giovedì 7 luglio 2011

Il Papa contro il Concilio? Secondo Andrea Grillo sì





di Don Alfredo M. Morselli



Sul settimanale cattolico modenese Nostro Tempo (3 luglio 2011), è apparsa un’intervista di Stefano Malagoli al prof. Andrea Grillo; questi, rispondendo alle domande del giornalista, non ha lesinato critiche al Papa, a motivo della recente istruzione della Pontificia Commissione Ecclesia Dei Universae Ecclesiae.
Le critiche da parte di Andrea Grillo al nuovo corso liturgico benedettiano non sono certo una novità [1]; ma, tra le ultime dichiarazioni rilasciate al settimanale modenese, ve ne sono alcune particolarmente gravi; l’intervistato infatti sostiene l’incompatibilità della generosa normativa di Benedetto XVI a favore dell’antica liturgia, niente meno che con quanto richiesto dal Vaticano II.
Se così fosse, proprio Benedetto XVI, che fa dell’ermeneutica della continuità un’architrave del proprio pontificato, cadrebbe nella più clamorosa delle contraddizioni.
Mi pare quindi doveroso prendere in esame le affermazioni del Prof. Grillo e vedere se queste sono fondate o meno.

Queste le proposizioni che ci interessano:
“… il Concilio Vaticano […] addita sette punti in cui il rito del 1962 (di Pio V) doveva essere modificato, mirando a maggior ricchezza biblica, alla preghiera universale, all’omelia, alla lingua parlata, all’unità delle due mense, alla concelebrazione, alla comunione sotto le due specie.
Il rito di Paolo VI dà risposta esplicita a questa richiesta, mentre il rito del 1962 non può darla, perché è precedente a quella autorevole richiesta. Essere nutriti da questi 7 (sic) elementi nuovi è possibile, sostanzialmente, solo nel regime inaugurato dalla Riforma (sic) liturgica. (N.B.: comunione minuscolo, Riforma maiuscolo; n. d. r.)”.
Ci sarebbero quindi, secondo Andrea Grillo, sette elementi nuovi, richiesti dal Concilio, di cui sarebbe impossibile nutrirsi con il Messale del 1962. Rispondo a queste accuse con tre nego simpliciter e quattro distinguo.


1) I tre nego.

Si tratta della lingua parlata, dell’omelia, e dell’unità delle due mense.



1.1.) È chiaro e lampante che è la prassi liturgica post-conciliare che contraddice il testo del Concilio, che invece prescrive l’uso della lingua latina nella liturgia.
S.C. 36. L'uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini.
Dato però che, sia nella messa che nell'amministrazione dei sacramenti, sia in altre parti della liturgia, non di rado l'uso della lingua nazionale può riuscire di grande utilità per il popolo, si conceda alla lingua nazionale una parte più ampia, specialmente nelle letture e nelle ammonizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.


S.C. 54. Nelle messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture e nella « orazione comune » e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell'art. 36 di questa costituzione. Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell'ordinario della messa che spettano ad essi. Se poi in qualche luogo sembrasse opportuno un uso più ampio della lingua nazionale nella messa, si osservi quanto prescrive l'art. 40 di questa costituzione.
Oggi, in pratica, è ai fedeli partecipano alla nuova Messa che è reso impossibile essere nutriti da quanto chiede il Concilio, e non ai fedeli che partecipano alla Messa celebrata nella forma straordinaria; questi sì che sono nutriti da quanto prescrive la Sacrosanctum Concilium.
Le letture che possono essere proclamate in lingua volgare sia nella Messa letta che in quella cantata, rispondono poi alla richiesta di una parte più ampia alla lingua nazionale, richiesta dal testo conciliare; più ampia non vuol dire esclusiva. L’attuale prassi liturgica costituisce forse il maggior allontanamento da quanto il Vaticano II prescrive in materia.


1.2.) Per quanto riguarda l’omelia, questa è dichiarata parte integrante della liturgia, niente meno che nell’enciclica Mediator Dei di Pio XII.
“Dovunque i Pastori possono radunare un nucleo di fedeli, erigono un altare sul quale offrono il Sacrificio, e intorno ad esso vengono disposti altri riti adatti alla santificazione degli uomini e alla glorificazione di Dio. Tra questi riti […] l'omelia con la quale il Presidente dell'assemblea ricorda e commenta utilmente i precetti del Divino Maestro, gli avvenimenti principali della sua vita, e ammonisce tutti gli astanti con opportune esortazioni ed esempi”

Se mi si obbietta che in molte Messe la predica veniva omessa, rispondo che non è certo necessaria una riforma per dare importanza reale all’omelia; sarebbe bastato insistere – a stretto rigore logico – con quanto era già considerato importante nei documenti ufficiali. In ogni caso, non c’è assolutamente contraddizione tra l’omelia e la forma straordinaria, e niente impedisce a chi celebra con il Messale del 1962 di curare particolarmente la predicazione.


1.3) L’unità delle due mense.

Qui proprio non capisco le affermazioni del prof. Grillo: anche se l’espressione unità delle due mense è relativamente recente, non vedo quale opposizione vi possa essere su questo punto tra il Concilio e la forma straordinaria. Tanto più che la stessa espressione non compare neppure nella Sacrosanctum Concilium.


2. I quattro distinguo.

Si tratta della maggior ricchezza biblica, della preghiera universale, della concelebrazione e della comunione sotto le due specie.



2.1.) Maggior ricchezza biblica.

È senza dubbio vero che il Concilio chiede una lettura della Sacra Scrittura più abbondante nelle sacre celebrazioni:
S.C. 35. “Affinché risulti evidente che nella liturgia rito e parola sono intimamente connessi:

1) Nelle sacre celebrazioni si restaurerà una lettura della sacra Scrittura più abbondante, più varia e meglio scelta”.

S.C. 51. “Affinché la mensa della parola di Dio sia preparata ai fedeli con maggiore abbondanza, vengano aperti più largamente i tesori della Bibbia in modo che, in un determinato numero di anni, si legga al popolo la maggior parte della sacra Scrittura”.
Ma ci dobbiamo chiedere se è sufficiente aumentare la quantità delle letture per obbedire al Concilio. Mai si è avuta, in una liturgia cattolica, una lectio continua che rispondesse al solo criterio di leggere tutta o gran parte della Bibbia. E questo non lo dice neppure il Concilio, ma si è verificato nell'applicazione della riforma liturgica. Inoltre dobbiamo chiederci che cosa intende il Concilio con le parole si restaurerà una lettura della Sacra Scrittura più abbondante. Evidentemente si fa riferimento ad antichi lezionari… ma sentiamo cosa dice in proposito Mons. Klaus Gamber:
"… un gruppo di riformatori liturgici ha preparato un nuovo Lezionario per la messa e ha saputo farlo rendere obbligatorio dall’autorità ecclesiastica. Questo lavoro di alcuni innovatori ha preso il posto di un ordinamento che vigeva da più di mille anni nella Chiesa romana, e di conseguenza lo ha eliminato.

Era di per sé positivo il fatto che le pericopi del Missale Romanum tridentino venissero arricchite da ulteriori letture. È noto, del resto, che già al tempo dell’Epistolario di san Girolamo, e ancor prima, il rito romano disponeva di una scelta di letture alternative. Talune di queste pericopi aggiuntive, ad esempio alcune per i mercoledì e venerdì per annum, si erano conservate soprattutto nei paesi di lingua tedesca e nel patriarcato di Aquileia fino ai messali a stampa di epoca pretridentina.

Dal punto di vista del rito romano tradizionale, quindi, non vi sarebbe stato nulla da eccepire sul fatto che anche per i giorni feriali si approntassero letture proprie e per le domeniche si stabilissero cicli di letture aggiuntive. È noto che le pericopi domenicali vennero fissate in epoca relativamente tarda, come mostra le lista delle epistole conservata a Würzburg, la quale risale al secolo VIII.

A parte il fatto che il nuovo Lezionario ha eliminato il precedente, e che è stata così interrotta bruscamente un’antichissima tradizione, il liturgista è costretto a rilevare che, nella scelta delle nuove pericopi, sono stati determinanti alcuni opinabili criteri di natura esegetica, mentre sono stati troppo poco rispettati quei criteri liturgici in base ai quali erano sempre stati scelti nella Chiesa i brani per le letture. […]

Inammissibile dovrebbe pertanto essere giudicata la chiusa "Allora si aprirono loro gli occhi ed essi si accorsero di essere nudi", come oggi si può udire in una delle letture della Prima Domenica di Quaresima (anno A), soprattutto se si consideri che, subito dopo, il popolo deve dire "Rendiamo grazie a Dio".

Un tempo, nella scelta dei brani del Vangelo si aveva cura di badare che in essi non mancasse mai il nesso con la celebrazione del mistero eucaristico - come Pius Parsch sottolinea continuamente nel suo Anno della salvezza. Nell’introduzione egli scrive: "Nel Vangelo il Cristo si manifesta e ci parla. Ravvisiamo nel Vangelo non tanto un insegnamento, quanto una epifania (manifestazione) del Cristo. Così il Vangelo perlopiù indica l’azione principale della celebrazione del mistero".

Il nuovo Lezionario, invece, serve - coerentemente con lo spirito che informa il culto protestante - in primo luogo all’ammaestramento e alla "edificazione" dell’assemblea. Il Novus Ordo, evidentemente, è stato preparato da esegeti, non da liturgisti. […]

Gli studiosi della liturgia conoscono (o si suppone che dovrebbero conoscere) i vari lezionari che sono o sono stati in uso nella Chiesa orientale e in quella occidentale. Dovrebbero sapere in base a quali leggi si scelgono le pericopi. Stupisce assai che abbiano trascurato quasi del tutto gli antichi lezionari, alcuni dei quali risalgono ai secoli IV e V. Quale dovizia di ispirazione vi avrebbero trovato! Ma pare piuttosto che consapevolmente abbiano voluto rinnegare la tradizione.

Al secolo V risale la parte più antica del Grande lezionario della Chiesa di Gerusalemme, tramandatoci da manoscritti georgiani. Tutti i segni di un’alta antichità reca la lista copta dei Vangeli; purtroppo non è stata ancora studiata tutta una serie di antichi lezionari provenienti dall’Egitto. Del più antico ordinamento siriaco di pericopi ha trattato il Baumstark. Quanto all’Occidente, sono da ricordare - tra le testimonianze più antiche - la lista dei Vangeli di Aquileia, e l’antico lezionario campano tramandatoci dal famoso Codice Fuldense (lista di Epistole) e in molti evangeli anglosassoni (lista dei vangeli); infine, una liste di epistole che nella sua forma originaria risale a san Pier Crisologo (morto nel 450). Alquanto più recenti sono i lezionari tramandatici nelle antiche chiese ambrosiana, gallicana e mozarabica.

Quanto alla Chiesa romana, molto probabilmente già san Girolamo (morto nel 419/420) approntò un libro di epistole, il Liber comitis, documentato per la prima volta nel 471. Esso potrebbe essersi tramandato, in forma appena modificata, nella già ricordata lista delle epistole di Würzburg, e costituisce il fondamento delle pericopi non evangeliche del Missale Romanum insieme con l’antica lista romana dei vangeli (Capitulare evangeliorum), che però era più ricca di quanto sarebbe risultata nel messale posteriore.

Come nelle altre riforme liturgiche postconciliari, anche nella preparazione dei nuovi lezionari è stata interrotta un’antichissima tradizione (in parte di 1550 anni), senza sostituirla con nulla di migliore. Anche dal punto di vista pastorale, sarebbe stato più prudente conservare l’antico ordinamento del Missale Romanum e, nel quadro di una riforma, consentire la scelta di altre letture ad libitum.

Questa sarebbe stata una vera riforma, ossia un vero ritorno alla forma originaria, e non sarebbe andata distrutta una ricchezza accumulata nei secoli. Così invece si è abbandonata la tradizione della Chiesa sia occidentale che orientale, e si è imboccata la pericolosa via dello sperimentalismo precludendo la possibilità di ritornare in un qualunque momento, senza difficoltà, al passato” [2].

In conclusione, possiamo dire che nella riforma dei lezionari, per dirsi veramente obbedienti al Concilio, non è sufficiente addurre il più ampio uso delle S. Scritture [3] che si è realizzato nella nuova Messa; sarebbe stato necessario tener conto degli antichi lezionari e salvaguardare il profondo legame, presente nel proprio di ogni Messa antica e formatosi in secoli di tradizione, tra mistero che si celebra, antifone, eucologia e letture bibliche.
Inoltre, come afferma Mons. Gamber [4], non sarebbe contrario allo spirito Messale del 1962 un arricchimento dei testi biblici.

Un’ultima postilla: perché lamentarsi di pochi testi biblici nella Messa antica e non dire nulla sull’impietoso sforbiciamento del breviario romano, reso orfano di alcuni salmi imprecatori e di un tesoro di inni buttato alle ortiche? Forse che i salmi sono una Scrittura di serie B? Oppure l’amor proprio viene molto più gratificato da preci inventate, lunghe omelie, considerazioni varie, piuttosto che l’umile recita nascosta dei salmi, in cui l’uomo vecchio ha ben poco da dire?


2.2) La preghiera universale

Anche questa non è contraddittoria con l’antico rito, come prova, ad esempio, la liturgia del Venerdì Santo.
Inoltre c’è da dire che anche all’interno di un documento conciliare si deve distinguere una diversa importanza delle disposizioni.
La mancanza della preghiera dei fedeli non è una opposizione al Concilio, come non lo è una S. Messa feriale in cui le preghiere non si recitano, preferendo, ad esempio, una breve pausa dopo le letture.
E si può anche fare una critica a come la preghiera dei fedeli diventa spesso una raccolta di banalità o di preghiere spontanee, quando invece sia nella liturgia sinagogale (le diciotto benedizioni), da cui in qualche modo derivano le orationes solemnes del rito romano, sia nelle preghiere analoghe nelle liturgie orientali, i testi sono rigorosamente fissati.
E quindi possiamo dire che la preghiera dei fedeli, come viene realizzata oggi, contravviene il Concilio stesso, in quanto ciò costituisce un novum mai visto prima, mentre i testi raccomandano l’omogeneità con quanto precede.
SC 4: “il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati; desidera infine che, ove sia necessario, siano riveduti integralmente con prudenza nello spirito della sana tradizione e venga loro dato nuovo vigore, come richiedono le circostanze e le necessità del nostro tempo”.


2.3) La concelebrazione

Anche in questo caso non possiamo affermare che un sacerdote che preferisce celebrare da solo piuttosto che concelebrare, sia disobbediente al Concilio; la Sacrosanctum Concilium afferma chiaramente che ogni sacerdote mantiene il diritto di celebrare per conto suo. E niente toglie che un sacerdote che celebra abitualmente secondo l’antico rito, possa concelebrare con i confratelli in casi particolari, quali la S. Messa Crismale, in occasioni di funerali, di convegni pastorali, etc., senza svilire la concelebrazione stessa riducendola ad una abitudine.
Quando Giovanni Paolo II, nell’Enciclica Slavorum Apostoli, parlava di cattolicità della Chiesa - sentita come una sinfonia delle varie liturgie in tutte le lingue del mondo, unite in un'unica liturgia, o come un coro armonioso che, sostenuto dalle voci di sterminate moltitudini di uomini, si leva secondo innumerevoli modulazioni, timbri ed intrecci per la lode di Dio da ogni punto del nostro globo, in ogni momento della storia, possiamo considerare come voci di questo coro due geni liturgici differenti e complementari: quello dei riti orientali, che enfatizzano lo splendore della liturgia del giorno di festa con lunghi riti e la concelebrazione: e il genio occidentale che – senza rinunciare allo splendore in momenti particolari – porta avanti l’istanza della necessaria frequente reiterazione sacramentale del santo Sacrifico della Messa.


2.4) La Comunione sotto le due specie.

Anche se la moda liturgica imperante presenta la S. Comunione sotto le due specie come chissà quale conquista o necessità, dobbiamo tener presente due cose:

a) il Concilio è molto equilibrato sull’argomento e parla di concessione della pratica, e non di obbligo o di argomento oggetto di particolare attenzione da parte dei Padri conciliari.
SC 55. “… la comunione sotto le due specie si può concedere sia ai chierici e religiosi sia ai laici, in casi da determinarsi dalla sede apostolica e secondo il giudizio del vescovo”.
b) questo modo di comunicarsi non è assolutamente contraddittorio con il rito antico, tanto che fu concesso agli utraquisti moderati, guidati da Giovanni di Rockycana, con le Compattate di Praga, del 30 novembre 1433.

Teniamo presente che ci sono stati tanti santi infiammati d’amore per la SS.ma Eucaristia (San Francesco, Il Santo Curato d’Ars, S. Pietro Giuliano Eymard…), e nessuno ha mai sentito la necessità di questo modo di comunicarsi. Ai più grandi santi eucaristici della storia della Chiesa non è mai passato per l’anticamera del cervello chiedere la S. Comunione al Calice o vedere un accrescimento della devozione all’Eucaristia o della partecipazione alla Messa, comunicandosi anche con le Specie del vino.
Se i santi sono coloro che più di altri sono guidati dalla Spirito (Rm 8, 14), questo fatto qualcosa vorrà pur dire.
Invece è stata tolta - paradossalmente, ma fino a un certo punto - la festa del Preziosissimo Sangue, parallelamente al diffondersi di eresie che negano il valore soddisfattorio del Sangue di Cristo, sparso nel suo Sacrificio.
La memoria del beato Giovanni XXIII, tanto osannato (tirando abbondantemente l’acqua al proprio mulino) da ambienti progressisti, è in realtà vilipesa in due modi: dimenticando il suo amore per la lingua latina (basta vedere in che conto si tiene la Costituzione Apostolica Veterum Sapientia, firmata dal Beato all’altare della Cenfessione [5]), e la sua devozione al Preziosissimo Sangue (soppressione della festa tanto cara allo stesso Pontefice, come si evince dalla bella eniclica Inde a primis de 30 giungo 1960).
In base a quanto detto, la S. Comunione sotto le due specie non costituisce in sé un elemento che rende inconciliabili Vaticano II e forma straordinaria della S. Messa. Se si vuole onorare il Sangue Divino, si ripristino anche quei modi che sono stati abbandonati, sì in nome del Concilio, ma contro il pensiero e la devozione di chi il Concilio ha voluto.


Conclusione.

L’intervista del Porf. Grillo rivela, oltre agli equivoci sopra denunciati, un vizio di fondo: l’incomprensione radicale che non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del Missale Romanum. Nella storia della Liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto [6], tanto più che il sacro Concilio, obbedendo fedelmente alla tradizione, dichiara che la santa madre Chiesa considera come uguali in diritto e in dignità tutti i riti legittimamente riconosciuti; vuole che in avvenire essi siano conservati e in ogni modo incrementati [7].




NOTE


[1] Cf. ad esempio, http://tinyurl.com/6adra87, http://tinyurl.com/6yroo9m, http://tinyurl.com/6f5dj7g

[2] Klaus Gamber, «La riforma della liturgia romana. Cenni storici. Problematica», trad. it. in suppl. a Una Voce Notiziario n° 53-54, 1980), Roma, 1980, pp. 49-52 (titolo originale: «Die Reform der römischen Liturgie. Vorgeschichte und Problematik», pro manuscripto, 1979).

[3] Interessanti alcuni detti dei Padri del deserto, che confutano una non equilibrata considerazione della lettura ampia, in senso solo materiale, del testo biblico: “Abba Abramo raccontava di un abba di Scete che era scrivano e non mangiava pane. Venne dunque un fratello a chiedergli di scrivere per lui un libro. L'anziano, che aveva il suo cuore immerso nella contemplazione, non scrisse tutte le righe e non mise i segni di interpunzione. Il fratello, avendo preso il libro e volendo mettervi i segni di punteggiatura, trovò che mancavano alcune parole e disse all'anziano: "Mancano alcune righe, abba". Gli disse l'anziano: "Va', prima fa' quello che c'è scritto, poi vieni e ti scriverò il resto". AH, Abramo 3

“Abba Antonio disse: "Al cammello basta poco cibo: lo conserva in se stesso finché non sia rientrato nella sua stalla, poi lo fa risalire, lo rumina finché non entri nelle sue ossa e nella sua carne. Al cavallo invece occorre molto cibo: mangia a ogni momento e subito perde tutto quello che ha mangiato. Ora, dunque, non siamo come il cavallo, cioè non recitiamo le parole di Dio a ogni momento senza compierne nessuna, ma siamo simili al cammello, recitando ciascuna delle parole della santa Scrittura, custodendole in noi finché le abbiamo compiute, perché coloro che hanno compiuto queste parole erano uomini come noi, combattuti dalle passioni" “. Cop Am, 39,10. Testi tratti da S. Chialà – L. Cremaschi (a c. di), Detti editi e inediti dei Padri del deserto, Magnano: Qiqajon 2002, p. 35.

[4] Interessante quanto nel 1982 l’allora Card. J. Ratzinger scriveva di Mons. Gamber: “On n’a plus voulu continuer le devenir et la maturation organiques du vivant à travers les siècles, et on les a remplacés — à la manière de la production technique — par une fabrication, produit banal de l’instant. Gamber, avec la vigilance d’un authentique voyant et avec l’intrépidité d’un vrai témoin, s’est opposé à cette falsification et nous a enseigné inlassablement la vivante plénitude d’une liturgie véritable, grâce à sa connaissance incroyablement riche des sources. En homme qui connaissait et aimait l’histoire, il nous a montré les formes multiples du devenir et du chemin de la liturgie” J. Ratzinger, «Klaug Gamber, L’intrépidité d’un vrai témoin», in Klaus Gamber, La réforme liturgique en question, Le Barroux: Sainte-Madeleine, 1998, p. 8.

[5] “Il 22 febbraio 1962, il Papa Giovanni XXIII nella Basilica di s. Pietro, alla presenza di tutto il clero dimorante a Roma e convocato per l'occasione, nonché davanti ad un gran numero di vescovi e cardinali, nella festa della Cattedra di s. Pie­tro, sulla predella dell'altare della Confessione, ossia sopra la tomba del Principe degli apostoli e sotto la splendente cupola di Michelangelo, firmò solennemente la Costituzione apostolica De Latinitatis Studio Provehendo, che dalle prime sue parole sarà conosciuta come la Veterum Sapientia”. Card. Alfons Stickler, «A 25 anni dalla Costituzione Apostolica «Veterum Sapientia» di Giovanni XXIII. Rievocazione storica e prospettive», Salesianum 2 (1988) 367.

[6] Lettera del Santo Padre Benedetto XVI ai vescovi di tutto il mondo per presentare 
il Motu Proprio “Summorum Pontificum cura” sull'uso della liturgia romana anteriore alla riforma del 1970, 7 luglio 2007.

[7] SC 4.



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