domenica 18 dicembre 2011

Commento di San Tommaso d'Aquino al Padre nostro - III parte







Dacci oggi il nostro pane quotidiano

La domanda è formulata in virtù del dono della fortezza.
Capita molte volte che una persona divenga timida per la sua grande scienza e sapienza e che perciò le sia necessaria la fortezza del cuore perché non si abbatta nelle difficoltà. Ebbene, questa Fortezza la infonde lo Spirito Santo, il quale “dà forza allo stanco e moltiplica il vigore allo spossato” (Is 40,29) e di cui dice Ezechiele: “uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi” (Ez 2,2).

Infusa dallo Spirito Santo, questa Fortezza fa sì che il cuore dell’uomo non si deprima per paura delle prove, ma abbia ferma fiducia che quanto gli è necessario gli verrà dato da Dio. Ecco perché lo Spirito Santo, che dona tale Fortezza, ci insegna a chiedere a Dio il nostro pane. E perciò si chiama “Spirito di Fortezza”.

Nelle prime tre domande si chiedono beni spirituali i quali, sebbene abbiano inizio in questo mondo, avranno il loro conseguimento perfetto solo nella vita eterna. Quando dunque diciamo “sia santificato il nome di Dio”, noi chiediamo che la santità di Dio venga riconosciuta; quando diciamo “venga il tuo Regno”, chiediamo di venire resi partecipi della vita eterna; quando diciamo “sia fatta la tua volontà”, chiediamo che la sua volontà abbia il suo compimento in noi.
Tutte cose queste che, pur cominciando a realizzarsi in questo mondo, non possono avere la loro piena realizzazione che nella vita eterna.

Era perciò necessario che chiedessimo a Dio alcune cose che si possono avere in modo perfetto anche nella vita presente.
A tal fine lo Spirito Santo ci ha insegnato a chiedere le cose necessarie alla vita presente, che possiamo avere pienamente in questo mondo, anche per dimostrarci che pure i beni temporali ci vengono dati da Dio. Ed Egli fa questo facendoci dire: “Dacci oggi il nostro pane quotidiano”.

Con le parole “dacci oggi il nostro pane quotidiano” lo Spirito Santo ci insegna ad evitare cinque peccati nei quali siamo indotti dal desiderio delle cose temporali.

1 Il peccato di chi, spinto da smodata bramosia, cerca ciò che è al di là del suo stato e della sua condizione, non contento di quanto gli spetta. Per esempio, uno che è soldato, non vuole abiti da soldato, ma da conte; uno che è chierico, non vuole vestiti da chierico, ma da vescovo.
Questo difetto distoglie gli uomini dai beni spirituali, perché il loro desiderio è troppo legato ai beni temporali.

Il Signore ci ha insegnato a evitare questo difetto chiedendoci di domandare solo il pane, cioè l’indispensabile alla vita presente, secondo la condizione di ciascuno. Non ci insegnò, quindi, a chiedere cose delicate, scelte e raffinate, ma il pane, senza del quale la vita dell’uomo non può sussistere ed è indispensabile per tutti, come dice il Siracide: “indispensabili alla vita sono l’acqua, il pane, il vestito” (Sir 29,28).
Per questo S. Paolo esorta: “Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo” (1 Tm 6,8).

2 - Un secondo peccato è quello di coloro che, per acquisire beni temporali, danneggiano gli altri e li defraudano. E questo è un vizio tanto più pericoloso, quanto più è difficile che il maltolto venga restituito. Dice S. Agostino che “i peccati non vengono rimessi se non si restituisce il maltolto” (Ep. 153,6,20) e S. Gregorio “i ladri mangiano un pane di iniquità”. Ebbene ci viene insegnato a evitare questo vizio, facendoci chiedere il pane “nostro”, non quello degli altri. I ladri, infatti, non mangiano il proprio pane ma quello degli altri.

3 - Un terzo vizio è il soverchio affannarsi.
Ci sono persone che non sono mai contente di quello che hanno, ma vorrebbero avere sempre di più: cosa questa certamente sregolata, perché regola del desiderio è la necessità. Il Saggio chiedeva al Signore: “Non darmi né povertà né ricchezza, ma fammi avere il cibo necessario, perché, una volta sazio, io non ti rinneghi” (Pr 30,8 9). Gesù ci ha insegnato a evitare questo vizio facendoci chiedere il nostro pane “quotidiano”, cioè quello che basta per un giorno o per un solo periodo.

4 - Un quarto vizio è l’ingordigia.
Ci sono persone che vogliono consumare in un solo giorno quanto basterebbe loro per molti giorni. Costoro non chiedono davvero il pane quotidiano, ma il pane di dieci giorni. E poiché per procurarselo spendono troppo, succede che spendano quanto possiedono. La Scrittura dice: “L’ubriacone e il ghiottone impoveriranno” (Pr 23,21) e ancora: “Un operaio ubriacone non arricchirà” (Sir 19,1).

5 - Il quinto vizio è l’ingratitudine.
Chi ha ricchezze facilmente si insuperbisce e non riconosce che tutto quello che ha gli viene da Dio. Questo è un male molto grande, perché tutti i beni che abbiamo, siano essi spirituali o materiali, ci provengono da Dio, come afferma giustamente il re Davide: “Tutto è tuo, Signore... tutto proviene da te” (1 Cr 29,11 14).

Per rimuovere questo vizio ci è perciò stato insegnato a dire: “Dacci il nostro pane”, affinché impariamo che tutte le nostre cose sono da Dio.
E di questo abbiamo anche una prova. Accade talvolta che qualcuno possieda molte ricchezze, eppure da esse non tragga alcuna utilità, ma anzi soltanto danno spirituale e temporale. Alcuni sono infatti periti proprio a causa delle loro ricchezze. Racconta infatti il Qoelet: “Un brutto malanno ho visto sotto il sole: ricchezze custodite dal padrone a proprio danno. Se ne vanno in fumo queste ricchezze per un cattivo affare e il figlio che gli è nato non ha nulla nelle mani” (Qo 5,12 13).

E ancora: “Un altro male ho visto sotto il sole, che pesa molto sopra gli uomini. A uno Dio ha concesso beni, ricchezze, onori e non gli manca niente di quanto desidera; ma Dio non gli concede di poterne godere, perché è un estraneo che ne gode” (Qo 6,1).

Dobbiamo perciò pregare che le nostre ricchezze tornino a nostra utilità. Questo noi chiediamo quando diciamo: “Dacci il nostro pane” vale a dire: “fà che le nostre ricchezze ci siano utili”.
Eviteremo così che capiti anche a noi quanto si legge: “Il suo cibo gli si guasterà nelle viscere, veleno d’aspidi gli sarà nell’intestino. I beni divorati ora rivomita, Dio glieli caccia fuori dal ventre” (Gb 20,14 15).

6 - Un altro vizio troviamo poi nelle cose del mondo, l’eccessiva preoccupazione. Ci sono alcuni, infatti, che già da oggi si preoccupano di ciò che potrà succedere tra un anno e vi pensano continuamente, sempre inquieti, contrariamente a quanto esorta il Signore: “Non affannatevi dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo?” (Mt 6,31).
Per questo il Signore ci insegna a chiedere che ci sia dato oggi il nostro pane, ossia quanto ci è necessario al presente.

Ma ci sono anche altre due specie di pane: quello sacramentale e il pane della Parola di Dio (S. Cipriano, De oratione dominica).
Ebbene, noi chiediamo che il nostro Pane sacramentale, che la Chiesa consacra ogni giorno, perché come lo riceviamo nel Sacramento, così ci giovi per la nostra salvezza. “Io sono il pane disceso dal cielo. - dice Gesù - Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno” (Gv 6,51). Ma S. Paolo avverte: “Chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11, 29).

L’altro pane è la Parola di Dio, dato che “non di solo pane vivrà l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio” (Mt 4,4).
Quando gli chiediamo di darci il pane, chiediamo perciò a Dio che ci dia la sua parola. Da essa proviene quella beatitudine promessa a chi ha fame di giustizia. Infatti, una volta ottenuti i beni spirituali, li desideriamo ancora di più. Da questo desiderio nasce la fame, e dalla fame quella sazietà della vita eterna, alla quale noi tendiamo.


Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori

Vi sono persone che possiedono grande sapienza e fortezza, ma confidano troppo nelle proprie forze e pertanto, non comportandosi saggiamente in quello che fanno, non portano a termine i loro propositi e non tengono conto dell’avvertimento: “Pondera bene i tuoi disegni, consigliandoti” (Pr 20,18).
Bisogna perciò che lo Spirito Santo, che elargisce il Dono di Fortezza, dia anche quello di Consiglio, perché ogni buon consiglio riguardante la salvezza degli uomini viene dallo Spirito Santo.

Il dono del consiglio è indispensabile all’uomo quando è nella prova. Come egli ha bisogno di ricorrere al consiglio del medico quando è ammalato, così quando è spiritualmente infermo a causa del peccato, per guarirne deve chiedere consiglio.

Che il dono del consiglio sia necessario al peccatore, lo dimostra anche Daniele quando scrive: “Accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti” (Dn 4,24).
Ottimo consiglio contro i peccati è quindi quello di fare elemosina e di usare misericordia. Per questo lo Spirito Santo insegna ai peccatori di chiedere nella preghiera: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Nei confronti di Dio siamo debitori dei suoi diritti quando lo defraudiamo. È diritto di Dio che noi facciamo la sua volontà, preferendola alla nostra. Quando noi preferiamo la nostra volontà alla sua, lo defraudiamo di un suo diritto, e questo è peccato.

I peccati sono allora nostri debiti nei riguardi di Dio. Di essi lo Spirito Santo ci consiglia di chiedere il perdono. E noi lo facciamo dicendo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Su questa richiesta possiamo farci tre domande:

1) per quali ragioni si faccia tale richiesta;
2) quando si adempia;
3) che cosa si esige da parte nostra perché si adempia. Ed ecco le risposte.

Da questa richiesta noi possiamo raccogliere due ammaestramenti che sono necessari agli uomini in questa vita.

Il primo, è che gli uomini devono mantenersi sempre nel timore e nell’umiltà. Ci furono infatti alcuni tanto presuntuosi da insegnare che l’uomo è in grado di vivere in questo mondo riuscendo con le sue sole forze a evitare il peccato. Ma questo non fu mai concesso ad alcuno, tranne a Cristo, che possedette lo Spirito senza misura (Gv 3,34), e alla beata Vergine, che fu piena di grazia e nella quale non ci fu alcun peccato, come dice Agostino: “Quando si parla di peccati non voglio che ella sia neppure nominata” (De natura et gratia 36,42).

Ma a nessun altro santo fu dato di non incorrere almeno in colpe veniali, per cui S. Giovanni poté scrivere: “Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi” (1 Gv 1,8). E ne è conferma anche la presente domanda. Sicché ovviamente, conviene a tutti i santi e a tutti gli uomini recitare il Pater noster, dove appunto si dice: “Rimetti a noi i nostri debiti”, riconoscendo così e confessando di essere debitori e di conseguenza peccatori.
Se quindi tu sei peccatore, devi temere e umiliarti.

L’altro ammaestramento è l’esortazione a vivere sempre nella speranza, perché, quantunque peccatori, non dobbiamo disperare, per evitare che la disperazione non ci spinga a commettere altri e più gravi peccati, come accadde ai pagani dei quali dice l’Apostolo: “Presi dalla disperazione, si abbandonarono alla dissolutezza, commettendo ogni sorta di impurità con avidità insaziabile” (Ef 4,19).

Perciò è molto utile sperare sempre, perché, per quanto sia peccatore, l’uomo deve avere fiducia che, se si pente perfettamente, Dio gli perdonerà. E questa speranza si rafforza in noi quando chiediamo: “Rimetti a noi i nostri debiti”.

Questa speranza fu negata dai Novaziani (eretici del 3° secolo), i quali insegnavano che se uno peccava anche una sola volta dopo il Battesimo, non poteva mai più ottenere perdono. Ma ciò non è vero, perché Cristo ha detto: “Io ti ho condonato tutto il debito perché mi hai pregato” (Mt 18,32). Perciò otterrai da Dio perdono da qualsiasi peccato se, pentito, glielo chiederai.

Da tale invocazione nascono dunque il timore e la speranza, dal momento che tutti i peccatori, purché contriti e confessati, ottengono misericordia. Ecco perché questa invocazione era necessaria.

Quanto alla seconda domanda, si deve sapere che nel peccato bisogna distinguere due cose: la colpa con la quale si offende Dio e la pena dovuta per la colpa.

Ebbene, la colpa è rimessa per la contrizione, congiunta col proposito di confessarsi e di soddisfare, come dice anche il salmista: “Ho detto: confesserò al Signore le mie colpe, e tu hai rimesso la malizia del mio peccato” (Sal 31,5). Non c’è quindi motivo di disperare, dato che per la remissione della colpa è sufficiente la contrizione col proposito di confessarsi.

Ma qualcuno potrebbe obiettare: se per ottenere il perdono della colpa basta la contrizione, a che cosa serve il sacerdote? Al che si risponde, che per la contrizione Dio rimette sì la colpa, ma la pena eterna viene tramutata in temporale; per cui il peccatore resta ancora obbligato a scontare questa pena. Se perciò egli morisse senza confessione, non per averla disprezzata ma per non aver avuto modo di farla, andrebbe in purgatorio, dove la pena, al dire di Agostino, è grandissima.

Quando dunque tu ti confessi, il sacerdote ti assolve da questa pena per il potere delle chiavi perché a lui ti sottometti confessandoti. Cristo infatti disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi” (Gv 20,22 23). Pertanto quando uno si confessa una volta, gli viene condonata parte di questa pena, e così quando si confessa di nuovo; di modo che si potrebbe confessare tante volte fino a che non gli è rimessa completamente la pena.

I successori degli Apostoli hanno escogitato anche un’altra maniera per rimettere questa pena, ossia col beneficio delle indulgenze, le quali, per quanti vivono nella carità, hanno valore nella misura e alle condizioni in cui sono concesse. Che il papa possa concederle è fuori dubbio.

Molti fecero infatti numerose opere buone, senza che essi avessero peccato, almeno mortalmente. Le loro opere buone le fecero perciò a beneficio della Chiesa. Similmente, il merito di Cristo e quello della Beata Vergine costituiscono un tesoro comune. Di conseguenza, il Sommo Pontefice, e colui al quale egli ne abbia dato facoltà, può dispensare tale tesoro quando lo crede necessario.
In tal modo i peccati vengono perdonati quanto alla colpa dalla contrizione, quanto alla pena con la confessione e per mezzo delle indulgenze.

Quanto alla terza domanda, va notato che da parte nostra si esige che noi perdoniamo al nostro prossimo le offese da lui fatteci. Per questo diciamo: “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Diversamente Dio non ci perdonerebbe. Sta scritto infatti: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati. Se qualcuno conserva la collera verso un altro uomo, come oserà chiedere la guarigione al Signore?” (Sir 28,2 3).

E ancora: “Perdonate e vi sarà perdonato” (Lc 6, 37). Ed è questo il motivo per cui soltanto in questa domanda è posta la condizione “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”.Se quindi non perdoni non sarai perdonato.

Potresti però obiettare: io pronuncerò la prima parte della preghiera, ossia “rimetti a noi i nostri debiti”, omettendo la seconda “come noi li rimettiamo ai nostri debitori”.Ma credi forse di poter ingannare Cristo? Lui, che compose questa preghiera, ben la ricorda e quindi non potrai ingannarlo. Quello che dici con la bocca, cerca perciò di adempierlo col cuore.

Ma ci si può domandare se chi non si propone di perdonare al suo prossimo, debba dire ugualmente le parole “come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori”. Sembrerebbe di no, perché in tal caso pregherebbe che i suoi debiti non gli vengano perdonati.

Si deve invece rispondere che deve dirle, perché egli non prega a nome proprio, ma a nome della Chiesa che non si inganna. Per questo la domanda viene fatta al plurale.

Bisogna poi anche considerare che il perdono agli altri può venire accordato in due modi.Uno è quello dei perfetti e si ha quando è lo stesso offeso che va a cercare chi lo ha offeso, secondo il consiglio del salmista: “Cerca la pace e perseguila” (Sal 33,15).
L’altro è quello comune a tutti e al quale tutti siamo tenuti, e consiste nel concedere il perdono a chi lo chiede, secondo quanto dice il Siracide: “Perdona l’offesa al tuo prossimo e allora per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati” (Sir 28,2).

A questa domanda si connette la beatitudine beati i misericordiosi. Perché è la misericordia che ci fa aver pietà del nostro prossimo.


E non ci indurre in tentazione

Alcuni peccano e poi, desiderando di ottenere il perdono dei loro peccati, li confessano e se ne pentono, senza però impegnarsi a fondo, come dovrebbero, per non ricadervi.

Ma non è davvero bello che uno, da una parte, pianga i propri peccati quando si pente, e dall’altra accumuli motivi di pianto tornando a peccare. Infatti sta scritto: “Lavatevi, purificatevi, togliete il male dalle vostre azioni, dalla mia vista. Cessate di fare il male, imparate a fare il bene” (Is 1,16).

Per questo motivo Cristo, mentre nella precedente domanda ci insegnava a chiedere perdono dei peccati, in questa ci insegna a chiedere di poterli evitare, ossia di non essere indotti nella tentazione per la quale scivoliamo nel peccato, e ci fa dire: “Non ci indurre in tentazione”.

A proposito di questa domanda, ci poniamo tre interrogativi:

1) che cos’è la tentazione,
2) come e da chi l’uomo viene tentato,
3) come viene liberato dalla tentazione.

Quanto al primo interrogativo, diciamo che tentare non è altro che saggiare o mettere alla prova, sicché tentare l’uomo vuol dire provare la sua virtù. Il che può compiersi in due maniere, secondo le due esigenze della virtù dell’uomo, che sono: operare nel bene, ossia comportarsi bene, ed evitare il male, secondo il monito del salmo: “Stà lontano dal male e fa’ il bene” (Sal 33,15).

La virtù dell’uomo viene pertanto provata alle volte quanto al bene da fare, e altre volte circa il male da evitare.

Nel primo caso, l’uomo è messo alla prova affinché si veda se egli è pronto al bene; e se sarai trovato pronto al bene vuol dire che la tua virtù è grande. Ebbene, qualche volta Dio saggia l’uomo in questo modo, non perché egli non conosca la sua virtù, ma per far sì che tutti la conoscano e sia a tutti di buon esempio.

Fu a questo scopo che egli tentò Abramo e Giobbe; ed è con questa intenzione che egli manda spesso le tribolazioni ai giusti, affinché cioè, sopportandole con pazienza, appaia la loro virtù e facciano maggiore progresso. Dice infatti il Deuteronomio: “Il Signore vostro Dio vi mette alla prova per sapere se amate il Signore vostro Dio con tutto il cuore e con tutta l’anima” (Dt 13,4).
Risulta perciò chiaro che Dio tenta incitando al bene.

Nell’altro caso, la virtù dell’uomo viene messa a prova dall’istigazione al male. Se egli resiste e non acconsente alla tentazione, la sua virtù è grande. Se invece soccombe, la sua virtù è nulla. Ma in questa maniera nessuno è tentato da Dio, perché egli, come dice Giacomo, “non tenta nessuno al male” (Gc 1,13).

In risposta al secondo interrogativo (come e da chi l’uomo viene tentato), si noti che l’uomo viene tentato al male in tre modi:

dalla propria carne,
dal diavolo
e dal mondo.

Dalla carne viene tentato in due maniere.
La carne infatti istiga al male, perché ricerca sempre i propri piaceri nei quali, trattandosi di piaceri carnali, spesso c’è il peccato per il fatto che chi si lascia assorbire da essi trascura quelli dello spirito. Dice al riguardo S. Giacomo: “Ciascuno è tentato dalla propria concupiscenza, che lo attrae e lo seduce, poi la concupiscenza concepisce e genera il peccato(Gc 1,14).

La carne poi tenta distogliendo l’uomo dal bene. Mentre infatti lo spirito, per quanto dipende da lui, si diletta sempre dei beni spirituali, la carne col suo peso gli è di impaccio, perché “un corpo corruttibile appesantisce l’anima” (Sap 9,15).

S. Paolo scrive in proposito: “Acconsento nel mio intimo alla legge di Dio, ma nelle mie membra vedo un’altra legge, che muove guerra alla legge della mia mente e mi rende schiavo della legge del peccato che è nelle mie membra” (Rm 7,22 23).
E questa tentazione della carne è molto grave perché questo nostro nemico, cioè la carne, è congiunto a noi; e, come dice Boezio, “non c’è per noi peste più nociva di un nemico che sia della nostra famiglia” (De consolatione philosophiae III,5).Contro la carne perciò si deve vigilare: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione” (Mt 26,41).

A sua volta, il diavolo tenta con estrema violenza.
Una volta infatti che si abbia vinta la carne, si scatena questo altro nostro nemico, il diavolo, contro il quale dobbiamo sostenere una grande battaglia: “La nostra battaglia infatti non è contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).Per questo satana è detto espressamente il tentatore (Mt 4,3; I Ts 3,5).

Il diavolo nel tentare usa molta astuzia.
Come un abile capitano che assedia una fortezza, prima studia il punto debole della persona che vuol far cadere e poi la tenta là dove la scorge più vulnerabile.
Perciò una volta che gli uomini hanno resa inoffensiva la propria carne, Satana li tenta in quei vizi verso i quali sono più inclinati, quali l’ira, la superbia ed altri vizi spirituali. Dice S. Pietro: “Il vostro nemico, il diavolo, come leone ruggente va in giro, cercando chi divorare” (1 Pt 5,8).

Quando poi egli tenta, mette in atto due espedienti.
Da principio non propone subito alla persona tentata un oggetto palesemente cattivo, ma qualcosa che abbia l’apparenza di bene, per stornarla inizialmente in tal modo dal suo proposito fondamentale e poterla poi in seguito indurre più facilmente al peccato, una volta che è riuscito a distoglierla sia pure di poco dal bene: in altre parole, “Satana si maschera da angelo di luce” (2 Cor 11,14).

In seguito poi, quando l’ha indotta al peccato, la lega talmente alla colpa da impedirle di distaccarsene, perché, al dire di Giobbe, “i nervi delle sue cosce si intrecciano saldi” (Gb 40,17).Cosicché due cose fa il diavolo: prima inganna e poi trattiene nel peccato chi ha ingannato.

Il terzo tentatore è il mondo, il quale tenta anch’esso in due maniere.

Prima di tutto con un eccessivo e smoderato desiderio dei beni temporali, perché come dice l’Apostolo: “L’attaccamento al denaro è la radice di tutti i mali” (1 Tm 6,10).

Servendosi dei persecutori e dei tiranni, tenta poi anche incutendo terrore, per cui dice il Libro di Giobbe: “Anche noi siamo avvolti nelle tenebre” (Gb 37,19) e S. Paolo aggiunge: “Tutti quelli che vogliono vivere piamente in Cristo Gesù saranno perseguitati” (2 Tm 3,12). Ma il Signore ci rassicura: “Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima” (Mt 10,28).

Dalle cose dette risulta perciò chiaro che cos’è la tentazione e come e da chi l’uomo viene tentato.

Rimane da vedere in qual modo l’uomo venga liberato dalla tentazione.Su quest’ultimo punto va notato che Cristo ci insegna a chiedere non di non essere tentati, ma di non essere indotti nella tentazione.
Se infatti l’uomo vince la tentazione merita la corona; ed è per questo che Giacomo ci ammonisce: “Considerate perfetta letizia, miei fratelli, quando subite ogni sorta di prove” (Gc 1,2), e il Siracide aggiunge: “Figlio, se ti presenti per servire il Signore, preparati alla tentazione” (Sir 2,1).
Ecco perché ci viene insegnato a chiedere di non essere indotti nella tentazione prestandole consenso; e S. Paolo commenta: “Nessuna tentazione vi ha finora sorpresi se non umana; infatti Dio è fedele e non permetterà che siate tentati oltre le vostre forze, ma con la tentazione vi darà anche la via d’uscita e la forza per sopportarla” (1 Cor 10,12).Essere tentati è infatti cosa umana, ma consentirvi è cosa diabolica.

Forse Dio induce al male dal momento che ci fa dire: “non ci indurre in tentazione”?
Rispondo che si dice che Dio induce al male nel senso che lo permette, in quanto, cioè, a causa dei suoi molti peccati precedenti, sottrae all’uomo la sua grazia, tolta la quale, egli scivola nel peccato. Per questo noi diciamo col salmista “Non abbandonarmi quando declinano le mie forze” (Sal 70,9).

Dio però sostiene l’uomo, perché non cada in tentazione, mediante il fervore della carità che, per quanto sia poca, è sufficiente a preservarci da qualsiasi peccato. Infatti che “le grandi acque non possono spegnere l’amore” (Ct 8,7).Lo sostiene inoltre col lume dell’intelletto, col quale ci istruisce sulle cose da fare; poiché, come dice il Filosofo: “Ogni peccatore è un ignorante”.

E, siccome Dio per bocca sua aveva promesso: “Ti farò saggio, t’indicherò la via da seguire” (Sal 31,8), questo dono Davide lo chiedeva invocandolo: “Signore mio Dio, conserva la luce ai miei occhi, perché non mi sorprenda il sonno della morte, perché il mio nemico non dica: l’ho vinto” (Sal 12,4 5).Noi otteniamo tutto questo col Dono dell’Intelletto, mediante il quale, se non consentiamo alla tentazione, conserviamo un cuore puro, del quale viene detto “Beati i puri di cuore” (Mt 5,8).In questa maniera perverremo alla visione beatifica, alla quale ci faccia giungere il Signore.

Nessun commento:

Posta un commento