domenica 15 maggio 2011

Mauro Piacenza. Le “armi affilate” dell’uomo di Papa Ratzinger alla guida del clero




di Paolo Rodari

La lezione che Mauro Piacenza, prefetto del Clero, attualmente il cardinale più giovane italiano (66 anni), ha tenuto alla Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale, sezione parallela di Torino, è una spada conficcata nello spirito del mondo. Ovvero nel cuore del pensare e del sentire della società odierna la quale ritiene che ciò che il prete cattolico è per vocazione – casto e celibe per amore a Dio e servizio agli uomini – sia un ideale irraggiungibile e, dunque, da rifiutare se non da osteggiare. Papa Benedetto XVI anche per questo ha chiamato Piacenza alla guida di uno dei più importanti “ministeri” della curia romana: perché aiuti i sacerdoti a non cedere, ad “affilare le armi essenziali alla lotta” scrive lo stesso cardinale, così da sbattere di fronte a un mondo votato alla pansessualità e all’ipereroticizzazione la propria scelta dirompente: “Non siamo monaci separati dal mondo, ai quali guardare con occhio sentimentalista, siamo uomini pienamente inseriti nel tempo, ‘nel’ mondo ma non ‘del’ mondo, e testimoniamo, con la nostra scelta celibataria, che Dio c’è, che chiama a sé gli uomini, che può dare significato all’intera esistenza e che vale la pena spendere per lui la nostra vita”.

Joseph Ratzinger conosce Piacenza da tempo. Da lui, un anno fa, ha avuto una reazione significativa alle notizie che rimbalzavano sui media di tutto il mondo e che dicevano che a questo aveva portato il celibato ecclesiastico, a preti repressi che davano sfogo alla propria sessualità castrata abusando di bambini. Piacenza ha organizzato l’anno sacerdotale che si è concluso proprio mentre le accuse contro la chiesa erano più furenti. Il segnale lanciato al mondo fu forte: piazza San Pietro era piena di sacerdoti che pregavano durante una veglia col Pontefice orgogliosi del proprio abito e della propria scelta.
Per molti, anche dentro la chiesa, fu un nuovo inizio verso una sempre necessaria riforma del clero, ovvero un ritorno alle sue origini dopo i venti innovatori del post Concilio.

Il mondo pressa la chiesa. I preti vivono nel mondo e ne subiscono i richiami. Scrive Piacenza che spesso “si crea una situazione di osmosi con la cultura dominante” e che “se non si è vigili si finisce con l’essere anestetizzati attraverso una sorta di flebo che ‘goccia-goccia’ mondanizza”. La rivoluzione degli anni Sessanta-Settanta ha eliminato dal cuore dell’uomo l’idea della “definitività”. Non esiste più una vocazione “definitiva”. Parole come castità e verginità non appartengono più all’orizzonte degli uomini. Per questo la chiesa, riproponendo queste stesse parole, appare distaccata dal sentire comune, a tratti antica. E anche nella chiesa c’è chi pensa così. Ovvio, dunque, leggere le parole di Piacenza come un invito rivolto anche all’interno perché tutti ricordino che “Dio cava figli di Abramo anche dalle pietre e può plasmare uomini equilibrati, riconciliati con la memoria del proprio passato e casti in questo tempo così disorientato e disorientante dal punto di vista psico-affettivo”.

Piacenza, dopo un lungo servizio nella pastorale, studentesca universitaria e culturale a Genova, diocesi di origine, è chiamato a lavorare nella curia romana nel 1990. Dal 1997 capo ufficio del Clero, nel 2000 ne diviene sottosegretario. Nel 2003 Giovanni Paolo II lo chiama a presiedere la Pontificia commissione per i beni culturali della chiesa. Riceve l’ordinazione episcopale dal cardinale Tarcisio Bertone il 15 novembre dello stesso anno. Il 28 agosto 2004 viene nominato presidente anche della Pontificia commissione di archeologia sacra. Nel 2007 il Papa gli chiede di tornare al Clero mentre è prefetto il cardinale brasiliano Claudio Hummes. Uomo di lavoro e di preghiera, è sempre sorridente e accogliente.
Allergico alla demagogia, si esprime con franchezza, evitando l’ecclesiastichese. Come il Papa ha il gusto della musica. Ama la lirica: è infatti autore di un’opera ispirata alle beatitudini applaudita recentemente a Roma al teatro Argentina.

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© Copyright Il Foglio, 15 maggio 2011

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