giovedì 22 settembre 2011

La Mediazione sacerdotale


Pubblichiamo un altro articolo di Don Enrico Bini, redatto nel gennaio del 1990.



di Don Enrico Bini - Gennaio 1990


In questi ultimi tempi, è assai difficile incontrare testi nella teologia attuale, che parlino del valore della mediazione del sacerdote all’interno della comunità ecclesiale. Anzi, non è infrequente che molti autori improntino le proprie visioni del ministero ordinato misconoscendo il valore del concetto di mediazione.

Quali sono i motivi di questo oblio? Si può svalutare la funzione della mediazione senza compromettere la stessa natura del sacerdozio?

Eppure, il Concilio Vaticano Secondo in due passi della Lumen Gentium ha confermato la validità della mediazione sacerdotale, mettendo bene in evidenza che l’unica e assoluta mediazione di Cristo è variamente partecipata sia dai fedeli sia dai ministri ordinati.

Il concilio tiene a sottolineare la complementare verità della centralità della mediazione di Cristo, fonte di tutto il sacerdozio e della realtà della mediazione del sacerdozio ministeriale.

In questa prospettiva si manifesta la ministerialità del sacerdote, intesa innanzitutto come servizio incondizionato a Cristo, e quindi totalmente orientato a cooperare per l’unione di ogni uomo con Dio, che è il fine ultimo della sua missione.

A questo proposito il Concilio afferma: “(i presbiteri) partecipando, secondo il grado proprio del loro ministero, alla funzione dell’unico mediatore Cristo, essi annunciano a tutti la divina parola” (Lumen Gentium, 28).

Si potrebbe aggiungere che questa mediazione si estende a tutta l’attività sacerdotale, soprattutto nei sacramenti. Questa singolare funzione pone il sacerdote in una particolare collocazione nella Chiesa, quella di situarsi tra Dio e il popolo. La singolare condizione del prete rende evidente la natura paradossale del sacerdozio, e in fondo la sua ragion d’essere.

L’apostolo deve parlare e agire in nome e con l’autorità del Signore; la stessa formula “in persona Christi”, secondo una originale definizione di San Tommaso, oltre al significato abituale, indica che la parola del ministro ordinato è l’espressione dell’autorità di Cristo.

All’interno della comunità il sacerdote è spinto ai confini di essa, per continuare la missione di Cristo luce delle genti. Come afferma San Paolo all’inizio della sua attività apostolica: “Così infatti ci ha ordinato il Signore: io ti ho posto come luce per le genti, perché tu porti la salvezza sino all’estremità della terra” (Atti, 13,47).

Inoltre la mediazione sacerdotale deve avere le caratteristiche della visibilità, come sostiene il Concilio di Trento: “visibile et externum”. In questi due termini troviamo la particolarità e la distinzione del sacerdozio ministeriale dal sacerdozio spirituale dei fedeli.

La realtà del sacrificio e del sacerdozio, e quindi della mediazione, presenti in “ogni legge”, afferma ancora il Concilio di Trento, sono in fondo espressione genuina dello spirito religioso dell’uomo, che viene mutato (vetus translatum est) nella nuova alleanza, ma non dissolto.

Mettere in disparte la dimensione della mediazione significa compromettere l’idea stessa del sacerdozio. Lo vediamo nell’esperienza di questi ultimi anni, dove al presbitero si è chiesto di non essere l’uomo del sacro, con i suoi risvolti esistenziali, bensì l’uomo per gli altri, animatore sociale immerso nel mondo.

Quanti hanno creduto di trovare soltanto in questi slogan i nuovi luminosi orizzonti del prete moderno! Senza magari pensare che cosa significa il termine “sacro” nella fede cristiana. Basti riflettere su questa profonda definizione di San Tommaso: “Eucharistia continet aliquid sacrum absolute, scilicet ipsum Christum" (S. Th. III, 73, I, ad3). Il sacerdote non è l’uomo del sacro al livello dello stregone del villaggio, perché il sacro è lo stesso Cristo nella sua presenza in mezzo al suo popolo.


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