martedì 28 giugno 2011

Alcuni equivoci sulla musica per la liturgia (parte I)







di Aurelio Porfiri

ROMA, martedì, 28 giugno 2011 (ZENIT.org).- Quando si parla di alcuni argomenti, non sempre ci si ferma ad esaminare se le parole e i concetti dalle parole espressi rappresentano veramente ciò che si pensa a priori di condividere. Talvolta usiamo concetti di cui pensiamo avere una idea comune, ma poi ci accorgiamo che in effetti diverse persone intendono diversi significati. Talvolta, come nel nostro caso, il concetto viene piegato volontariamente o involontariamente a diversi significati per servire diverse esigenze, lecite o no. Anche, come vedremo, forzando la stessa logica per arrivare laddove si vuole arrivare.

Negli ultimi decenni, specialmente dopo il Concilio Vaticano II, la musica liturgica ha conosciuto una vita tormentata. Alcuni danno la colpa di questo allo stesso Concilio, altri ritengono che lo stesso sia stato male interpretato. In effetti alcune delle parole che circondano la musica liturgica oggi, se venissero attentamente ponderate, darebbero adito a più di una obiezione. Esse sono usate in modo equivoco. Il termine “equivoco” viene dal latino aequus e vox e significa qualcosa che può essere inteso in modo simile e quindi dare luogo ad errore. In effetti, proprio su una certa ambiguità semantica e concettuale si sono giocati e si giocano tante battaglie sulla musica liturgica. Quindi vorrei cercare di fare un po' di chiarezza su questi concetti in modo che l’argomento possa essere affrontato più serenamente e senza eccessivi patemi d’animo. I concetti che si prestano ad equivoci, a mio avviso, sono i seguenti:

-- La musica liturgica deve essere semplice;

-- Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino;

-- Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio;

-- Bisogna valorizzare la musica e la cultura dei giovani;

-- Rappresentazione della vita come gioia;

-- In Chiesa si suona musica che la gente riconosce come propria;

-- Chi presta un servizio musicale-liturgico lo fa con il cuore e buona volontà, non si deve chiedere più di questo;

-- I professionisti non sono più ben accetti perché vogliono addirittura essere pagati mentre queste cose vanno fatte con spirito di gratuità.

Come si vede e come ciascuno può riconoscere, ci sono molti concetti che hanno fornito base per battaglie di vario genere, ancora in fase di evoluzione. E certamente i problemi non sono limitati all’elenco di cui sopra. A mio avviso, tuttavia, questo elenco rappresenta un campione molto rappresentativo. Vediamoli uno per uno.

La musica liturgica deve essere semplice

Questo è uno dei temi piu’ dibattuti. Molti dicono che la musica del passato, quella della grande tradizione musicale della Chiesa Cattolica non sarebbe più fruibile perché, per permettere al popolo di partecipare, si deve far posto ad una musica liturgica più semplice. Ma qui anche ci si scontra con una accezione fuorviante del termine “semplice”. Ora, prima di tutto bisognerebbe capire da dove deriva il termine “semplice” per evitare di usarlo impropriamente e quindi cadere negli equivoci di cui sopra. “Semplice” viene dal latino sine e plica, con il significato di “senza piega”. Quindi non ha il senso di disadorno, elementare, accessibile, ma quello di qualcosa che ha un’apparenza di perfetta unità. In effetti, la semplicità è la cosa più difficile da raggiungere, la cosa che richiede più sforzo. La musica dei grandissimi compositori sembra semplice non perchè è facile, ma perchè è così vicina ad una certa perfezione che sembra nulla si possa cambiare nel suo svolgimento, è “senza piega”. Purtroppo si equivoca il termine “semplice” con “banale”, si pensa che semplice voglia dire fare le cose con faciloneria. Ma in effetti per ottenere la semplicità è necessaria un’applicazione ancora più ferrea. Quindi, quando si intende che la musica liturgica in alcune sue espressioni deve essere semplice per essere accessibile al canto di tutti, non si dovrebbe mai implicare un abbassamento qualitativo ma semplicemente adombrare una modalità diversa di composizione. In effetti la parola semplicità venne anche associata ai riti stessi nello stesso Concilio:

“I riti splendano per nobile semplicità; siano trasparenti per il fatto della loro brevità e senza inutili ripetizioni; siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli ne abbiano bisogno, generalmente, di molte spiegazioni” (SC 34).

Ora, si fa riferimento alla semplicità ma si rinforza il termine con la parola “nobile”, proprio per far intendere che non si intende abbassare il livello qualitativo ma solo cercare di ripulire la liturgia da alcune sovrastrutture accumulatisi nel tempo. Non si può negare che talvolta, nei testi conciliari, frutto talvolta di compromessi tra fazioni di pensiero opposto, si presenta un carattere che Romano Amerio nell'ormai classico “Iota Unum” (1989) definiva “anfibologico”. Questo termine sta a significare che certe affermazioni possono essere lette in due modi opposti. Quella sopra per esempio, la citazione da SC 34 può fuorviare, specialmente quando si legge che i riti “siano adattati alla capacità di comprensione dei fedeli”. Ma se si legge il documento nella sua totalità si può vedere che non c’è in questa affermazione nessuna volontà diminutiva ma solo il desiderio di eliminare alcune sovrastrutture che nel tempo si erano introdotte nella liturgia. Alcuni hanno interpretato questo passaggio come la riduzione della Messa ad uso di una idea di popolo che non può che essere vaga, essendo quello di “popolo” un concetto indefinito e che non può essere quantificato o qualificato facilmente.

Il Concilio Vaticano secondo ha introdotto le lingue volgari e quindi abolito il latino

Questo è un tipico errore di logica che viene chiamato “ricorso all’autorità”. Praticamente si cita una fonte autorevole per avallare una tesi che in effetti la fonte autorevole non ha mai affermato. Ricordo sempre una situazione in cui mi sono trovato parecchi anni fa. C’era un persona che discuteva con un Diacono sulla opportunità di usare un canto in latino durante la celebrazione. Ad un certo punto il Diacono gli rinfacciava che non si poteva usare il latino perchè il Concilio lo aveva abolito. Io fui sorpreso nel sapere che a mia insaputa era stato convocato un altro Concilio dopo il Concilio Vaticano secondo, perchè per quello che ricordavo di quest’ultimo si affermava:

“L’uso della lingua latina, salvo diritti particolari, sia conservato nei riti latini” (Sacrosanctum Concilium 36, 1).

Nei successivi punti dell’articolo 36 si concedevano maggiori possibilità alle lingue nazionali ma i punti seguenti erano appunto preceduti dal primo articolo che recitava come sopra e che mi sembrava ben lungi dall’abolire la lingua latina. Insomma, non dobbiamo fare i fanatici del latino ma neanche dobbiamo far affermare al Concilio quello che lo stesso non ha mai detto. Quindi la furia contro la musica liturgica in latino non ha veramente ragione di essere e si basa sul fondamentale equivoco sulla concessione di uno spazio più ampio alle lingue nazionali che non voleva dire necessariamente che le stesse avrebbero dovuto de jure sostituire il latino, anche se poi questo è successo de facto. Ma le recenti esortazioni di Papa Benedetto XVI dimostrano come non c’è nessun divieto dell’uso della lingua latina nella liturgia e quindi anche nella musica. Nella esortazione post-sinodale Sacramenctum Caritatis, Papa Benedetto XVI afferma a proposito di grandi celebrazioni:

“Per meglio esprimere l’unità e l’universalità della Chiesa, vorrei raccomandare quanto suggerito dal Sinodo dei Vescovi, in sintonia con le direttive del Concilio Vaticano Secondo: (182) eccettuate le letture, l’omelia e la preghiera dei fedeli, è bene che tali celebrazioni siano in lingua latina; così pure siano recitate in latino le preghiere più note (183) della tradizione della Chiesa ed eventualmente eseguiti brani in canto gregoriano. Più in generale, chiedo che i futuri sacerdoti, fin dal tempo del seminario, siano preparati a comprendere e a celebrare la santa Messa in latino, nonché a utilizzare testi latini e a eseguire il canto gregoriano; non si trascuri la possibilità che gli stessi fedeli siano educati a conoscere le più comuni preghiere in latino, come anche a cantare certe parti in canto gregoriano della liturgia (184)” (Sacramenctum Caritatis 62).

Come si vede, anche in documenti recenti si afferma ben diversamente. Ma anche nei documenti precedenti, come le istruzioni applicative dopo il Concilio, pur concedendo larghissimo spazio alle lingue nazionali, mai si era proibito il latino, nel canto e nella liturgia. Si riteneva che le lingue nazionali avrebbero favorito la partecipazione dei fedeli ma non c’è mai stata una volontà sostitutiva, meramente una volontà suppletiva. La critica più frequente è che la gente non sa il latino. Questo può essere vero ma vorrei ricordare come proprio i giovani che tanto esaltiamo ascoltano quasi esclusivamente musica in lingue straniere. Quindi il problema non è quello di celebrare in una lingua che il popolo non saprebbe, ci si dovrebbe chiedere della opportunità di usare questa lingua nella liturgia. E in effetti qui il discorso porterebbe lontano.

Il popolo deve cantare e quindi il coro è di intralcio

Questo è stato un altro punto completamente frainteso. In questo caso abbiamo l’errore logico che viene definito “falso dilemma”: se A è vero quindi B deve essere falso. Se il popolo deve cantare allora il coro non può cantare perchè intralcia il canto del popolo. Ma questa è una affermazione che non solo non sta nei fatti ma è anche contraria allo spirito di tutte le direttive ecclesiastiche dal Concilio ad oggi. Quello che si voleva evitare è che il canto durante la celebrazione fosse ad esclusivo appannaggio del coro, ma mai si è voluto penalizzare od umiliare il coro nelle celebrazioni liturgiche. Ma purtroppo è quello che succede nelle parrocchie dove sacerdoti poco informati mettono alla porta il coro per una falsa idea di partecipazione, più ispirata ad un vecchio comunitarismo in cui non crede più nessuno che all’autentica dottrina della Chiesa. Quello che si dovrebbe chiedere a questi sacerdoti è di mostrare un solo documento dove viene detto che il coro deve essere escluso dalle celebrazioni. Anzi, se andiamo proprio al documento che viene spesso impugnato da questi interpreti originali del magistero della Chiesa, la Sacrosanctum Concilium, vediamo che la realtà è ben diversa:

“Si conservi e si incrementi con grande cura il patrimonio della musica sacra. Si promuovano con impegno le “scholae cantorum” in specie presso le chiese cattedrali. I vescovi e gli altri pastori d’anime curino diligentemente che in ogni azione sacra celebrata con il canto tutta l’assemblea dei fedeli possa partecipare attivamente, a norma degli articoli 28 e 30” (114).

E cosa dicevano gli articoli 28 e 30? Il 28 avvertiva che nelle celebrazioni liturgiche ogni fedele deve limitarsi a svolgere quanto gli è proprio, non tutti devono fare tutto; il 30 dava alcuni suggerimenti per curare la partecipazione attiva dei fedeli, mai dicendo che questa era escludente il coro e il repertorio proprio del coro. Certo si può discutere sulle modalità della sua partecipazione, ma questa è un’altra questione. In effetti qui c’è il nodo dell’interpretazione del termine partecipazione e la sua distinzione con il partecipazionismo, dove tutti fanno tutto.


fonte: www.zenit.org

Nessun commento:

Posta un commento