lunedì 1 agosto 2011

Due Papi un solo concilio




L'arcivescovo Pericle Felici, come segretario generale del concilio Vaticano II, firmò nel 1966 l'articolo che apriva il numero speciale dell'"Osservatore della Domenica" dedicato all'assise ecumenica. Ne pubblichiamo ampi stralci.



È dell'opera del Papa in questo Concilio che vogliamo parlare. Due grandi figure sono sotto i nostri occhi: Giovanni XXIII e Paolo VI. Se mai vi è stato nella storia Concilio voluto spontaneamente dal Papa e da questo attuato e seguito come "impresa sua", questo è certamente il Vaticano II. Papa Giovanni lo pensò e volle come mosso da una ispirazione celeste: la sua decisione non fu frutto di lunghi ragionamenti, che si sarebbero forse arenati di fronte alle difficoltà facili a prevedersi. Nelle cose grandi il Signore agisce spesso così, perché l'uomo non ne abbia a trarre gloria.

La fiducia nel Signore dette a Papa Giovanni la certezza che il Concilio sarebbe riuscito. Nel mio diario del 10 ottobre 1962, vigilia della inaugurazione, trovo riportate ad verbum le paterne raccomandazioni che allora mi fece il Papa: hanno il sapore di una profezia. Al termine disse, con voce ferma e con lo sguardo proteso verso l'avvenire. "Il Concilio riuscirà".

Giovanni XXIII per il Concilio visse e per il Concilio morì. Seguì da vicino i lavori che possiamo chiamare di "avviamento"; assisté assai spesso dal suo studio alle Congregazioni generali, per mezzo delle telecamere a circuito chiuso che erano state istallate nell'Aula Conciliare; intervenne con la sua autorità a dirimere alcune questioni sorte nei primi passi del Concilio. Ma il suo merito più grande fu di aver dato prima alla preparazione poi al Concilio un grande respiro, un immenso soffio di vita, che valicava i confini della Chiesa.

In questo il Papa non fu mai solo: coloro, che egli chiamò a prender parte della sua sollecitudine, misero ogni impegno per assecondarne l'opera. Ne è testimonianza la documentata approvazione che egli volle dare, con paterna gratitudine, ai suoi collaboratori. Il lavoro del Concilio ha trasformato, molte volte migliorato il lavoro di preparazione: e questo era previsto e doveva avvenire. Ma quanta ricchezza di dottrina era già contenuta negli schemi preparati e quale tesoro essi costituiranno per gli studiosi di domani.

Una parola di Giovanni XXIII, che ha fatto fortuna ma che non di rado è stata fraintesa, è "aggiornamento della Chiesa". Chi ha conosciuto da vicino Papa Giovanni e ha saputo stimare la ricchezza della sua mente e del suo cuore, attinta e alimentata dalle pure fonti della tradizione; chi per poco percorre le tappe della sua vita ecclesiastica, che ebbe i primi bagliori nell'ambiente del Seminario Romano, a cui egli rimase sempre incomparabilmente affezionato; chi legge le pagine edificanti del Giornale dell'anima oppure i numerosi discorsi del Papa nella preparazione del Concilio, può rendersi facilmente conto del senso che egli dava a questa espressione così piena di vita. La Chiesa si aggiorna nutrendosi della vera dottrina di Cristo, infiammandosi del suo vero amore, rispettando ed obbedendo alla volontà di Cristo e di chi nella Chiesa in suo nome esercita l'autorità. Ogni cedimento alle volubili passioni umane, alle dottrine che "accarezzano le orecchie", alle esigenze di una situazione presente che non è secondo il piano divino della salvezza, non è aggiornamento, né rinvigorimento: è invecchiamento spirituale e rovina per la Chiesa.

Papa Giovanni ha offerto la sua vita per il Concilio. Qualche giorno prima della morte, il 25 maggio, gli inviai una lettera di devozione e di augurio per la sua salute. Mi fece rispondere che mi era vicino e che anche lui lavorava per il Concilio "anche e soprattutto adesso". Pochi giorni dopo il suo sacrificio era consumato. Quella luce che brillò alla finestra dell'ultimo piano del Palazzo Apostolico, sulla sera del 3 giugno 1963, fu come un faro di speranza acceso sul mare sconvolto del mondo.

Paolo VI raccolse l'eredità grande e difficile con animo trepidante, come Egli stesso confessò, ma con risolutezza, facendone il programma del suo Pontificato. Di temperamento diverso dal suo predecessore, portava tuttavia all'impresa lo stesso entusiasmo e la stessa grandezza d'animo: ne ebbi una personale conferma nella prima udienza che Egli ebbe la bontà di concedermi il 5 luglio, a circa due settimane dalla sua elezione. Papa Montini prendeva il timone di una navigazione non certo facile, ma aveva al suo attivo una duplice esperienza di immenso valore: quella di Prosegretario di Stato, integrata pastoralmente dal governo della Chiesa ambrosiana, e l'esperienza che gli veniva dall'aver partecipato alla preparazione del Concilio, come Membro della Commissione Centrale e della Commissione Tecnico-Organizzativa, e quindi ai lavori del primo periodo del Concilio, quale Padre Conciliare e Membro del Segretario degli Affari Straordinari. Il nuovo Papa quindi conosceva bene le diverse istanze e tendenze che si manifestavano in seno alla grande assemblea.

Ebbi io l'onore di comunicare al Cardinale Montini la sua nomina a Membro della Commissione Centrale Preparatoria. Ricordo ancora le sue parole: "Quale contributo potrò io dare ai lavori di un'Assemblea così eletta?". Risposi subito che il suo contributo sarebbe stato grande e assai utile. Accettò con umiltà.

Nei tre periodi del Concilio, celebratisi sotto il suo pontificato, Paolo VI ha svolto un'opera illuminata, saggiamente stimolatrice ed equilibratrice. Essa si è mantenuta sempre nella sfera competente al Capo dell'Assemblea, cui per divino mandato spetta di guidare e di confermare i Fratelli. Salvo pochissimi casi, in cui il Papa, prevenendo la discussione conciliare su temi che non erano iscritti nell'agenda del Concilio, ha avocato al suo giudizio di Pastore Supremo alcune questioni particolarmente delicate, l'opera del Papa è stata sempre sommamente rispettosa della libertà dei Padri e del lavoro delle Commissioni.

Riguardo a quest'ultime si è talora dimenticato che esse erano organismi non di deliberazione, ma solo di preparazione e di studio: qualunque intervento quindi che contribuisse a chiarire e approfondire il tema studiato, trovava qui il suo luogo naturale. E qui il Papa interveniva, come era suo diritto e talora anche dovere, avendo egli la possibilità di conoscere e di valutare tutte le legittime istanze dei Padri. Ma giammai egli si è sovrapposto alle Commissioni, pur potendolo fare. In un caso, che potremmo dire tipico, quello della Nota praevia explicativa sullo Schema De Ecclesia, il Papa, che desiderava la chiarezza in una questione così discussa, come era appunto il potere e la collegialità episcopale, limitò la sua azione ad invitare la Commissione a dare opportune spiegazioni su quanto nel testo veniva asserito: e quindi fece leggere in Aula la nota preparata dalla Commissione, perché i Padri, nel votare, avessero ben presente il significato del testo sottoposto al loro suffragio.

Un altro esempio dell'opera saggiamente moderatrice del Papa si è avuto nell'iter dello schema sulla divina rivelazione. Per le vicende che avevano accompagnato il dibattito nel primo periodo e per la diversità di tendenze degli studiosi, che avevano avuto riflesso nell'Aula conciliare, la redazione di tale schema si dimostrò assai laboriosa. Il Papa, al momento giusto, intervenne presso la Commissione, aiutandola a raggiungere quella formulazione, che raccolse il quasi unanime consenso dei Padri.

Paolo VI ha dimostrato sempre una singolare premura perché il Regolamento venisse osservato nella lettera e nello spirito. Infatti egli non ha mai derogato ad esso: ne è stato anzi il custode geloso. Qualora veniva mossa una querela, disponeva sempre che la vertenza fosse risolta nell'ambito del Regolamento. Proprio per esser fedele a questo e per salvaguardare, quindi, la libertà dei Padri, che ne richiedevano l'osservanza, non volle derogare alla decisione presa legittimamente dal Consiglio di Presidenza - come ebbe anche a confermare il Tribunale Amministrativo - di rinviare al quarto periodo la votazione sullo schema di Dichiarazione sulla Libertà Religiosa.

Quanto l'atteggiamento del Papa, in questo come in altri casi simili, sia stato utile per il lavoro del Concilio e per il miglioramento anche sostanziale degli schemi lo sappiamo in gran parte e lo dimostrerà più ampiamente la storia del Concilio.

Pioveva e faceva freddo la mattina di Natale del 1961, quando nell'atrio della Basilica di S. Pietro, davanti al Capitolo Vaticano, lessi la Bolla di indizione del Concilio. Per quanto già deciso dal Papa, non era ancora indicato il giorno d'inizio, che venne annunziato solo il 2 febbraio dell'anno successivo.
L'8 dicembre 1965, quando ai piedi del trono pontificio lessi il Decreto di chiusura del Concilio, il cielo era sereno, l'atmosfera mite: anche nelle condizioni del tempo traspariva il sorriso dell'Immacolata. Mentre, con voce commossa, leggevo le brevi frasi, con cui si dichiarava chiuso il grande evento, molti ricordi affiorarono nella mia mente e due figure brillarono di intensa luce, ai cui nomi i Padri e la folla applaudirono: Paolo VI, che era al centro della grande assemblea e, lieto del felice esito, decretava la fine del Concilio, e Giovanni XXIII, autore e primo ispiratore del grande sinodo, il quale sorridente benediceva dal cielo.

Fonte: L'Osservatore Romano, 31 luglio 2011

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