lunedì 13 dicembre 2010

Guareschi e la Messa di sempre


Tratto da "Il settimanale di Padre Pio"
5 Dicembre 2010 - n.48

di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro
Lettere ad un amico ateo
Don Camillo… tenga duro!



Dalle pagine di Guareschi emerge la lucida consapevolezza - già al suo tempo! - del problema dell'''aggiornamento'' nella Chiesa. L'Autore, attraverso i personaggi, conduce la sua battaglia in difesa di quella Liturgia che «ci arriva dalla profondità dei millenni... dall'eternità.».

Caro amico ateo, prima o poi, dovresti deciderti e accompagnarci in quel giro nella Bassa guareschiana di cui ti parliamo da tempo. Bisogna entrare in una di quelle piccole chiese tirate su con amore ruvido e persino un po' riottoso lungo la riva del Grande Fiume, poi genuflettersi, fare il segno di croce e guardare il Tabernacolo: dopo pochi istanti, lo splendore del vecchio altare, quello rivolto al Signore, conquista lo sguardo e l'anima. II "tavolino da mensa" che gli è stato posto davanti scompare come un lumicino nel mezzo di un incendio.
«lntroibo ad altare Dei», le parole del Sacrificio tornano a riempire l'aria, si rincorrono tra le volte minute, i banchi malfermi, i paramenti lisi e impolverati, poi divengono luce. Giovannino Guareschi è sicuramente lì vicino, in qualche angolo, a godersi quel miracoloso spettacolo frutto della Comunione dei Santi. La chiesetta si popola di fedeli che hanno amato, che amano e che ameranno la Messa di sempre, quella che negli ultimi decenni troppi uomini di Chiesa hanno tentato di mandare in soffitta. Ma inutilmente: e questo è un altro miracolo.

A metà degli anni Sessanta, proprio nel periodo in cui anche Padre Pio si inquietava per ciò che sarebbe accaduto dopo la Riforma liturgica, Guareschi provava le stesse sensazioni e mostrava gli stessi timori del Santo di Pietrelcina. L'11 marzo 1965, dalle pagine del Borghese, lo Scrittore indirizzò un'eloquente Lettera a don Camillo. II parroco di Mondo piccolo, causa intemperanze anticonciliari, era stato relegato in un paesino di montagna e lui gli dava dell'imprudente:

«Non aveva visto, insomma, come tutto, nella Casa di Dio, deve essere umile e povero in modo da far risaltare al massimo il carattere comunitario dell'Assemblea Liturgica di cui il Sacerdote è soltanto un concelebrante con funzione di presidente? [...].
È la Chiesa che, fino a ieri semplicemente Cattolica e Apostolica, diventa Chiesa di Dio. E lei, don Camillo, è rimasto indietro di qualche secolo, lei è ancora fermo all'ultimo papa medioevale, a quel Pio XII che oggi viene pubblicamente svillaneggiato dai palcoscenici con l'approvazione - vedi la rappresentazione del Vicario a Firenze - degli studenti universitari cattolici, e che, quando il produttore avrà ottenuto la sovvenzione statale, verrà svillaneggiato anche dagli schermi e dai teleschermi».

Sappiamo bene, caro amico, che tu, abituato a trattare con cattolici e sedicenti cattolici che non sono in grado neppure di capire il presente, ti stupisci al cospetto di un vero Cattolico capace di anticipare il futuro. Converrai con noi che questa Lettera, scritta nel 1965, dimostra una lucidità di analisi che avrebbe fatto comodo in molti uomini di Chiesa. Guareschi aveva intuito che anche quella rivoluzione, alla stregua di tutte le altre, era opera di una minoranza capace di presentarsi come interprete dei voleri del popolo. Trascurando il dettaglio che il popolo, come è sempre accaduto nella storia, non ha mai voluto sentir parlare di rivoluzioni.
Per questo, ti invitiamo a scorrere quella lettera fino in fondo, là dove lo Scrittore emiliano dà voce a coloro che furono costretti a subire quei cambiamenti rivoluzionari. Don Camillo, nel suo esilio, tenta contro la propria volontà di applicare la Riforma liturgica e di spiegarla ai suoi fedeli. Con poca convinzione, il povero pretone è costretto a dire ai vecchi, smarriti davanti alle incomprensibili novità, che il latino non è più di moda: non si usa più perché con quella lingua vecchia e morta non si capiva nulla, ora i cristiani devono partecipare al Sacro Rito col sacerdote.

«"Che mondo - ha ridacchiato Antonio - i preti non ce la fanno più a dire la Messa da soli e vogliono farsi aiutare da noi! Ma noi dobbiamo pregare, durante la Messa!".
"Appunto, così pregate tutti assieme, col prete", ha tentato di spiegare lei. Ma il vecchio Antonio ha scosso il capo:
"Reverendo, ognuno prega per conto suo. Non si può pregare Dio in comuniorum. Ognuno ha i suoi fatti personali da confidare a Dio. E si viene in chiesa apposta perché Cristo è presente nell'Ostia consacrata e, quindi, lo si sente più vicino. Lei faccia il suo mestiere, Reverendo, che noi facciamo il nostro. Altrimenti, se lei è uguale a noi, a che cosa serve più il prete? Per presiedere un'assemblea sono capaci tutti.
Io non sono forse il presidente della cooperativa dei boscaioli?"».

Quanto dolore e quanto buon senso spirituale nelle parole del vecchio Antonio. Quanto strazio metterle sulla pagina. Eppure, lo Scrittore della Bassa non abbandonò mai il gusto della battaglia e la certezza di stare dalla parte giusta:
«Don Camillo, io sono certo che quando lei fra poco tornerà (e la faranno tornare presto perché, adesso, in chiesa ci vanno, per far dispetto a lei, soltanto Peppone, lo Smilzo, il Brusco e il Bigio), lei troverà tutte le sue care cianfrusaglie perfettamente sistemate nella chiesetta del notaio.
E potrà celebrare una Messa clandestina per i pochi suoi amici fidati. Messa in latino, si capisce, e con tanti oremus e kyrieleison.
Una Messa all'antica, per consolare tutti i nostri morti che, pure non conoscendo il latino, si sentivano, durante la Messa, vicini a Dio e non si vergognavano se, udendo levarsi gli antichissimi canti, i loro occhi si riempivano di lacrime [ ... ].
Don Camillo, tenga duro: quando i generali tradiscono, abbiamo più che mai bisogno della fedeltà dei soldati…».

A Guareschi fu chiaro da subito che oggi, caro amico, è più evidente a un osservatore esterno come te che a tanti cattolici presi dall'ideologia modernizzatrice: che anche la Liturgia, come la Dottrina, non deve cedere alle lusinghe di un mondo che non la capisce. Molte pagine di Don Camillo e don Chichì, uscito inizialmente a puntate nel 1966 su Oggi, furono scritte alla luce di questa consapevolezza. I dialoghi tra il vecchio parroco fedele alla Chiesa di sempre e il curatino progressista ne sono la dimostrazione più evidente. E, se non bastasse il pretino rivoluzionario, in questo Libro viene a galla anche il saccente segretario del vescovo. Nel capitolo I vecchi parroci hanno le ossa dure, per esempio, don Camillo deve fare i conti con il giovane burocrate di curia perché non vuol cedere una parte del sagrato al Comune per la costruzione di un parcheggio. Così, il segretario sbotta:
«"[...] Non capisce che, oltre al resto, è un vantaggio anche per lei? Non si rende conto che molta gente non va alla Messa perché le chiese non hanno spazio per posteggiare le macchine?".
"Sì, lo so, purtroppo - rispose calmo don Camillo -. Però non ritengo che la missione di un pastore d'anime possa essere quella di organizzare dei parcheggi o delle Messe yé-yé per offrire ai fedeli una religione fornita di tutti i comfort moderni. La religione di Cristo non è, e non può essere, né comoda né divertente".
Era un banale ragionamento da prete e il segretario esplose:
"Reverendo, lei dimostra di non aver capito che la Chiesa deve aggiornarsi e deve aiutare il progresso, non ostacolarlo!"».

Era un banale ragionamento da prete. Ma era pur sempre buono se, anni dopo, lo avrebbe ripetuto il cardinale Joseph Ratzinger nel libro Il sale della terra:
«Nella nostra riforma liturgica c'è la tendenza, a parer mio sbagliata, ad adattare completamente la Liturgia al mondo moderno. Essa dovrebbe quindi diventare ancora più breve e da essa dovrebbe essere allontanato tutto ciò che si ritiene incomprensibile; alla fin fine, essa dovrebbe essere tradotta in una lingua ancora più semplice, più "piatta". In questo senso, però, l'essenza della Liturgia e la stessa Celebrazione liturgica vengono completamente fraintese. Perché essa non si comprende solo in modo razionale, così come si capisce una conferenza, bensì in modo complesso, partecipando con tutti i sensi e lasciandosi compenetrare da una celebrazione che non è inventata da una qualsiasi commissione di esperti, ma che ci arriva dalla profondità dei millenni e, in definitiva, dall'eternità».
Don Camillo e i suoi vecchi fedeli hanno compreso molto meglio di tanti intellettuali le esigenze del mistero che, attraverso la Liturgia, giunge agli uomini dall'eternità. L'amore di quel sacerdote per la vecchia Messa nasce su un suolo che non è più umano, poiché riservato al Signore, e si alimenta di carità. Trabocca affetto offerto ai poveri vecchi che i nuovi preti gettano dalle finestre delle loro chiese demistificate. II prete di Mondo piccolo, come i ruderi della vecchia guardia, porta inciso nel profondo dell'essere ciò che i pretini progressisti come don Cichì si ostinano a negare: che la Messa è l'azione dove Gesù si fa nuovamente presente perché si compia, attraverso le mani del sacerdote, il Sacrificio.
«"La sua campagna contro la guerra - dice don Camillo al curatino - per esempio, è giusta: ma non si può trattare da criminali coloro che l'hanno combattuta e, magari, ci hanno rimesso la salute o la vita".
"Chi uccide è un assassino - gridò don Chichì -. Non esistono né guerre giuste né guerre sante: ogni guerra è ingiusta o diabolica! La legge di Dio dice: non uccidere, amerai il tuo nemico. Reverendo: questa è l’ora della verità e bisogna dire pane al pane e vino al vino!”.
"Pericoloso dire pane al pane e vino al vino là dove il pane e il vino sono il Corpo e il Sangue di Gesù!", borbottò don Camillo testardo».

Una crisi di fede: c'è questo, dunque, alla radice del cataclisma. La povertà e la sciatteria del rito, insegna lo Scrittore della Bassa, sono il sintomo dell'allontanamento da Gesù Cristo e dal suo insegnamento.
Ma anche nel pieno della tempesta, Guareschi non si fece sopraffare dalla disperazione. La lucidità dell'analisi ebbe sempre come contraltare la speranza. Anzi era essa stessa alimentata dalla speranza. Non ci fu mai una nota d'odio nei suoi scritti. Neppure in quelli più violenti e polemici. Neppure laddove, ipotizzando l'istituzione dell'Organizzazione delle Religioni Unite, la sua sagacia di cattolico ordinario lo portò a capire con orrore dove sarebbe arrivato lo zelo di un ecumenismo straccione e disfattista: all'autodissolvimento del Cristianesimo in una melassa conformista e politicamente corretta. Lo Scrittore lasciò tracce ovunque di questa sua fede, della certezza che Cristo non avrebbe mai lasciato sola la sua Chiesa. Una delle più commoventi è il finale di un capitolo di Don Camillo e don Chichì.
Nonostante le interferenze del pretino progressista e del segretario del vescovo, don Camillo, riesce a riportare sull'altare maggiore il grande Crocifisso epurato dallo zelo innovatore. II giorno in cui il Cristo torna al suo posto è una vera festa di popolo, quanto di più cattolico si possa immaginare. E non manca nessuno, neanche i "senzadio" di Peppone.
«Uscì dal cancello la banda e la voce degli ottoni riempì i campi dorati. Dietro la banda, un miliardo di bambini, dietro i bambini, don Camillo che reggeva il grande Cristo crocifisso e avanzava con passo lento e sicuro. Dietro, il gonfalone del comune e poi Peppone col sottopancia tricolore, seguito da tutta l'amministrazione comunale.
Via via che il corteo avanzava, la gente ai lati della strada si accodava.
II grande Crocifisso di legno era pesante e la cinghia della tasca di cuoio che reggeva il piede della croce segava le spalle a don Camillo. E la strada era lunga.
"Signore - sussurrò don Camillo a un certo punto - prima che mi si spacchi il cuore vorrei arrivare in chiesa e rivederVi là, sull'altare".
"Ci arriveremo, don Camillo, ci arriveremo", rispose il Cristo che ora pareva a tutti più bello.
E arrivarono.
I vecchi parroci, anche quelli col cuore tenero, hanno le ossa dure e per questo la Chiesa di Cristo che grava principalmente sulle loro spalle resiste a tutte le bufere».
Deo gratias.

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