giovedì 20 ottobre 2011

La splendida lezione di Inos Biffi su «theòs» e «lògos». Teologo a chi?







«Di Biffi arguto e mordace non ce n'è soltanto uno, nell'Italia cattolica che fa i conti con se stessa dopo centocinquant'anni tutti di corsa». Così inizia l'intervista di Marco Burini su «Il Foglio» di sabato 15 ottobre a monsignor Inos Biffi, direttore dell'Istituto di Storia della teologia, nonché ordinario emerito di teologia sistematica e di storia della teologia alla Facoltà teologica dell'Italia Settentrionale (e docente delle stesse materie presso la Facoltà di teologia di Lugano).

Il risultato è uno splendido squarcio sulla buona teologia («che non è quella aperta al mondo, ma quella aperta a Dio»), sugli ingredienti necessari affinché un uomo possa essere ritenuto un teologo («Giovanni Battista Guzzetti affermava che per essere teologi bisogna avere una testa, dei testi [ossia una biblioteca] e vent'anni di studio»), sulla genealogia di quel «disio di sé veder n'avvora» di cui parlava Dante. La convinzione di Inos Biffi, infatti, è «che la teologia non è priva di padre e di madre; che non nasce oggi e non inizia con noi; che prima di noi non c'è stato un diluvio teologico e anche che, se si parla e si scrive, lo si deve fare per farsi capire».

Di grande interesse le osservazioni che l'autore di Per continuare a sentirci cristiani (Milano, Jaca Book, 2011, pagine 160, euro 14) fa sul secondo Concilio ecumenico nella storia della Chiesa. «Non si può assolutamente parlare del Vaticano II come di una censura e rottura rispetto al magistero precedente. Parlerei di continuità e di approfondimento. In ogni caso, mi chiedo quanti abbiano letto davvero tutti i documenti del concilio. Chi l'ha fatto, si accorge che la tradizione cristiana ne è la sostanza». E se era senza dubbio necessaria una nuova impostazione teologica, «il concilio in parte ne è il frutto, in parte ne pone le premesse». Per solito, quando si parla del Vaticano II, un termine che ritorna sempre è «aggiornamento», e anche qui il professore centra il bersaglio: «l'aggiornamento è un linguaggio nuovo che dice l'antico. Perché non è la fede che deve aggiornarsi al mondo; è il mondo che deve aggiornarsi alla fede».

Nel ripercorrere il suo itinerario di formazione, Inos Biffi racconta di sé -- e della «sua» teologia -- molto più di quanto non risulti prima facie. «Quando chiesero a Tommaso come si fa a diventare teologi, rispose: mettendosi alla scuola di un buon maestro di teologia. Al seminario di Venegono ho avuto la fortuna di avere maestri come Carlo Colombo, un grande teologo che fu poi al servizio di Paolo VI e che sapeva unire tradizione e innovazione. Per il mio impianto teologico -- continua Biffi -- sono stati determinanti autori come Chenu e Leclercq, e figure come Scheeben e Newman. Ho conosciuto De Lubac che, insieme con Chenu, mi ha fornito illuminanti indicazioni sulla mia tesi riguardante I misteri di Cristo in Tommaso d'Aquino. Non mi sentivo invece in sintonia con Rahner, dall'intelligenza estremamente penetrante e sistematica, ma troppo influenzato da Heidegger». Il faro era e resta l'Aquinate: «sono semplicemente uno che ha cercato di comprendere san Tommaso e ne è rimasto conquistato».

Biffi prosegue ricordando la sua formazione filosofica. Oltre che la frequentazione decennale con il gesuita belga André Hayen, «ho avuto la fortuna di studiare in Cattolica con Gustavo Bontadini e Sofia Vanni Rovighi, una donna di grande libertà intellettuale, molto competente. Non chiacchierava sugli autori, come spesso avviene, conosceva le fonti di prima mano. Grazie a lei ho conosciuto Husserl, l'autore che ho studiato di più dopo Tommaso, Bernardo e Anselmo» (era del resto proprio la Vanni Rovighi -- ricorda Biffi -- a dire di non seguire più Heidegger «da quando questi da filosofo si era messo a fare l'oracolo»).

In stimolante equilibrio tra tradizione e innovazione, tra teologia dell'intellectus e teologia dell'affectus, Biffi conclude osservando che se «è innegabile che si vanno smontando istituzioni, mentalità ed espressioni già segnate da spirito cristiano, vedrei anche dei segni di risveglio. La nuova evangelizzazione non è altro che la vecchia evangelizzazione, cioè l'annuncio del Vangelo, quello di ieri, di oggi e di sempre. È l'annuncio di Gesù Cristo, senza del quale non c'è né umanità vera né umanesimo compiuto. È quello che il credente e il teologo non devono cessare di proclamare e di insegnare, senza lasciarsi deprimere di fronte al rifiuto o all'inaccoglienza, e soprattutto non impegnandosi a piacere a ogni costo».

L'Osservatore Romano - 19 ottobre 2011

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