sabato 8 gennaio 2011

Concilio Vaticano II: un concilio pastorale


Alcuni brani dell'editoriale di Fides Catholica 2 (2010), di P. Serafino M. Lanzetta. Una riflessione sul Vaticano II quale concilio pastorale.
Tiene conto del convegno sul Vaticano II, organizzato a Roma dai Francescani dell'Immacolata (16-18 dicembre 2010).



Il Vaticano II: un concilio sui generis?

Potremmo dire che il Vaticano II, perché eminentemente pastorale, è un concilio sui generis, nel senso che è la prima volta che un Concilio viene convocato per parlare al mondo e dire oggi la fede di sempre, facendo leva sull’aggiornamento?
Per diverse ragioni sì, ma non nel senso di voler fare del Vaticano II una meteorite e quindi un Concilio da declassare, lasciandolo al bando di una critica dal sapore antiromano e in definitiva antiecclesiale. Non si dimentichi, infatti, che anche il Concilio di Pavia-Siena (1423-1424), ecumenico anch’esso, come difeso nella tesi d’abilitazione del novello Card. W. Brandmüller, contrariamente al discredito che su di esso circolava, non definì alcun dogma, ma riuscì solo ad emanare quattro decreti, piuttosto disciplinari[1] e poi fu sospeso per contrastare definitivamente il conciliarismo. Fu un Concilio molto importante per preparare poi il Tridentino.
Oggi, però, un altro equivoco spesso ricorrente è la confusione tra dogmatico ed infallibile. Non tutto ciò che è dogmatico è infallibile. Concilio dogmatico non significa per sé infallibile, né tanto meno lo significa concilio ecumenico; come pure concilio pastorale non significa per sé non dogmatico e tanto meno mai infallibile. Dogmatico significa riferimento al dogma della Chiesa, definito o definibile (definitive tenenda): in questi casi la dogmatica è infallibile; ma significa anche riferimento al dogma nei suoi aspetti non infallibili, dottrinali e teologici, quindi in vista di un progresso ulteriore del dato di fede, suscettibili perciò di altri approfondimenti. Non si disprezza il Vaticano II se lo si ritiene infallibile di riflesso, solo quando si richiama a precedenti definizioni dogmatiche o a dottrine definitive tenenda, ma si vuole chiarire la sua natura pastorale, che necessariamente confluisce anche verso la dogmatica. Qui, certo, il discorso si fa più difficile. Pastorale o dogmatico? I due lemmi si intrecciano o si distinguono chiaramente? Il Concilio stesso non riesce a rispondere, tanto meno il post-concilio.

Una sorta di tensione, comunque, tra la pastorale e la dogmatica la si denota già nella fase preparatoria del Concilio. Il Card. Montini, Arcivescovo di Milano, invia una lettera al Segretario di Stato, datata 18 ottobre 1962 (una settimana dopo l’apertura del Concilio), in cui lamentava la «mancata o almeno non annunciata esistenza di un disegno organico…»[2] nel Concilio. Lamentava, in altre parole, i buoni propositi di Giovanni XXIII, ma solo pastorali. Montini proporrà una concentrazione sulla Chiesa come del resto aveva già previsto il Card. Suenens[3].
Scrive a riguardo G. Palazzini:
«Il Vaticano II ha avuto una finalità nuova, almeno nella sua enunciazione e intonazione, un fine pastorale. È chiaro che anche il Vaticano II si è imbattuto in temi dommatici, perché in fondo ad ogni questione pastorale giacciono una o più questioni dogmatiche; come è vero che ogni formulazione di indirizzo pastorale sfocia in definitiva in una norma. Ma questo Concilio ha inteso affrontare tutto con una visione pastorale: far sì che il tono apostolico ispirasse tutte le sue decisioni e si manifestasse per ogni verso»[4].

L. Bettazzi, collocandosi sulla linea della Scuola Bolognese, sceglie anch’egli il titolo “Concilio pastorale”, che a suo dire segnerebbe una “discontinuità moderata” da poter affiancare alla continuità di cui parla Benedetto XVI, una continuità che dovrebbe essere anch’essa moderata. Infatti la “continuità radicale” per Bettazzi è rappresentata da chi,
«svalutando il Concilio Vaticano II per la sua qualifica ‘pastorale’ ritiene che esso abbia esaurito il suo compito in un aggiornamento fatto di una più ampia lettura della Bibbia o della liturgia in volgare, mentre le esperienze di comunione (dai Consigli pastorali ai Sinodi episcopali) vanno ridotte al ruolo di consultazioni facoltative, che non intaccano il ruolo fondamentale della gerarchia»[5].

Bettazzi, però, per chiarire l’apparente contraddizione che nasce da una continuità o discontinuità, si appella anch’egli alla pastoralità del Concilio e dice:
«Ritengo che l’apparente contraddizione possa chiarirsi proprio nella singolare prospettiva di un Concilio ‘pastorale’. Se i Concili ‘dogmatici’ col definire ‘dogmi’ troncavano le contrapposizioni e costituivano dunque quindi ‘discontinuità’ (nel senso che la fissazione per il dopo costituiva una netta diversità rispetto all’ambiguità precedente), un Concilio ‘pastorale’ non rimette in gioco formulazioni dogmatiche e rimane quindi in evidente continuità. Ma questo non toglie che una diversa prospettiva ‘pastorale’ possa portare a vedere le verità di sempre in modo totalmente nuovo da costituire davvero un evento»[6].

Per il vescovo Bettazzi, il vero problema sembrano i concili dogmatici, come Trento, che definendo le verità della fede e condannando gli errori hanno rappresentato una vera rottura con la vita della Chiesa precedente. Sulla linea della Scuola bolognese, l’evento “Vaticano II” è qui la vera e nuova conciliarità. Senza essere più segno di contraddizione?

Con un’espressione emblematica quanto controversa commentava così Carlo Carretto la grazia del Vaticano II, che aveva fatto cadere le mura di Gerico:
«La teologia divide, fratelli! La mistica unisce, – ed è qui il punto a cui il Concilio ci ha portato – quando ci parla di questo “mistero”. Per questo, non diremo mai abbastanza “grazie” a Papa Giovanni e a Paolo VI, che con il Concilio ci hanno fuso in un’unica realtà mondo e chiesa con elementi di lotta e di liberazione»[7].

In realtà, uno degli equivoci che ha generato in definitiva la secolarizzazione della Chiesa e la sacralizzazione del mondo è stato proprio questo: una sorta di fusione tra la Chiesa e il mondo. Partiti dalla non contrapposizione, si è arrivati a fare del mondo quasi la categoria chiave della teologia. La pluralità delle filosofie moderne è stata vista come possibilità e validità di una pluralità di “teologie nuove”. Tante filosofie tante teologie, dimenticando però che la teologia è la scienza che studia Dio, l’Uno e il Trino, un mistero che viene dall’alto.
Una lucida analisi di questo smarrimento teologico, sì da esser fieri della nascita e dello sviluppo di teologie plurali e a volte anche in contraddizione l’una con l’altra: una teologia della morte come una teologia della prassi o della speranza o della Croce, fu fatta dal più che nonagenario cardinale Pietro Parente, il quale diceva che la crisi della teologia, dipendeva dal fatto che, soprattutto dopo il Concilio, si è accentuata «la tendenza alla problematica, che invade anche le scuole, dove via via si abbandona il metodo sistematico per inseguire il metodo della ricerca e della monografia. Pian piano S. Tommaso è sostituito da autori personali, amanti più dell’analisi che della sintesi e senza scrupoli si preferisce procedere dall’errore e dall’opinione verso il principio classico della Teologia ufficiale. Risultato di questo metodo è il frammentarismo spesso disorientante e, peggio, una vena di scetticismo riguardo alla verità»[8].

Una lettura contestualizzata del Vaticano II per capirne la portata e la validità
Il Concilio è da giudicare nell’arco spazio-temporale nel quale si colloca. Si tratta di un tempo tormentoso e conteso tra una speranza di risurrezione nel dopoguerra con l’incentivo materialistico, e la delusione di vedersi sempre più privi di un denominatore comune, che potesse veramente unire senza meramente globalizzare. La cultura annaspa tra un coraggioso sguardo alla modernità, vista non più come nemica e il tramonto della stessa epoca moderna con l’inizio di un’epoca post-moderna e post-cristiana, degenerante presto nel relativismo, quale sfiducia fondamentale nella verità e quindi nel nichilismo.
Questa è la lettura che dà ad esempio J. Ratzinger di questo periodo:
«Lo spirito della modernità e la Chiesa non si guardavano più con ostilità, ma camminavano l’uno verso l’altro. Il Vaticano II era cominciato in questo clima ottimistico della riconciliazione finalmente possibile fra epoca moderna e fede; la volontà di riforma dei suoi padri ne era plasmata. Ma già durante il concilio questo contesto sociale cominciò a mutarsi»[9].
Infatti, ci fu il ’68, che in quanto rivoluzione culturale, significò la rivolta dell’epoca moderna contro se stessa, dice Ratzinger. La società democratica e liberale appariva ora come un carcere. Il risultato così bramato di una ragione capace di autogovernarsi e di autocrearsi, appariva ora come una formula costrittiva, nascondente il pericolo di una schiavitù dell’uomo a causa dell’uomo. L’uomo, invece, voleva essere libero da ogni cosa e anche da se stesso.
Così continua Ratzinger:
«La riconciliazione fra epoca moderna e fede, che in qualche modo era stata un’idea conduttrice del Vaticano II, era così messa in discussione nella sua forma concreta. Quell’epoca moderna, con la quale si era cominciato a riconciliarsi non doveva più esserci. La rivoluzione iniziatasi si rivolgeva contro di essa, per realizzare la vera novità, il progresso definitivo. Questo dramma adombrò necessariamente la recezione del concilio e suscitò le note posizioni contrapposte»[10].
Vi era chi si vedeva in ritardo rispetto al progresso e accelerava sul motore riforma e chi invece vedeva nella resistenza allo stesso Concilio una via di salvezza.
Comunque, le posizioni contrapposte si erano già delineate prima del Concilio, sono presenti nel Concilio e poi permangono dopo, accentuandosi. Il Concilio si dipana in questo periodo di forte crisi identitaria della cultura e della società, in una crisi della verità. Vuole, pertanto, non inferire con altri libelli di condanna e di proibizione, dopo quelli già dolorosi inflitti alla società e all’uomo. Cerca un punto di contatto, un’apertura al nuovo e uno sforzo di far risultare la Chiesa capace di stare al passo con i tempi, giovane e in dialogo con il mondo.
C’è una grande speranza che attraversa la grande compagine ecclesiale: la speranza di una nuova primavera per la fede e per la stessa Chiesa, così che continuasse a risvegliarsi nelle anime, adesso tramortite a causa di ideologie, che con l’arroganza del potere, avevano seminato morte e sconquasso. Per tali ragioni il Concilio opta per la pastoralità, che avrebbe potuto barcamenarsi tra il dato di fede e il dato del condivisibile con il mondo e a favore del mondo. Qui però è doverosa una domanda: c’era bisogno di un Concilio per affrontare gli argomenti dottrinali in modo pastorale?
Non si potrebbe rispondere a questa domanda, crediamo, senza far riferimento ad una diatriba che percorre il Concilio, lo attraversa ed è presente anche dopo, anche ora: quella divisione tra due modi di intendere la Chiesa: uno quale “Chiesa dal basso” e uno “Chiesa dall’alto”; una Chiesa “mistero-dato” e una Chiesa “mistero-ritrovato”. Non che il Papa optasse per la seconda possibilità e per tale ragione convocò il Concilio, ma nel senso che i dibattiti in aula, evidenziavano, da un lato un desiderio di tener ferma la fede con preoccupazioni (spesso solo) antimodernistiche e quindi dogmatiche, dall’altro, gli auspici di chi pur avendo a cuore queste preoccupazioni, voleva però assecondare il desiderio di cambiamento, di svolta, e l’unica chance risultò quella di dire la dottrina in modo nuovo ma non in modo infallibile, in modo solenne sì ma non definitorio modo.
Si tratta allora di fare un’adeguata ermeneutica dell’insegnamento magisteriale? Di valutare separatamente ogni singolo documento del Concilio? Sì è proprio qui, crediamo, che si nasconda un’adeguata risposta alla domanda prima sollevata.

Nel Concilio, nella sua preparazione e nella sua esecuzione, i nodi vengono presto al pettine: come affrontare le dottrine dogmatiche? Come parlarne? Certo non in modo infallibile; ma il linguaggio teologico che ha di mira un fine pastorale non poteva riguardare unicamente tematiche pastorali come Gaudium et spes. Doveva confrontarsi anche con i temi legati al Deposito della fede. Si desiderava un rinnovamento anche teologico e un’apertura alle nuove acquisizione nei vari campi: biblico, patristico, liturgico, storico. La fede doveva progredire, ma il Concilio non voleva assumere un carattere dogmatico, perché sarebbe stato anacronistico. Questi due livelli si incrociano e danno adito spesso ad equivoci. Questo, nella formazione grossomodo di due schieramenti all’interno delle stesse Commissioni preparatorie, come nella stessa aula conciliare, porterà poi ad un garbuglio che si riflette nel post-concilio: uno smarrimento del mistero-Chiesa.
Sembra strano, eppure nonostante che il Concilio abbia insistito sul mistero-Chiesa, il post-concilio ha evidenziato una carente visione teologica della Chiesa, bypassando lo stesso tenore del dettato conciliare. Qui si vede che un pre-concilio passando dritto per il Concilio è sfociato con accenti ancora più amari nel post-concilio. Il Concilio ha tentato di arginare questa corrente (soprattutto renana convergente in quella romana: il Reno nel Tevere) ma ha dato anche piena cittadinanza all’approfondimento – non si poteva riprendere sic et simpliciter il dato manualistico e scolatistico di una certa teologia – molto spesso nuovo ma per certi versi tendenziosamente a discapito dell’antico, o letto, in nome della pastoralità post-conciliare, quasi in opposizione ad esso.

Ora, c’è chi si appella alla pastoralità del Concilio per fare iniziare la Chiesa dal Concilio; chi si appella alla dogmaticità del Concilio perché Concilio Ecumenico e così salvarlo dalle dure invettive tradizionaliste, ma col rischio di trasformare tutti i suoi documenti in dogmi; chi infine – come riteniamo che sia più corretto – vede nel Concilio un progresso teologico (dogmatico?, sì ma nel senso di progresso del dogma della fede e non nel senso di infallibilità del dato approfondito in Concilio) da valutarsi con il metro teologico e alla luce della scientificità teologica, in quanto magistero autentico ordinario e non infallibile, suscettibile di miglioramenti, di ulteriori approfondimenti come di verifica di questi quarant’anni o poco più di rinnovamento conciliare.
Quello che risulta ora guardando il mistero-Chiesa, è senza dubbio un fatto: è prevalsa la rottura e il nuovo inizio della Chiesa. Lo vediamo anche da altri effetti collaterali, per così dire: il grande imbarazzo e l’avversione che ha suscitato il Motu proprio “Summorum Pontificum” di Benedetto XVI, la levata di scudi dinanzi alla remissione della scomunica ai Vescovi ordinati da Mons. Lefebvre (perché se bisogna tanto occuparsi dell’ecumenismo, non bisogna tentare anzitutto ogni strada per ricucire le fratture interne alla Chiesa?), un crescente imbarazzo per la proclamazione di Pio XII venerabile. Dinanzi a questi avvenimenti ci si chiede: era questo il senso della collegialità dei Vescovi voluta dal Vaticano II? Non è forse vero che siamo dinanzi allo stesso punto di partenza: come capire ed approfondire il rapporto giurisdizionale tra Romano Pontefice e Collegio dei Vescovi?

Perché però, dopo tutto, ha prevalso la rottura? A questa domanda non si può rispondere senza andare a quel “mysterium iniquitatis” che purtroppo asservisce e regna.
Il Card. Suenens – Padre del rinnovamento pentecostale e non carismatico, come amava definirsi – in un’intervista dichiarò:
«In Concilio ci siamo affidati docilmente allo Spirito Santo, e il Concilio ci ha condotti là dove non volevamo andare, o almeno, non pensavamo di andare…»[11].
Gesù, invece aveva detto che lo Spirito è come il vento: si sente la voce, ma non si sa da dove viene e dove va (cf. Gv 3,8).

[1] W. Brandmüller, Il Concilio di Pavia-Siena 1423-1424. Verso la fine del conciliarismo, Cantagalli, Siena 2004 (or. ted. Das Konzil von Pavia- Siena 1423-1424, Schöningh, Paderborn, München, 2002).
[2] Citata in Quando il Vaticano II trovò finalmente la sua strada. Intervista al Cardinale Leo Jozef Suenens, in G. Svidercoschi, Inchiesta sul Concilio. Parlano i protagonisti, Città Nuova, Roma 1985, in p. 27.
[3] Cf. Ibid., pp. 24-27.
[4] G. Palazzini, Il Concilio Ecumenico Vaticano II tra cronaca e storia, Città Nuova, Roma 1966, p. 211. L’A. denuncia un fatto importante: le discussioni conciliari avvenivano normalmente in sede di Commissione e non di Congregazione generale, per cui la maggioranza dei Padri riusciva a orientarsi a mala pena sui temi contrastanti. La larga concessione fatta ad ogni Padre di suggerire idee, proposte, modifiche ed emendamenti all’infinito, senza la presenza di Cardinali legati – una novità di questo concilio – che moderassero le discussioni con autorità, fu propizio allo generarsi di interminabili declamazioni e ripetizioni di frasi fatte, senza un apporto proficuo per il dibattito, cf. Ibid., p. 216.
[5] L. Bettazzi, Non spegnere lo Spirito. Continuità e discontinuità del Concilio Vaticano II, Queriniana, Brescia 2006, p. 9.
[6] Ibid., p. 10.
[7] Aa. Vv., Il Vaticano II nella Chiesa italiana: memoria e profezia, Cittadella, Assisi 1985, pp. 186-187.
[8] P. Parente, La crisi della verità e il Concilio Vaticano II, Istituto Padano di Arti Grafiche, Rovigo 1983, p. 83.
[9] J. Ratzinger, Paolo VI avvocato della persona umana, in «L’Osservatore Romano» del 22-23 novembre 2010, p. 4. Questo testo fu scritto dal Card. Ratzinger nel 1995, ed è contenuto nel recente volume a cura di L. Scaraffia, Custodi e interpreti della vita. Attualità dell’enciclica «Humanae vitae», Lateran University Press, Roma 2010.
[10] Ibid.
[11] Quando il Vaticano II trovò finalmente la sua strada. Intervista al Cardinale Leo Jozef Suenens, cit., p. 31.

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