lunedì 14 febbraio 2011

Nuove chiese. Il Vaticano boccia i vescovi italiani




Su "L'Osservatore Romano" il cardinale Ravasi e l'"archistar" Paolo Portoghesi criticano i nuovi edifici sacri costruiti in Italia col patrocinio della conferenza episcopale. Perché rompono con la tradizione e deformano la liturgia. Un commento di Timothy Verdon

di Sandro Magister






ROMA, 14 febbraio 2011 – Le tre immagini qui sopra accostate raffigurano l'una un particolare della porta in legno della basilica romana di Santa Sabina, del secolo V; un'altra l'interno della chiesa di Santo Stefano Rotondo a Roma, anch'essa del V secolo; e un'altra ancora lo schizzo di una chiesa inaugurata a Milano nel 1981, la parrocchia di Dio Padre.

La domanda è d'obbligo: edifici moderni come il terzo sopra raffigurato sono in continuità o in rottura con la tradizione architettonica, liturgica e teologica della Chiesa?

Varie chiese moderne sono costruite in forma circolare. Così come è il cerchio a caratterizzare i due esempi antichi di arte sacra sopra riprodotti. Ma basta questo a garantire la continuità con la tradizione?

O bastano i criteri estetici per giudicare la qualità di una nuova chiesa?

In questo inizio d'anno, a Roma e in Italia la polemica è esplosa vivace. E non soltanto tra gli specialisti. È entrato in campo "L'Osservatore Romano", il quotidiano della Santa Sede, che in ripetuti interventi ha criticato severamente alcuni dei più celebrati esempi di nuova architettura sacra patrocinati dall'episcopato italiano.

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Ha cominciato il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del pontificio consiglio per la cultura, con una "lectio magistralis" alla facoltà di architettura dell'università "La Sapienza" di Roma riprodotta integralmente dal giornale vaticano del 17-18 gennaio.

Ravasi ha calato fendenti su quelle chiese moderne "nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare".

Niente nomi. Ma il 20 gennaio, di nuovo su "L'Osservatore Romano", l'architetto Paolo Portoghesi ha preso esplicitamente di mira le tre chiese vincitrici del concorso nazionale indetto dalla conferenza episcopale italiana nel 2000, realizzate a Foligno da Massimiliano Fuksas, a Catanzaro da Alessandro Pizzolato e a Modena da Mauro Galantino.

Portoghesi è lui stesso un "archistar" di fama mondiale: la Grande Moschea di Roma porta la sua firma. Da tempo critica alcune delle nuove chiese costruite da architetti di grido col plauso delle gerarchie. Tra le più famose e discusse si possono citare quella di Renzo Piano a San Giovanni Rotondo, sulla tomba di Padre Pio, e quella di Richard Meier nel quartiere romano di Tor Tre Teste.

Questa volta, su "L'Osservatore Romano", Portoghesi se la prende soprattutto con la chiesa di Gesù Redentore a Modena, ideata da Galantino. Ne riconosce i pregi estetici, l'armonia dei volumi, la pulizia razionalista. Riconosce anche l'intenzione dell'architetto di "dare maggior dinamismo all'evento liturgico".

Poi però chiede: "Dove sono i santi segni che rendono riconoscibile la chiesa?". All'esterno – osserva – nessuno, a parte le campane "che però potrebbero trovarsi anche in un municipio". Mentre all'interno "il ruolo iconologico è affidato a un 'orto degli ulivi' sistemato dietro l'altare in un esiguo cortiletto e alle 'acque del Giordano' ridotte a un canaletto di acqua stagnante stretto tra due muri che termina nel battistero".

Ma il peggio, a giudizio di Portoghesi, appare durante la celebrazione della messa:

"La comunità dei fedeli è divisa in due schiere contrapposte con al centro un grande vuoto ai cui due estremi si collocano l'altare e l'ambone. Le due schiere contrapposte e il vagare dei celebranti tra i due poli mettono in crisi non solo la tradizionale unità della comunità orante ma anche quella che è stata la grande conquista del concilio Vaticano II, l'immagine assembleare del popolo di Dio in cammino. Perché ci si guarda in faccia? Perché non si guarda insieme verso i luoghi fondamentali della liturgia e l'immagine del Cristo? Perché i luoghi della liturgia, l'altare e l'ambone, sono contrapposti anziché affiancati? Imprigionati nei banchi, divisi in settori come le coorti di un esercito, i fedeli sono costretti, rimanendo immobili, a cambiare la direzione dello sguardo ora a destra ora a sinistra. La figura del Crocifisso è collocata dalla parte dell'altare e in corrispondenza della schiera di sinistra, con l'inevitabile conseguenza di non essere raggiungibile dallo sguardo di molti dei fedeli se non a rischio di torcicollo".

Portoghesi cita frasi di Benedetto XVI e così prosegue:

"È da augurarsi che questi puntuali interventi dalla cattedra di San Pietro facciano capire a liturgisti e architetti che la rievangelizzazione passa anche attraverso le chiese con la 'c' minuscola e richiede sì lo sforzo creativo dell'innovazione, ma anche un'attenta considerazione della tradizione, che è sempre stata non pura conservazione, ma consegna di un'eredità da mettere a frutto".

E conclude:

"La nuova chiesa di Modena è la dimostrazione lampante del fatto che la qualità estetica dell'architettura non basta per fare di uno spazio una vera chiesa, un luogo in cui i fedeli siano aiutati a sentirsi pietre viventi di un tempio di cui Cristo è la pietra angolare".

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A queste critiche hanno replicato, sul "Corriere della Sera" dell'8 febbraio, sia l'architetto Galantino, sia il vescovo Ernesto Mandara, responsabile delle nuove chiese nella diocesi di Roma.

Galantino ha difeso le proprie scelte architettoniche, sostenendo di aver voluto disporre i fedeli "come intorno al tavolo, ricostruendo idealmente l'ultima cena". E ha ricordato di di aver maturato le sue riflessioni negli anni Ottanta a Milano, con il cardinale Carlo Maria Martini.

Anche il vescovo Mandara ha difeso l'operato suo e della conferenza episcopale italiana:
"Probabilmente se guardiamo al passato troviamo esempi di costruzioni non riuscite che danno ragione al cardinale Ravasi, ma dei risultati degli ultimi anni sono profondamente soddisfatto. Le chiese realizzate esprimono molto bene sia il senso del sacro sia quello dell’accoglienza".

Il 9 febbraio "L'Osservatore Romano" ha riportato entrambe le dichiarazioni di Galantino e Mandara. Ma ha ridato anche la parola a Portoghesi, il quale ha detto:

"Dopo il Concilio ci sono state molte fughe in avanti, in diverse direzioni. La chiesa ha perso specificità, è diventata un edificio come gli altri. La riconoscibilità, invece, è un fatto fondamentale, una tappa di quella ricristianizzazione dell’occidente di cui parla il papa. Quanto all'orientamento della preghiera liturgica, il popolo di Dio in cammino verso la salvezza non può essere statico, si muove verso una direzione; l’ideale sarebbe orientare la chiesa a est, dove il sole nasce. Non dobbiamo aver paura di quella modernità che la Chiesa stessa ha contribuito a creare; ogni generazione ha il dovere di rileggere i contenuti del passato, ma considerando la tradizione come un elemento di forza a cui attingere".

Non solo. Lo stesso 9 febbraio e il giorno successivo "L'Osservatore Romano" è tornato sul tema con due dotti interventi di due esperti, entrambi finalizzati a mostrare i caratteri distintivi della tradizione architettonica delle chiese cristiane.

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Il primo dei due interventi è di Maria Antonietta Crippa, ordinario di architettura al Politecnico di Milano.

Essa mostra come la preminenza data dall'architettura cristiana alle chiese a forma di croce latina si ispira sia alla classicità (Vitruvio con l'analogia tra le proporzioni del corpo e del tempio) sia soprattutto alla visione della Chiesa come corpo di Cristo, e di Cristo crocifisso.

Ma assieme al quadrato, anche il cerchio entra in questa tradizione architettonica. Secondo gli autori medievali, le chiese cristiane "hanno forma di croce per mostrare che il popolo cristiano è crocifisso al mondo; oppure di cerchio per simbolizzare l'eternità".

O anche di croce e di cerchio insieme. Come è avvenuto nel Cinquecento col prolungamento della navata della nuova basilica di San Pietro, inizialmente a pianta centrale nel progetto di Michelangelo.

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Il secondo e ancor più mirato intervento, su "L'Osservatore Romano" del 10 febbario, è di Timothy Verdon, americano, storico dell'arte e sacerdote, professore a Princeton e direttore dell'ufficio per l'arte sacra dell'arcidiocesi di Firenze.

E mostra come le prime grandi chiese a Roma furono costruite, nel secolo IV, proprio assumendo in chiave cristiana due modelli dell'architettura classica: quello longitudinale delle basiliche e quello circolare, a pianta centrale.

A Gerusalemme, la chiesa del Santo Sepolcro edificata dall'imperatore Costantino associa entrambi i modelli. Ma anche a Roma la prima grande chiesa a pianta centrale, quella di Santo Stefano Rotondo del secolo V sorge entro un grande cortile rettangolare.

In ogni caso, le chiese a pianta centrale non sono prive di orientamento, né tanto meno fanno sì che l'assemblea dei fedeli si ripieghi su se stessa. I fedeli vi entrano come in un cammino di iniziazione, fino alla colonna di luce che è al centro dell'edificio e che è Cristo "lux mundi".

Quel Cristo che nel coevo portale di Santa Sabina appare al centro del cerchio celeste e riceve la preghiera "orientata" della donna al di sotto di lui, la Chiesa incoronata come sua sposa.

Questa è la grande tradizione architettonica, liturgica e teologica delle chiese cristiane. Di ieri, di oggi e di sempre.

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