volta che si viola una regola per essere "pastorali" con qualcuno, allora si violano i diritti di un altro. Se io altero le parole della consacrazione nella Messa perché sarebbe "pastorale" per i bambini ai primi banchi, allora io in realtà violo il loro diritto a ricevere i sacramenti e la liturgia della Chiesa, così come intende la Chiesa. Se siamo ministri pastorali, non possiamo garantire i diritti dei fedeli cristiani infrangendo le regole, ignorando le norme o schivando i problemi. E' vero, può essere che la gente non apprezzi ciò che facciamo; penserà che siamo duri o perfino arbitrari. Ma, ancora una volta, un ministro pastorale è alla fin fine solo quello che le parole descrivono: un servitore che pasce.

4. Liberarsi dagli anni Settanta

Negli ultimi anni, nuove espressioni e parole di moda sono apparse sul nostro vocabolario. Si parla di "una riforma della riforma", di un "nuovo movimento liturgico", di una "ermeneutica della continuità", e dell'"arricchimento reciproco" delle due forme del Rito romano. Sono espressioni che danno vigore ai giovani esperti conservatori, ma che fanno paura e gettano nella frustrazione i vecchi "progressisti", senza dubbio! Ma dobbiamo sempre essere attenti a come li affrontiamo.

Siamo ministri della liturgia in un tempo in cui corriamo il rischio di infliggere sulla liturgia gli stessi abusi scriteriati e arbitrari che la liturgia ha patito dai liturgisti "progressisti". Occorre fare ben attenzione che ciò che facciamo nella liturgia riguardi solo la liturgia, e non le nostre opinioni o ideologie. Potrei fare un elenco di centinaia di cambiamenti che mi piacerebbe fare alla mia celebrazione della Messa in nome della "continuità" o dell'"arricchimento reciproco". Ma io sono legato a una lealtà alla Chiesa molto più grande delle mie preferenze personali. Lo stesso è vero per tutti i ministri della liturgia.

Allora, come si conciliano le due vie: arricchimento reciproco e fedeltà ai libri liturgici? Prima di tutto, si deve tracciare una linea chiara. Abbiamo il dovere sempre di essere fedeli ai libri liturgici, così come la Chiesa ce li ha dati. A questo fine, modificare la Forma Ordinaria del Rito Romano per conformarlo di più alla Forma Straordinaria (o viceversa), è qualcosa che può avvenire solo quando i libri liturgici e gli stessi documenti fanno esplicita concessione per l'innovazione, o quando le rubriche e le norme lo diano per sottinteso, prestandosi così a qualche arricchimento.

"L'arricchimento reciproco" dei due Riti Romani è qualcosa che è ovviamente desiderato dal Santo Padre, come ha dichiarato nella sua lettera di accompagnamento ai Vescovi sulla promulgazione del Motu Proprio "Summorum Pontificum". Segue logicamente una discussione sulla "ermeneutica della continuità" - l'accentuazione sulla continuità tra i riti precedenti e quelli attuali, opposti alla "ermeneutica della rottura" che sembra ricevere l'attenzione maggiore degli esperti negli ultimi quarant'anni. La grande ironia è la sostituzione della retorica di quarant'anni fa. Quando si introdusse per la prima volta il Novus Ordo Missae, i liturgisti gli diedero credibilità esaltando la sua conformità ai sani criteri storici, dicendo che in realtà si trattava di un recupero di una forma di culto molto più antica. E i contrari che affermavano che si trattasse di una rottura con la tradizione, erano coloro che sarebbero diventati i seguaci dell'Arcivescovo Lefebvre e soci. Come cambiano i tempi!

Tutto sommato, c'è molto spazio per cercare di capire meglio tutti questi criteri. Ciò che ho presentato qui è soltanto la punta dell'iceberg. C'è spazio per altre discussioni e per altre esplorazioni. E gli esempi sono fin troppo numerosi per cominciare a farne una lista.

5. Conclusione

In conclusione, vorrei riflettere brevemente sul quadro principale. Tutto ciò che ho trattato in questa conversazione è indirizzato a un gruppo di persone impegnate che servono la Chiesa e le loro comunità nel modo specifico della sacra liturgia. La nostra missione, comunque, non dev'essere quella di raccomandare il self-service. Abbiamo anzi esplorato i principi che dovrebbero essere al primo posto nella coscienza di ogni cattolico: il vero orientamento della liturgia, la vera natura della pastoralità, i fondamenti divini dell'autorità, la necessità della vera fedeltà, ecc.

Come ministri della sacra liturgia, incombe su di noi il mandato di catechizzare bene quelli che serviamo e di disporli degnamente a ricevere la ricchezza che offre il Rito Romano. Troppo spesso sorvoliamo sul Rito Romano e ci lasciamo ipnotizzare dalle campane, dal fumo e dai canti di altri riti, e cerchiamo di integrarli (senza che ve ne sia bisogno e illecitamente) ai nostri riti per "abbellirli". Ma il Rito Romano è integrale e completo. E vorrei dire che abbiamo il dovere morale di esplorare il nostro patrimonio per cercare di scoprire i tesori nascosti dei nostri riti e recuperarli entro i parametri dei nostri paradigmi liturgici correnti, per la gloria di Dio e l'edificazione della Sua Santa Chiesa. E' in questo modo, in ultima analisi, che il nostro Maestro e Signore ci può vedere suoi servi buoni e fedeli, servitori e ministri di ciò che la Chiesa ha affidato alla nostra cura.

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L'antinomismo e la Sacra Liturgia
di d. James DeViese

Vorrei esaminare alcuni aspetti chiave dei nostri rispettivi ruoli di servitori e ministri della Sacra Liturgia, e quali iniziative pratiche possiamo porre in atto per aiutare coloro che serviamo a fare una forte esperienza liturgica.

Parlerò innanzitutto dell'antinomismo e della Sacra Liturgia; dell'antinomismo (1) in generale, che cosa s'intende con questo termine e come si rapporta con la comprensione cristiana della legge. Poi, esaminerò l'applicazione dei principi antinomisti nella celebrazione dei sacri riti. Ed infine vi presenterò alcune preoccupazioni generali e specifiche riguardo al futuro della prassi liturgica.

1. L'antinomismo in generale

Padre John Coughlin, professore di Diritto Canonico e Teologia all'Università di Notre Dame, nel suo intervento alla Conferenza degli avvocati civili e canonisti tenutasi a La Cross in Wisconsin, nell'agosto del 2010, dichiara in termini decisi: "L'antinomismo riduce o rifiuta la validità della legge".

Il termine "antinomismo" fu coniato nientemeno che da Martin Lutero, ed è composto di due parole greche 'anti' e 'nomos', letteralmente 'contro la legge'. Per ironia della sorte, il termine fu impiegato da Lutero per descrivere in modo peggiorativo quei protestanti che aderirono alla dottrina eretica della "Sola Fide" - giustificazione solo per fede - e che deviarono in modo ancora più radicale di quanto non avesse fatto originariamente Lutero stesso. Il senso fondamentale antinomiano rimane comunque chiaro: rifiuto della legge stabilita (sia essa divina, naturale o positiva).

In una prospettiva storica, il sistema religioso giudaico-cristiano si è sempre fermamente basato sulla prevalenza della legge. Fin dai giorni di Mosè, gli aderenti alla fede abramitica hanno sempre compreso che vi è una intrinseca relazione tra il compiere il proprio dovere con Dio e obbedire alla legge di Dio. In effetti, l'uno conduce in modo naturale verso l'altra, poiché per piacere a Dio occorre seguire i suoi comandamenti. Appare molto chiaro nell'Antico Testamento che il rifiuto dell'autorità di Dio, la non accettazione appunto della legge divina, naturale e positiva, va presto incontro alla sua retribuzione: il diluvio universale, i quaranta anni nel deserto, Sodoma e Gomorra, l'esilio babilonese, ecc. Praticamente, ogni prova e tribolazione del popolo ebraico nell'Antico Testamento ha la sua radice nel rifiuto umano della legge.

Nel Nuovo Testamento, le fazioni pro o contro l'antinomianismo sono in continua polemica tra loro per stabilire da quale "parte" stiano i vangeli sul tema dell'adesione alla Legge. Ci sono prove in abbondanza per l'una e l'altra fazione. Riserverò l'approfondimento dei particolari per gli studiosi di Sacra Scrittura e di Teologia.

Per quanto se ne dica, un dato di fatto è chiarissimo: Dio ha creato un mondo ordinato sul quale ha imposto una gerarchia di autorità, sia in terra che nei cieli, per preservare la salvezza dell'uomo. Tale autorità, radicata nella legge divino-naturale e compiuta dalla volontà di Gesù Cristo nel trasmettere la Sua stessa autorità a Pietro e agli apostoli, è finalizzata alla crescita spirituale del Popolo di Dio per raggiungere lo scopo da Lui voluto: la vita eterna con il nostro Creatore nella Gerusalemme nuova.

Dichiarare che noi sperimentiamo, per paradosso, vera libertà quando aderiamo alla Legge, non è più irrazionale di quanto non lo fosse per Sant'Agostino affermare lo stesso concetto, dicendo che la libertà dal peccato si ottiene mediante la schiavitù alla volontà di Dio. Una vera adesione a Dio esige la nostra adesione a quelle leggi che Lui e la Santa Chiesa ci hanno dato, attraverso la legittima autorità conferitale e portata avanti con la successione dei Papi e dei vescovi.

L'antinomismo porta fuori dalla retta comprensione della Chiesa quale vera Sposa di Cristo che governa con la Sua stessa autorità sulla terra. Ma per il credente cattolico, rifiutare l'autorità della Chiesa è rifiutare l'autorità di Cristo, e quindi Dio stesso.

L'antinomismo in America ha una lunga storia. Si può dire che ha avuto il suo influsso nel dare origine alla rivoluzione americana, al suffragio delle donne, ai diritti civili, ecc. Pur essendo cose buone in se stesse, il retroterra antinomista che ha contribuito a portare quei movimenti alla pubblica attenzione e a renderli vincenti, si è però anche infiltrato nel pensiero della Chiesa negli Stati Uniti.

Si deve, tuttavia, fare una distinzione tra autorità derivata da Dio e quella stabilita dall'uomo. Dobbiamo sempre considerare la Chiesa per quello che essa è veramente: una istituzione divina donata all'uomo per la sua santificazione. L'ordine civile cerca legittimamente di invertire il rapporto: l'uomo stabilisce l'ordine per il bene comune imitando i precetti divini. La prima è il modello tipico dall'alto al basso; il secondo dal basso verso l'alto.

Come si presenta dunque l'antinomismo nella Chiesa americana? Uno degli esempi più evidenti è l'assenza significativa, in questo Paese, dei Capitoli di Canonici della Cattedrale. Quando si formarono le prime Diocesi degli Stati Uniti, la legge che disponeva che ogni Cattedrale avesse un Capitolo di Canonici, fu praticamente ignorata ovunque. L'unica ragione addotta fu che la Chiesa in America si considerava un nuovo ordine di Chiesa, tale da non dover più essere confinata nei ceppi della cultura europea da cui fuggivano tanti migranti. "Ridurre o rifiutare la validità della legge" per corrispondere ai desideri dei pochi a danno dei molti.

2. L'antinomismo e i riti sacri

Per quanto attiene ai sacri riti della Chiesa, vale la pena sottolineare che i riti liturgici predisposti dalla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti, approvati dal Sommo Pontefice, possiedono la forza della legge. I libri liturgici, di per se stessi, costituiscono un rito giuridico la cui essenza è sia spirituale che strutturale. E tuttavia, in tutta la storia della Chiesa c'è sempre stata una lotta tra due poli: quello che cerca di imporre la struttura e quello che cerca di svincolarlo da tale struttura.

Fin dalla fine del primo secolo, la Chiesa ha cercato di dare una struttura al modo di celebrare dei cristiani e di renderla normativa. Ce lo confermano numerose fonti della primitiva celebrazione cristiana, quali la Didachè, i frammenti di Ippolito, l'Apologia del Santo martire Giustino e altri. Dai quei primi tempi, l'intento dei Vescovi e del Papa è stato di vigilare affinchè la celebrazione dei Sacramenti fosse sempre ortodossa e fedele. L'imposizione dei libri liturgici si rese necessaria fin dal terzo e quarto secolo per custodire l'integrità dei sacramenti, in particolare il Divino Sacrificio della Messa, e tutto in nome dell'antica massima "Lex orandi, Lex credendi".

Molti "studiosi" oggi non accettano la prassi di imporre libri liturgici, considerandola anatema al vero "culto". E' un falso significato del culto che proviene dall'adozione modernistica di antinomismo. Quanti di noi hanno sentito frasi del tipo: "Sì, so cosa dicono i libri liturgici, ma ...", oppure "E' quello che fanno a Roma, ma qui non siamo a Roma", o "Noi facciamo diverso...", o ancora (la mia preferita) "Se il Papa vuole che lo faccia, che venga qui a farmelo fare!". Queste dichiarazioni irriverenti e provocatorie sono sintomatiche di un antinomismo profondamente radicato e che è prevalente nella Chiesa americana di oggi. L'intera concezione delle direttive liturgiche, delle sue norme e rubriche che hanno forza di legge, sono o sconosciute o semplicemente ignorate al fine di ritagliare i sacri riti sulla misura dei nostri gusti e preferenze. Se accadesse la stessa cosa con la Fede in generale, io credo che il termine adeguato alla situazione sarebbe "protestante", se non "apostasia".

Sono consapevole che la mia posizione sembri intransigente. Non per niente mi hanno affibbiato i soprannomi di "tradizionalista folle" e di "orrendo arciconservatore"! Ma è innegabile che c'è un legame diretto tra i principi antinomisti e il presente stato della liturgia nella Chiesa. Se ciò sia per ignoranza dei documenti ecclesiali, o per un rifiuto irrazionale, ideologizzato, o premeditato al limite del lecito delle norme liturgiche a favore di un'alterazione "protestantizzata" e motivata egocentricamente, o ancora - arrivo a dire - per'"abusare" di quanto ci è stato trasmesso come liturgia della Chiesa, una cosa è chiara: la riduzione o il netto rifiuto della validità delle norme liturgiche, in quanto vincolano per legge i ministri della Chiesa, è antinomismo allo stato puro e, ciò che più importa, può e deve essere definito vera e propria violazione della legge della Chiesa.

Gli stessi sacri riti costituiscono un'alleanza tra Dio e il Suo popolo, mediata dalla Chiesa, la cui autorità in materia spirituale deve essere ritenuta assoluta. Negli ultimi cinquanta anni, tuttavia, siamo stati testimoni di un sistematico sgretolamento dell'autorità della Chiesa, perpetrato non da una singola fazione o gruppo, ma causato da una varietà di fattori diversi, quali norme liturgiche i cui documenti sembrano spesso in conflitto tra loro o senza direttive chiare, la legge della Chiesa stessa che ha eliminato le relative sanzioni da comminare alle violazioni, le Conferenze Episcopali che spesso sminuiscono l'autorità dei singoli Vescovi, alcuni Vescovi e parroci che non si curano di legiferare e di emanare solide norme liturgiche, i cosiddetti "esperti" e "liturgisti" il più delle volte ideologi, il movimento ecumenico con il pretesto che "dobbiamo essere come gli altri, così piaceremo loro", e i fedeli laici con affermazioni come "anch'io devo avere un potere!". Di per sé, nessuna di queste istituzioni, gruppi o movimenti sono cattivi, anzi hanno un ruolo proprio e svolgono tutti una funzione nella Chiesa, per cui dare la "colpa" a una qualsiasi delle "cause" suddette per lo stato attuale della prassi liturgica, sarebbe irresponsabile e inesatto. Si può dire invece, essendo l'osservanza delle norme liturgiche l'intenzione della Chiesa e l'obbligo dei suoi ministri, che ogni realtà della vita della Chiesa ha contribuito, in maggiore o minore misura, a un generale antinomismo.

Alla luce di tutto ciò, pongo tre interrogativi: primo, perché succede? Secondo, come ci si è arrivati? E per ultimo, che cosa si può fare?

Le prime due domande stanno insieme. E' stato detto da alcuni studiosi che il tempo in cui si è celebrato il Concilio Vaticano II, e non il Concilio in sé, ha portato a molta di quella confusione che la Chiesa attraversa oggi in termini di atteggiamento dei credenti verso la Chiesa. Ripeto che non è un discorso sui meriti o le lacune dei documenti conciliari, ma la temperie di quegli anni. Che cosa voglio dire? Consideriamo l'ambiente sociale dei primi anni Sessanta. Le agitazioni sociali esplodevano a tutti i livelli, soprattutto negli Stati Uniti. Tra le battaglie per i diritti civili, la liberazione delle donne, "l'amore libero", le campagne contro la guerra, e un gran numero di movimenti contro l'establishment negli anni '60, la percezione del Concilio Vaticano II come un Concilio "modernizzante" che avrebbe spezzato le catene del Medioevo e avrebbe lanciato la Chiesa all'aggiornamento con quegli anni, contribuirono ultimamente a una cattiva comprensione di ciò che la Chiesa e il Concilio intendevano mettere in atto.

E' una percezione che è presente ancora oggi in non pochi ambienti nei quali circola abitualmente lo slogan "lo spirito del Concilio". Questo Concilio Ecumenico spesso vituperato porta perciò il peso di dover essere ancora veramente compreso, apprezzato e realizzato.

Similmente, si può dire che la riforma liturgica del '68-'69 di Papa Paolo VI con la promulgazione della prima edizione dell'attuale Messale Romano, aiutò a rafforzare questa erronea interpretazione del Concilio Vaticano II. Ancora una volta, occorre dire che la colpa non è del contenuto della Riforma, ma del momento storico in cui si è fatta la riforma, che sembrava dare ragione a quello che tanta gente, sbagliando, diceva già del Concilio: "Ehi, sta cambiando tutto! Niente più regole! Possiamo fare quello che vogliamo!".

In realtà, da una prospettiva storica e giuridica, nulla potrebbe essere più lontano dalla verità. Non voglio discutere né criticare la saggezza della riforma di Paolo VI. Ma la transizione apparentemente improvvisa da un sistema di riti liturgici pieno di norme e di regole, infrangere le quali costituiva spesso un peccato mortale per il sacerdote, a un sistema privo di penalità e con licenza apparentemente ampia data all'improvvisazione e a commenti ad libitum, a qualsiasi livello, era destinato fin dall'inizio a inaugurare un'epoca contrassegnata da un antinomismo in ebollizione e da desideri alimentati da agitazioni sociali nell'ambito civile. In punto di fatto, si trattò di una convergenza di due eventi innocui e (oso dire) necessari, associati in un clima sociale di opposizione all'establishment, per cui i sentimenti antinomisti esaltanti la libertà individuale fecero da perfetto contesto tempestoso perché le radici dell'antinomismo nella Chiesa penetrassero in maniera importante.

3. L'antinomismo ed il Messale Romano

Per questioni di tempo, non elencherò i molteplici esempi di antinomismo nella liturgia. Gli abusi inflitti sulla Sacra Liturgia negli ultimi quarant'anni sono troppi per essere descritti. Basti soltanto dire che ci sono state violazioni generalizzate delle norme e direttive liturgiche, causate da ignoranza o da rifiuto delle dette norme. Per essere onesti, la prima e seconda edizione del Messale Romano davano maggiore spazio alla "creatività" liturgica di quanto non faccia la terza edizione attuale (NdT, delle Conferenze Episcopali di lingua inglese). Il cambiamento più significativo tra la precedente e l'attuale edizione, è la notevole diminuzione in vari punti dei riti, della frase prima onnipresente "con queste parole o altre simili". In questa terza edizione del Messale Romano non risultano più accettabili le varie forme di saluti ed esclamazioni tanto comuni nella prima e seconda edizione. La scelta attuale della Chiesa, senza dare giudizi, è di non ritenere più accettabile l'atteggiamento disinvolto e a ruota libera nei confronti della liturgia, una permissività che non è più ammessa per parole alternative o non approvate nelle varie parti della Messa. Non sono più permessi, ad esempio, discorsi estemporanei durante il rito d'ingresso, l'atto penitenziale, ecc. Rimangono invece in quelle parti che l'Istruzione Generale del Messale Romano e le rubriche permettono ancora per commenti e introduzione.

Eppure, nella nostra esperienza di tutti i giorni, quanti preti seguono fedelmente la terza edizione del Messale Romano, o hanno smesso la vecchia abitudine di saluti e congedi superficiali o introduzioni alternative alle preghiere? Ancora una volta, la Chiesa ha cercato di ridurre le opzioni non per diventare più rigida ma per il vivo desiderio di custodire la dignità dei riti, non ammettendo l'abuso dei testi e delle consuetudini che possono essere (e spesso lo sono) in contrasto con la vera fede ortodossa che si manifesta nella Sacra Liturgia. Gli antinomisti cercano di diffamare e demonizzare la Chiesa bollandola di essere un'istituzione patriarcale che vuole solo "tenerci sottomessi e oppressi". C'è da chiedersi se Martin Lutero non venga evocato dagli opinionisti più loquaci che si scagliano contro il Magistero della Chiesa in questi giorni.

Per non sembrare unilaterale, guardiamo però anche all'alternativa dell'antinomismo "liberale". In effetti, ci sono altrettanti antinomisti dalla parte "conservatrice" (chiedo scusa per le crude etichette di 'liberale' e 'conservatore' che sono davvero inappropriate). Molti, sospinti verso espressioni più tradizionali della nostra unica Fede, si trovano in situazioni nelle quali anch'essi sbagliano nel voler modificare i riti secondo la moda antinomista per compiacere le loro esigenze. Non è per esempio raro ascoltare nelle Messe di esequie "Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem", quando gli attuali libri liturgici non permettono una tale alterazione del testo. Oppure, capita che un giovane prete tradizionalista incroci la stola sotto la casula o insista nell'indossare il manipolo, quando i libri liturgici in vigore non li ammettono (per la stola è esplicito, per il manipolo è oggetto di dibattito a vari livelli). Conta molto di più la fedeltà alla liturgia che non dire soltanto ciò che è contenuto nel Messale. C'è bisogno che si osservino tutte le norme e rubriche con la dovuta obbedienza e deferenza all'autorità della Chiesa, perché è l'unico modo che i ministri hanno per essere veramente "ministri, servi e servitori" della Sacra Liturgia, e non legislatori di propria iniziativa.

4. Suggerimenti per la discussione

Infine, alcune riflessioni sul futuro della prassi liturgica:

Per primo, rispondendo alla terza domanda su ciò che si può fare nella Sacra Liturgia, non esiste un'unica soluzione, ma occorre cambiare tutta la mentalità. Cosa non facile e neppure rapida, ma assolutamente necessaria se la Santa Romana Chiesa vuole difendere i suoi riti liturgici. Il primo compito è catechizzare le persone. La maggior parte (preti e laici insieme) semplicemente ignorano quello che i documenti sulla Sacra Liturgia effettivamente dicono. C'è stata tanta disinformazione negli anni e molti (soprattutto sacerdoti) non vogliono riconoscere che forse fanno qualcosa che non è corretto o addirittura illecito! E' fondamentale una ferma comprensione delle norme liturgiche così come sono attualmente, conoscerne la storia, lo sviluppo e come applicarle alla celebrazione dei sacri riti.

In secondo luogo, dobbiamo guidare con l'esempio. Non possiamo aspettarci cambiamenti radicali nel modo di esprimersi dei documenti liturgici, né che le persone si mettano subito in riga appena si confrontano con la verità. Ma se celebriamo la liturgia in modo adeguato al Divino Sacrificio della Messa, usando la terminologia propria, attenti alle rubriche e ai testi, allora c'è la possibilità concreta di aiutare la gente a vedere che non aspiriamo al minimo comun denominatore, ma che è nostro dovere presentare fedelmente la liturgia della Chiesa in punto di principio e in punto di legge.

In terzo luogo, dobbiamo sforzarci di infondere nei nostri fratelli cattolici un più profondo senso di quel che vuol dire essere sottomessi all'autorità. In America abbiamo un senso ultra-sviluppato di libertà individuale che è in contrasto con l'antropologia autenticamente cristiana e la comprensione dell'unità grazie all'autorità. Il rispetto di quella autorità stabilita da Dio stesso è fondamentale per aiutare gli altri a ritrovare una conoscenza più equilibrata e accurata di dove venga la liturgia, a chi la sacra azione è diretta, e la nostra funzione di servitori della liturgia.

5. Conclusione

Non intendevo certo che questa mia conversazione fosse esaustiva. Sono stati scritti interi volumi sulla necessità di una maggiore fedeltà all'autorità ecclesiale, e quei principi si possono ben applicare alla celebrazione della Sacra Liturgia. Ho offerto solo materiale per la riflessione - un modo nuovo di osservare lo stesso problema della "creatività" liturgica e "infedeltà" che hanno imperversato nella Chiesa per secoli.

Non c'è mai stata "un'epoca perfetta" della Chiesa. Sempre combattiamo una battaglia tra di noi, le fazioni di "liberali" e "conservatori", di "progressisti" e "tradizionali" si scontrano costantemente. E non pare esserci una fine in vista. Una tregua a questa lotta infinita arriverà solo quando avremo un più alto senso di rispetto per quello che la liturgia fa, a Chi lo fa, come la si celebra e da dove essa viene.
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(1) antinomismo
Termine creato da Lutero per designare polemicamente la dottrina di Johann Agricola (Eisleben 1494 - Berlino 1566) che dalla tesi della salvezza mediante la sola fede deduceva l’assoluta inutilità delle opere buone, quindi dei precetti del Decalogo. Il termine esprime tuttavia un fatto più antico, e cioè l’avversione di numerosi gruppi cristiani (gnostici e marcioniti nella Chiesa antica; varie sette medievali) contro non solo le prescrizioni rituali, ma l’intero Antico Testamento, sentito come mera costrizione e vincolo, in antitesi al Nuovo Testamento, cioè alla nuova economia della Grazia e della libertà.

Sacrosanto Concilio Tridentino
Sessione VI - 13 gennaio 1547

Canone 19: Chi afferma che nel Vangelo non si comanda altro, fuorché la fede, che le altre cose sono indifferenti, né comandate, né proibite, ma libere; o che i dieci comandamenti non hanno nulla a che vedere coi cristiani: sia anàtema.

Canone 20: Se qualcuno afferma che l’uomo giustificato e perfetto quanto si voglia non è tenuto ad osservare i comandamenti di Dio e della Chiesa, ma solo a credere, come se il Vangelo non fosse altro che una semplice e assoluta promessa della vita eterna, non condizionata all’osservanza dei comandamenti: sia anàtema.

Canone 21: Se qualcuno afferma che Gesú Cristo è stato dato agli uomini da Dio come redentore, in cui confidare e non anche come legislatore, cui obbedire: sia anàtema.

Canone 27: Se qualcuno afferma che non vi è peccato mortale, se non quello della mancanza di fede, o che la grazia, una volta ricevuta, non può essere perduta con nessun altro peccato, per quanto grave ed enorme, salvo quello della mancanza di fede: sia anàtema.
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fonte: http://www.pastormontanus.blogspot.com, 26/01/2012
http://www.pastormontanus.blogspot.com/2012/01/building-pastoral-liturgy-through.html
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri

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